Adriano Sofri. LO SPECCHIO DI SARAJEVO. Sellerio editore, Palermo 1997. "Fine secolo" - Collana diretta da Adriano Sofri. INDICE. Non ci sono più notti normali per chi ha visto Sarajevo: p. 6. Sarajevo, via della luna: p. 15. Le uova di Sarajevo: p. 22. Itinerario per un viaggio nella città ferita: p. 30. Diario minimo dall'altro mondo: p. 36. Se Sarajevo cadesse: p. 41. Le donne fanno risorgere Sarajevo: p. 46. Mille giorni del Gulag Sarajevo: p. 51. E' finita l'ora d'aria di Sarajevo: p. 59. Sarajevo spera nello scontro in campo aperto: p. 64. Evviva la pioggia: acceca i cecchini: p. 71. Strage nei quartieri musulmani: p. 76. La vita rubata alla guerra: p. 79. Qui l'Onu è una slot-machine: p. 84. Il mio giorno da cani: p. 91. In tre anni d'assedio la vita è diventata molto più preziosa: p. 95. Battaglia a Sarajevo sulla Collina grassa: p. 98. L'incubo dell'arma chimica paralizzava la città. Ora è arrivato il terrore: p. 102. Un passo avanti o una foglia di fico?: p. 105. Il luogo comune della nostra neutralità: p. 108. Dai nostri visitatori dell'inferno: p. 113.
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Transcript
Adriano Sofri.
LO SPECCHIO DI SARAJEVO.
Sellerio editore, Palermo 1997.
"Fine secolo" - Collana diretta da Adriano Sofri.
INDICE.
Non ci sono più notti normali per chi ha visto Sarajevo: p. 6.
Sarajevo, via della luna: p. 15.
Le uova di Sarajevo: p. 22.
Itinerario per un viaggio nella città ferita: p. 30.
Diario minimo dall'altro mondo: p. 36.
Se Sarajevo cadesse: p. 41.
Le donne fanno risorgere Sarajevo: p. 46.
Mille giorni del Gulag Sarajevo: p. 51.
E' finita l'ora d'aria di Sarajevo: p. 59.
Sarajevo spera nello scontro in campo aperto: p. 64.
Evviva la pioggia: acceca i cecchini: p. 71.
Strage nei quartieri musulmani: p. 76.
La vita rubata alla guerra: p. 79.
Qui l'Onu è una slot-machine: p. 84.
Il mio giorno da cani: p. 91.
In tre anni d'assedio la vita è diventata molto più preziosa: p. 95.
Battaglia a Sarajevo sulla Collina grassa: p. 98.
L'incubo dell'arma chimica paralizzava la città.
Ora è arrivato il terrore: p. 102.
Un passo avanti o una foglia di fico?: p. 105.
Il luogo comune della nostra neutralità: p. 108.
Dai nostri visitatori dell'inferno: p. 113.
Assassini con metodo: p. 121.
Per Sarajevo: p. 124.
Noi? Guardiamo: p. 128.
Jogging sotto le granate serbe: p. 131.
Telecamere scomode: p. 135.
Davanti al mattatoio Ghali se la squaglia: p. 138.
Sotto le bombe col cuore stretto: p. 141.
Un funerale sotto le stelle: p. 146.
Segnali di fumo dal tunnel: p. 150.
L'occhio di Guernica e My Lai: p. 155.
A Sarajevo musulmani e ebrei si confondono: p. 159.
Quanti alibi sento in giro: p. 163.
Complici dei serbi, nove volte maledetti: p. 169.
L'incendio contagioso dei Balcani: p. 175.
Le tre verità di Sarajevo: p. 180.
Sognando ananas, a nove anni: p. 186.
Scontro ai vertici di Sarajevo: p. 189.
Ci si può fidare di Tudjman e del suo esercito?: p. 194.
L'Europa liberi subito Sarajevo: p. 199.
In ex-Jugoslavia la paura muove tutto: p. 202.
I disegni di Tudjman: p. 206.
Baratto su Gorazde: p. 211.
E sulla spiaggia si leggono solo i necrologi: p. 214.
Ormai solo fotografi tra le statue cadute dell'antica Dubrovnik: p.
220.
L'estate prossima: p. 226.
Belve che sbranano le prede: p. 231.
Si poteva, si doveva: p. 236.
Da Sarajevo nessuna notizia: p. 242.
Un anno fa l'orrore di Srebrenica: p. 249.
Appendice.
Le grandi paure della già-sinistra: p. 254.
Diciamo no con un digiuno: p. 262.
Non vogliamo mangiare più guerra: p. 265.
Lettera aperta ai pacifisti italiani: p. 268.
Stanno ammazzando Useppe a Sarajevo: p. 282.
La primavera di Sarajevo: p. 291.
Sul buon uso della telecamera: p. 302.
Lettrici e lettori decideranno se valesse la pena di raccogliere in libro
questi scritti.
Io ero incerto, e aspettavo di dar loro un senso migliore con un paio di
aggiunte.
Una, per ricostruire la lacerante divergenza col pacifismo ideologico, e
provare a trarne la lezione, alla luce dei fatti.
La seconda, per raccontare, tornando un 'ultima volta a Sarajevo, come
fossero cambiati i visi delle persone e le facciate delle case.
Non ho fatto né l'una cosa né l'altra, e adesso non ho più voglia
dell'una, e devo rinunciare all'altra.
Pubblico questi articoli così com'erano.
Non cambio neanche i titoli, benché non fossero miei, e spesso non mi
piacessero.
Non occorre che lo dedichi, questo libro.
Basta leggerlo, per capire a chi sia dedicato, e con quanta nostalgia.
1997
NON CI SONO PIU' NOTTI NORMALI PER CHI HA VISTO SARAJEVO (L'Unità, 27
aprile 1994)
Ho trascorso a Sarajevo in tutto due mesi dall'inizio dell'anno, e
l'impressione che ne avevo ricevuto, subito netta e sconvolgente, è
diventata via via più opaca e tetra, benché ne resti una sostanza ovvia:
che non sia possibile vita normale a chi sia passato per Sarajevo o per
un'altra delle città mattatoio della Bosnia.
Dirò alcune cose sparse che mi sembrano avvicinarsi alla verità su
Sarajevo che non si lascia dire ordinatamente.
La prima ha a che fare con la primavera precoce e ingannatrice che ha
intiepidito la città, e fatto smettere i soprabiti pesanti.
I ragazzini miei amici, che abbraccio e bacio all'arrivo e alla partenza,
e che hanno facce a prima vista rotonde e illese che gli adulti,
sbarazzati dei loro giacconi fuori misura si fanno sentire ossuti e
fragili come uccelli.
Ragazzini uomini e bambine donne, con il sogno d'uno swatch e un paio di
scarpe da tennis, con una pistola nella cintola e una gran voglia di
carezze.
Bambini che stanno in strada e ascoltano le notizie di Gorazde, dove
hanno il padre o il fratello.
Bambini che vanno a dormire al buio non c'è luce nelle loro case - e
ascoltano al buio le raffiche di mitragliatrice e gli schianti delle
granate.
Se li conoscete, quei bambini, e li immaginate, uno per uno, nel buio
freddo delle loro stanzette senza protezione, non potete più avere
notti normali, notti vostre.
E soprattutto terribile, di quei bambini che diventano vostri amici, la
vera premura protettiva che li anima verso di voi, come se la vostra età
adulta e il privilegio che vi portate addosso, di poter andare e venire,
fossero una ragione di vulnerabilità e di apprensione: come se sapessero
che non potete capire né guardarvi dal pericolo.
A volte penso che la telecamera, mezzo per me ancora nuovo ed
entusiasmante, riesce ad afferrare la verità di questa vita più
direttamente ed efficacemente: benché la telecamera debba anch'essa
chiudersi di fronte a certi sguardi troppo inermi ed esposti, a certi
gesti troppo denudati.
Soprattutto non può, la telecamera, raccogliere l'odore di Sarajevo, un
odore misto di milioni di cattive sigarette, di immondizie putrefatte e,
peggio, malamente incendiate, di surrogati miserabili di saponi e
detersivi e profumi e talchi che chiudono la gola, un miasma che ristagna
sulla città come su un malato a morte.
La cosmesi ha un posto primario a Sarajevo, e celebra insieme la propria
dignità civile e la propria impotenza di fronte all'assedio della
barbarie.
Tinture per capelli, shampoo, bistro e belletti e rossetti e lacche
troppo cariche truccano i visi delle donne, come per una recita teatrale,
con l'effetto di far risaltare il pallore delle fronti, la cavità delle
guance, l'infossatura grigia delle orbite, i vuoti plateali nei denti.
Cosmesi di guerra, come c'è una chirurgia di guerra, altrettanto
essenziale.
Le persone hanno le fotografie a portata di mano, nei portafogli e nelle
borsette, e vi invitano a casa per farvi un caffè e mostrarvi i loro
album delle foto.
Hanno da farvi vedere i loro cari morti ammazzati: i loro padri e madri,
i loro mariti e mogli, fratelli e sorelle, figlie e figli.
Ma vogliono anche mostrarvi, più cautamente, più pudicamente, le proprie
stesse fotografie di due anni fa, un anno fa appena, perché vediate come
sono davvero, prima di perdere capelli e denti e chili, prima di quel
trucco artificiale e greve imposto dall'assedio, prima, insomma.
Provano a rimediare così alla pazzia vergognosa che li ha contraffatti, e
all'equivoco per cui voi li conoscete diversi da quelli che sono davvero:
vi danno la loro amicizia, e però vorrebbero che sapeste che loro non
sono così, che ancora poco fa erano altri, che forse un giorno lo saranno
ancora e allora potrete riconoscerli.
Più probabilmente, pensano in realtà, non lo saranno mai più.
La dimestichezza con la morte di questi due anni ha prodotto in loro
anche un altro cambiamento: che non pensano più soltanto a un mondo di
vivi e morti, di già morti e ancora vivi, e sentono invece di sé come
creature un po' morte.
Quasi morte, mi ha detto una ragazza.
Sentono che è avvenuto, e che è irreparabile.
Qualcuno vi si abbandona, come si smette di nuotare contro una corrente.
Li vedete per strada, quelli che si sono lasciati andare: e non sono
sempre i più deboli, o i più anziani.
Ma in loro vedete anche una specie di distacco, di trascuratezza e di
sollievo.
Negli altri invece una fatica terribile e fatale, di cui vi vergognate.
A Sarajevo, città di saliscendi e di scalinate, da due anni e passa
persone spossate dalla denutrizione trascinano piccoli e grandi fardelli,
pezzi di legno scovati chissà dove, brandelli di lamiera, taniche di
acqua riempite alla coda delle fontanelle, batterie smontate dalle
carcasse di automobili.
Spingono slittini e carriole di fortuna.
Si fermano ansimanti ogni po' di metri, con lo sguardo spento e il petto
rotto.
Salgono, vecchi o invalidi, ai loro piani di abitazione, il decimo piano,
o il quindicesimo, col piccolo peso del pacco umanitario conquistato dopo
ore di coda, negli edifici squarciati in cui l'ascensore è un patetico
ricordo.
Questa fatica è essa stessa una malattia, e i sarajevesi sembrano
riconoscervisi come i pazienti di uno stesso reparto d'ospedale.
Sembra che, non tanto una caduta di solidarietà e una brutalità, ma una
convenzione tacitamente ammessa e una elementare necessità di economia
delle forze abbiano cancellato da Sarajevo l'aiuto reciproco e l'impulso
a darsi una mano.
Nessuno aiuta la vecchietta che tira stremata la sua soma inciampata in
una buca della strada, e se l'aiutate la vecchietta sarà la prima a
meravigliarsene: come se fosse inteso che ognuno debba fare da sé.
Al tempo stesso, tutti fanno uno sforzo sovrumano per fare come se la
vita continuasse, come se nella paura e nella follia si potesse ricavare
ogni momento di nuovo una normalità.
Normale, parola altrove derisa, è il motto eroico iscritto sulla decorosa
bandiera dei sarajevesi.
Devono sapere, i sarajevesi, che ciò che è toccato loro ha devastato per
sempre la vita normale, e li ha fatti impazzire, li ha feriti nel
profondo del cuore e della mente.
Lo sanno, ma non rinunciano al proprio buon diritto e alla propria
coscienza dignitosa.
Hanno visto i loro nemici vicini e lontani, i briganti fanatizzati
reclutati nelle campagne della Serbia o del Montenegro e scagliati contro
le città bosniache, o i loro vicini di ieri indemoniati da una voglia di
sangue e di ferocia contro i propri stessi membri di famiglia: l'hanno
visto, non hanno voluto crederci e insieme si sono detti di averlo sempre
saputo possibile.
Si sono guardati da quella follia, l'hanno disprezzata, hanno rivendicato
la propria civiltà socievole e il proprio amore per la città contro la
barbarie primitiva, urbicida, infoiata di passione per la forza e le armi
e di smania razzista e sterminatrice.
Hanno rivendicato, con più determinazione e precisione sotto la bufera
che li massacrava e li umiliava, la propria appartenenza al mondo della
civiltà e dei diritti, della libertà e del rispetto per la vita e del
piacere delle differenze: al mondo dell'Europa e delle sue capitali,
delle Nazioni Unite e delle loro sacre carte.
Questo mondo li ha ripagati dichiarando che l'aggressione
nazionalcomunista che essi subivano era una guerra civile - quanti ancora
pronunciano questa infame menzogna, per ignoranza, o per cinismo, o per
la carezzevole nobiltà di una posizione apparentemente neutrale.
Questo mondo ha attivamente impedito che la Bosnia, Stato sovrano e
riconosciuto, potesse procurarsi le armi per la propria difesa contro la
schiacciante supremazia militare degli aggressori.
Questo mondo ha ipocritamente dichiarato sotto la propria protezione le
città e i paesi lasciati in realtà in balia dei massacri sistematici.
Negli scorsi dieci giorni, fra i 65 e gli 80 mila bosniaci abitanti o
rifugiati a Gorazde, una delle città dichiarate protette dalle Nazioni
Unite, sono stati lasciati alla mercé del mattatoio annunciato e
perpetrato dai nazionalcomunisti di Mladic e Karadzic, mentre i cialtroni
che rappresentano la legalità internazionale proclamavano prima che a
Gorazde non c'è alcun pericolo, poi, mentre il sangue correva nelle
strade, che la situazione è fluida, infine che l'Unprofor è lì a
difendere se stessa e non le città.
E a massacro avanzato, dopo un altro ultimatum imbelle, e una sequela di
umiliazioni subite per mano dei banditi serbi, l'Unprofor è alla fine
arrivata tra le macerie di Gorazde a evacuare i superstiti: cioè, a
soccorrere tardivamente gli scampati, ma anche, nella brutale sostanza, a
finir l'opera della pulizia etnica.
Negli stessi giorni, a Sarajevo, gli "snajper" ricominciavano a tirare al
bersaglio dei passanti, agli incroci di strada e sul tram: e si
risentivano le granate.
Così i cittadini scoprivano - ma anche questo, l'avevano sempre saputo...
- che la tregua e la fine delle sparatorie sulla città sono una
capricciosa concessione degli assedianti, e che la protezione
dell'Unprofor è un bluff destinato a durare quanto il capriccio dei capi
serbi.
Ai cittadini di Sarajevo accettare questa verità, pur dopo due anni e
mezzo di conferme sanguinose, costa moralmente e intellettualmente mille
volte di più che aver dovuto scoprire di che cosa erano capaci i capi e
gli scherani serbonazionalisti.
I cittadini di Sarajevo non sanno spiegarsi come ciò possa avvenire in un
mondo vicino, in cui hanno tanti amici personali, di cui conoscono le
lingue, di cui vengono a sapere, sia pure attraverso la cortina di
silenzio che li avvolge, che un film sul genocidio nazista degli ebrei ha
un successo trascinante.
I cittadini di Sarajevo ripetono all'Europa che il fascismo è tornato nei
panni del nazionalcomunismo grande serbo e dei suoi alleati nella Russia
di Zhirinovskji, che gli stermini razzisti perpetrati in Bosnia
Erzegovina e nella ex-Jugoslavia minacciano l'Europa e il mondo delle
democrazie come negli anni Trenta le prove generali della guerra di
Spagna e poi le invasioni naziste.
I cittadini di Sarajevo, nei loro appelli, pronunciano ancora le parole
fascismo internazionale come se fossero autoevidenti: ingenui.
I cittadini di Sarajevo si chiedono come sia possibile che i pacifisti e
le persone di buona volontà, gli stessi di cui hanno più volte
sperimentato la solidarietà e la dedizione, non manifestino per approvare
e anzi sollecitare e imporre l'intervento armato internazionale, e
addirittura facciano l'opposto: o non muovano un dito e non dicano una
parola, come tutti gli altri, mentre a Gorazde - o altrove, ieri e domani
- si macella lentamente una popolazione di inermi.
Le persone di Sarajevo si chiedono quanti anni, e quanti milioni di altre
vittime, ci separano dal giorno in cui nomi come Gorazde saranno
celebrati come Guernica o Marzabotto, e si faranno grandi film sul loro
martirio.
E' soprattutto per questo che i cittadini di Sarajevo sono impazziti.
Si può essere assediati, decimati, torturati, vilipesi: ma bisogna sapere
che, di là dai nidi degli sparatori e dai fili spinati, di là dalle
barriere della città assediata e devastata, c'è una comunità di persone
libere che sentono e pensano come noi, che sentono e pensano a noi.
Perciò, nei gesti e negli sguardi dei sarajevesi mi è sembrato di vedere,
negli ultimi quindici giorni, benché non ci siano stati bombardamenti né
stragi nella città, passare un'amarezza disperata e finale.
Un po' com'era successo con la primavera precoce, anche per la tregua e
la promessa di una normalizzazione è arrivata la gelata.
A Sarajevo primule e pervinche sono fiorite, dapprima di nascosto, sulla
terra fresca dei cimiteri, poi nei giardini.
Gli spazi di terra non vengono più inseguiti, palmo a palmo, dalle nuove
tombe, e all'opposto vi si moltiplicano gli orticelli di guerra,
meticolosamente recintati con ramoscelli, cordicelle, avanzi di lamiere e
di plastiche.
Il tram si è fermato per mezza giornata, dopo che i cecchini hanno
sparato su quattro passeggeri, poi è ripartito, e anzi ha ripristinato il
percorso intero, fino al cuore della città vecchia.
Il semaforo funziona, e lo si rispetta con grande legalitarismo.
Uno stipendio mensile è ancora di due marchi o tre.
Un chilo di caffè costa ancora ottanta o cento marchi.
Al semaforo, la gente corre per evitare i tiri degli "snajper", ma si
ferma lo stesso al rosso.
Gente normale, in una città normale.
Ecco perché fate bene a non andare a Sarajevo.
Potreste star male.
Potrebbero venirvi dei pensieri, sul caffè e sui semafori, sul fascismo
internazionale e sull'Europa, sui cosmetici e sui danni del fumo.
E sulla canzone che i passeri di tutto il mondo continuano a cantare, ma
a Sarajevo si capisce più distintamente: E' uno scherzo, uno scherzo, è
tutto uno scherzo.
SARAJEVO, VIA DELLA LUNA (Cuore, 7 maggio 1994)
Vorrei spiegarvi l'impressione della prima sera in cui percorsi al buio
le strade di Sarajevo, su un'auto che correva a fari spenti, slittando
sul ghiaccio, per eludere il tiro dei cecchini.
Il guidatore - poi è diventato mio amico, lo chiamano avantreno, perché
una volta una granata centrò la parte posteriore della sua macchina, e
lui proseguì di corsa su due sole ruote, fino a ripararsi dietro un muro
accendeva ogni tanto per un momento i fari, e in quella luce breve e
spettrale scoprivo una folla di pedoni che marciavano ai bordi della
strada, e anzi schizzavano via al passaggio dell'auto in un modo patetico
e buffo, come pesci davanti alla prua di una barca a motore, o come
ranocchi in un ruscello.
Quella moltitudine di figurine rapide e solitarie svelate come in
un'impresa clandestina dal bagliore di un faro, che si affrettavano
ciascuna a una propria meta, mi fecero sentire davvero come un visitatore
all'inferno.
La sera dopo, benché avessi ricevuto raccomandazioni di stare in guardia
dai cattivi incontri, dai ladri e dai banditi, non vidi l'ora che facesse
buio - veniva presto, era ancora inverno pieno - per aggirarmi nelle
strade, uno fra tanti, sconosciuto e irriconoscibile, appena illuminato
ogni tanto dal passaggio rischioso di un'auto o da una lama di pila
balenata dalla mano di un pedone o di un ciclista.
Nessuna città permette così presto di appartenerle come la Sarajevo delle
notti tenebrose e svelte, subito prima dell'ora del coprifuoco.
Mi era bastato un giorno per essere uno fra gli altri, che sapeva dove
andare, e come conciliare il passo agli intralci della strada.
Il fondo delle strade di Sarajevo è disseminato di rosoni di granate,
grumi di pozzanghere più larghe al centro, via via più piccole ai bordi,
e il piede deve imparare ad aderire a quel suolo bucherellato.
Che si sia in tanti, ad andare a passo svelto nella notte, quando la
notte è nera e senza luna, lo si sente più che vederlo, nel silenzio
strano e attraversato continuamente da respiri un po' affannati, ed è una
misteriosa abilità che fa sì che ci si sfiori senza urtarsi.
A volte passa un ubriaco, chissà di cosa, e sventola la sua piletta
accesa dal basso all'alto, e allora decine di voci basse e imperiose lo
avvertono che spenga il suo fanale e vada in malora.
C'è, in questo muoversi fugace e occulto, simile forse a certe visite
notturne in angiporti di malavita antica, di figure di puttane e di
borseggiatori che scivolano fuori da androni e vicoli, piuttosto che
un'apprensione e una minaccia, un senso di comunanza e di sicurezza
complice: nessuno è nessuno, tutti hanno un nemico comune, e una
protettrice comune, la notte.
Io infatti vado a piedi, e la notte, oltre a tenermi al suo riparo, mi
impedisce di passare per straniero: o tramuta tutti allo stesso modo in
stranieri.
Di giorno, a Sarajevo, si è guardati subito da tutti come stranieri; per
quanto si traversi in lungo e in largo la città trascinando borse e
pacchi di cose da consegnare, in ciò simili alla gran maggioranza dei
sarajevesi, che trascinano fardelli in ogni direzione, e anche in questo
c'è un'aria di girone dantesco.
Tuttavia basta ai sarajevesi uno sguardo per dichiararvi stranieri:
forse, temo, per una floridezza delle vostre guance, o per un dettaglio
del vostro abbigliamento, o, chissà, per il vostro stesso sguardo, perché
gli manca qualcosa, un'ombra che sta in tutti gli altri.
La confidenza che i sarajevesi hanno preso con la morte può trarre in
inganno.
E' un fatto che la loro graduatoria dei rischi è diversa e spesso
incomprensibile per chi viene dall'altro mondo.
Questa modificazione è avvenuta in loro in modo inavvertito, cosicché
quando ve ne meravigliate con loro - per esempio, quando se ne stanno
distrattamente e indolentemente in un punto esposto ai tiri ricorrono,
più per cortesia che per effettiva convinzione, all'argomento del banale
fatalismo.
Quando sarà venuto il mio momento, vi dicono, non importerà dove mi
troverò, o come mi comporterò.
Io credo, vi dicono, che ciascuno di noi abbia il proprio destino.
Una donna intelligente, cui avevo obiettato che questo banale fatalismo
rischia di tramutare in un imperscrutabile disegno del destino l'infamia
e la ferocia dell'aggressione, mi ha risposto quasi risentita.
Lo so, lo sappiamo meglio di chiunque, mi ha detto.
Lo sappiamo che questa non è la nostra morte, che questo macello
all'ingrosso non è il nostro destino.
Al contrario, che ci deruba del nostro destino, della nostra morte
personale.
Noi abbiamo paura di ammetterlo verso i tanti nostri cari che sono morti,
come se ne svalutassimo la morte, ma in verità tiriamo avanti con un
unico obiettivo: scampare a questa falcidie anonima, brutale quanto
gratuita.
Noi non abbiamo voglia di vivere, di sopravvivere: al contrario, io credo
che nei più fra noi un desiderio triste ed esausto di morire si sia
insediato come una malattia.
Soltanto, vogliamo tirare avanti fino a tornare a una normalità, a
un'esistenza in cui a ciascuno sia restituita, più che la sua vita, la
sua morte personale.
In cui ciascuno possa andare incontro alla propria morte, e sfuggire al
destino anonimo e di massa di un intero popolo, che altri hanno
condannato.
Solo a questo noi miriamo davvero, noi adulti: a durare un minuto di più
di questa mostruosità.
A guadagnarci una data e una causa di morte tutta per noi: la nostra
morte personale, non quella di un popolo, di una cittadinanza, di una
guerra o di una pestilenza.
Voi non potete capirlo.
Alla vigilia dell'ultimatum che preparò una tregua pur precaria arrivò a
Sarajevo anche un anticipo di primavera.
Così, in una notte di luna, potei uscire nelle strade della città per una
vera passeggiata, in compagnia di un giovane uomo, uno scultore, con cui
ho fatto amicizia, benché lui non parli altre lingue, e io sappia poche
parole in bosniaco.
Lui, in realtà, ha uno strano repertorio di parole forestiere, tratto da
qualche catalogo di vendita e da qualche didascalia televisiva, con
improvvise infiltrazioni di parole difficili - bombastic, per esempio -
usate chissà a che sproposito, ma con un fervore febbrile: per esempio, a
bombastic prolece, una primavera bombastica, come diceva indicando lo
splendore della luna sulla Miljacka, e facendomi dubitare che quel
trasognato bombastic fosse nella sua immaginazione legato alle bombe che
piovevano dall'altro versante del fiume.
Mi ha segnalato, a un certo punto della passeggiata, che avremmo dovuto
deviare per andare in qualche posto che sapeva lui.
Lo seguii così, sempre con un'andatura piacevole da passeggiata, verso un
quartiere di case asburgiche, palazzi grigi dalle decorazioni ondulate.
Lui accendeva ogni tanto una piccola pila, più per mostrarmi qualche
cimelio della strada che per illuminare il cammino: un cumulo di scatole
di latta vuote e rosse di corned beef, un'auto bruciata e sforacchiata
dentro la quale, da un avanzo di sedile, è cresciuto un ramoscello di
chissà che albero.
In un punto si è diretto più speditamente verso un palazzo, e mi ha
indicato il portone sovrastato da due telamoni affaticati sotto il peso
di una balconata.
Una delle due statue aveva perso il braccio destro, l'altra la gamba
sinistra, il buco enorme di una granata si apriva nel bel mezzo del
balcone.
Pensai che avesse voluto mostrarmi quei due invalidi complementari, ma si
infilò deciso, e con una certa eccitazione, nel portone.
Attraversammo un andito dal quale partiva una scala, e poi sbucammo in un
gran cortile.
Era uno di quei palazzi di qualche piano, costruiti attorno a un cortile
interno, con due portoni, scale e gruppi di appartamenti su ciascun lato.
Il cortile doveva essere stato decoroso e quasi monumentale, benché
adesso fosse ingombro di carcasse e detriti.
Distinsi, aiutato dal cielo chiaro e dalla pila del mio amico, un
campetto da pallacanestro col cerchio di ferro sospeso sbilenco, senza
più tabellone; una fontana di pietra asciutta e sbrecciata; dei fili
stesi qua e là con su qualche straccio di bucato, e due grossi platani
dai rami alti troncati, e scorticati in basso come se ne avessero
raschiato via con le unghie schegge da fare il fuoco.
Attorno ai platani c'era qualche avanzo di panchina di pietra bianca
spezzata.
Il mio amico mi mostrò le pareti sul cortile, costellate di fori di
granate - come se si fossero tirate centinaia di palle di fango, capaci
di bucare e schizzare per metri attorno le loro schegge.
Poi mi indicò con insistenza i relitti di panchine attorno ai platani, e
con un buffo girotondo mimato mi spiegò che lì giocavano bambini e
bambine, e poi che bambini e bambine si sedevano per la merenda sulle
panche.
Poi mi mostrò i rami dei platani nel punto in cui erano troncati, mimò la
parabola della granata, l'inciampo fra i rami, la caduta rimbalzante
lungo il tronco, e l'esplosione poco sopra il suolo.
Aprì nove dita delle mani - nove bambini.
Poi tirò fuori un suo portafoglio, e una piccola fotografia, che illuminò
da vicino con la pila, mentre sedevamo sulla panchina rotta.
Era il viso di una bambina, coi capelli lunghi e lisci, e un'aria seria
seria.
My son disse, mia piccola.
Non disse altro, né io.
Poco dopo uscimmo dal cortile dal portone opposto, e ricominciammo la
nostra passeggiata notturna.
La luna era così chiara da lasciar vedere le ultime strisce di neve sul
monte Trebevic.
Stille nacht disse il mio amico in quel suo esperanto, bombastic moon.
LE UOVA DI SARAJEVO (Cuore, 23 luglio 1994)
Per una volta, posso raccontare una Sarajevo attraversata da un
provvisorio buonumore.
Due mesi sono bastati a portare grandi cambiamenti.
L'estate, intanto, calda anche qui, e appena mitigata dai temporali che
ogni pomeriggio scendono dai monti occupati.
I ragazzini sguazzano nella Miljacka, si tuffano con un'aria spavalda, da
marana romana.
In mutande, lasciano pesare il recupero sulla magrezza da guerra.
Ci sono ancora costole che sporgono, ma come per una dimenticanza.
Il miglior colpo d'occhio viene dai fruttivendoli, zeppi di banane,
pomodori bellissimi, peperoni, perfino angurie.
Sulle banane è scritto: 2DM.
Ne compro per dieci marchi, convinto che costino due marchi l'una (due
mesi fa costavano il doppio): me ne danno cinque chili.
Ci sono bucce di banana in terra - un nuovo pericolo.
Si trovano arance, ciliegie, perfino lamponi e fragole - a cinque marchi.
Prezzi ancora minacciosi per la generalità delle famiglie, ma è un altro
vedere.
La frutta viene dall'Erzegovina.
Gigio mi dice che c'è gente che ingrassa a vista d'occhio.
Persone preoccupate fanno jogging in giro per la città.
Mangiano soprattutto uova, i sarajevesi.
Per due anni e mezzo non se n'erano più viste.
L'umor nero di Sarajevo domandava: E' morto prima l'uovo o la gallina?.
Ora ci sono uova dovunque, piramidi di uova, cinquanta al prezzo di un
uovo di due mesi fa.
E la gente, in cambio di quel solo uovo che due mesi fa non poteva
permettersi, ora ne mangia cinquanta.
Gli faranno male, tutte queste uova.
Li si vede incrociarsi per le strade col cartone di uova in bilico sulla
mano, come in un numero di equilibrismo.
Questa fine repentina del mercato nero - è bastato riaprire una strada, e
neanche asfaltata - deve aver dato un dispiacere a parecchi.
Chissà in che cosa investono ora le fortune di guerra.
D'altra parte i più sono ancora poverissimi, perché i pomodori (nome
locale: "paradais" - era quello il frutto proibito) costano solo due
marchi e mezzo al chilo, ma due marchi e mezzo sono più dello stipendio
di un mese, per i lavoratori pubblici.
Tutti i bar sono aperti: nessuna città del mondo ha tanti bar.
Molti sono vuoti.
Da tutti viene fuori una musica, così innumerevoli canzoni si mescolano
nell'aria estiva di Sarajevo, e il vento le porta in giro.
Vestita leggera, la gente è allegra.
Il punto più debole sono le scarpe.
Di notte si spara ancora, raffiche, improvvise e arbitrarie, colpi
singoli, mortai, granate.
Nessuno ci fa caso.
Ogni tanto qualche palla fischia anche di giorno sulla testa dei
cittadini indifferenti.
Mediamente si conta un morto e un paio di feriti da cecchini al giorno,
ma non fa notizia.
La prima notte sono restato al buio - infatti, c'era l'elettricità - ad
ascoltare gli spari, e ricordarmi di quelli dei tempi peggiori.
Poi è venuto un gran temporale, e sono restato al buio a sentire i tuoni.
La pioggia benedice gli innumerevoli orti di fortuna (di sfortuna,
insomma) che sono comici e rigogliosi, qualche centimetro quadrato di
ogni ortaggio, come in un dizionario di verdure.
Pomodori e fagiolini decorano i davanzali.
Nelle case c'è l'acqua, un paio d'ore al giorno, e la luce un giorno su
tre, più o meno.
Nel centro artistico di Skenderjia si è inaugurata una mostra di
ingegneria, o ingegnosità, di guerra: le stufe, stufette, cucine,
surrogati di candele, batterie a pedale di biciclo, indumenti ricavati
dai teli di plastica dell'Onu, slittini e carriole di pezzi scombinati,
con cui la gente si è arrangiata per più di due anni.
Speriamo che, fatta la mostra, l'uso sia finito.
E' comunque il caso di un rapporto fra uso vivente e museo, fra
espediente d'emergenza e folklore che non aspetta neanche dieci minuti di
intervallo, ma li rende contemporanei e vicendevoli.
Metti il generatore domestico in mostra in galleria.
Ecco, così.
E adesso ritiralo fuori, perché hanno ricominciato.
Ora scrivo, è un'altra notte, la luce è accesa, prima un bambino ha
strillato a lungo, poi hanno cominciato ad abbaiare i cani - anche loro
si sono rincuorati - e adesso sono partite le sparatorie.
Raffiche di kalashnikov, e qualche colpo più forte e rotolante, che si
rispondono e si propagano come gli ululati dei cani.
C'è un cielo stellato e una falce di luna.
Sparano, si direbbe, perché non ne possono più di sentire la notte
disturbata dai bambini che piangono e dai cani che abbaiano.
Vorrebbero dormire, chissà.
Gigio mi ha presentato sua nonna, ha 89 anni, ha già visto tre guerre, ha
detto Gigio: la Prima Guerra, la Seconda Guerra e Questa.
Questa infatti non ha un nome suo - neanche un suo territorio: è la
guerra nella ex-Jugoslavia, in un posto che non c'è più.
Non è la Terza Guerra, se non per la nonna di Gigio.
Dal modo in cui lo ha detto: Ha già visto tre guerre, si capisce che è
stato attento a non escludere che ne possa vedere altre, se Dio le darà
salute.
Gigio somiglia a un Depardieu asciutto, era direttore del casinò, ora
aspetta, ed è nervoso.
Può capitare che, per dare una mano, stia seduto in macchina quando
parcheggiamo, come antifurto.
A volte mi viene paura che rubino l'auto con Gigio dentro.
Nel cortile del ginnasio domenica scorsa c'era un concorso canino, e
anche questo è un formidabile segno dei tempi.
Più dei cani qui erano interessanti i padroni, apprensivi e responsabili.
Spingevano i loro cani a sorridere alla mia telecamera più di quanto
facesse Anna Magnani con la sua ragazzina.
Poi ha ricominciato a piovere.
Mi hanno raccontato la storiella di quello che viene a Sarajevo, e piove.
Passano dieci anni, torna a Sarajevo, e piove, gli chiedono: Com'è
Sarajevo?.
E lui: Non male, ma piove da dieci anni.
Naturalmente viene da sostituire pioggia: Sparano da anni.
Trovo Fadil, è sempre magrissimo, ha intrapreso pochi minuti fa una
carriera di contrabbandiere di sigarette.
Mi spiega tutto: ha preso in prestito cento marchi dal cugino, ha
comprato dieci stecche di Drina, le ha pagate dieci, le rivende a undici
e mezzo, se riesce a venderne una quindicina di pacchetti al giorno in
una settimana ci guadagna quindici marchi.
Intanto arrivano due poliziotti.
Lui sparisce e mi dà un borsone con le sigarette: Di' che è tuo dice.
Così sono diventato complice di contrabbando.
Fadil non mi sembra tagliato per il business.
Rimpiange i giorni del mercato nero, cui del resto non ha preso parte: è
un infelice pescecane mancato.
A scuola è stato promosso, ha quattordici anni - l'età giusta, dice.
Non dice per che cosa: sottintende che le altre età sono ingiuste e forse
è vero.
Si guardano le partite.
Dopo che la Bulgaria ha eliminato la Germania, i cetnici si danno a gran
sparatorie di festeggiamento per i fratelli ortodossi bulgari
(fratellanza scoperta molto di recente, e del tutto pretestuosamente) e
per l'umiliazione degli odiati tedeschi.
Ragione in più, a Sarajevo, per tifare Italia contro la Bulgaria.
I ragazzini giocano a pallone in tutti gli angoli della città, e recitano
i nomi dei loro eroi.
Anche nelle partitelle di Sarajevo c'è un bambino più piccolo, agile e
gracile che viene messo ai bordi, e adibito a raccattare la palla.
Lo fa con malinconia e dedizione.
Si butta giù dai muriccioli, si tuffa nel fiume per ripescarla.
Gli altri sono impazienti, si irritano se, riportandola, la trattiene
troppo, o addirittura si attarda a palleggiarla.
Il raccattapalle aspetta il giorno in cui finalmente lo faranno giocare,
magari in porta, perché gli altri non vogliono stare in porta.
Ha scarpe più lunghe di due numeri, e slabbrate.
Cova in lui una grandezza non solo calcistica.
Fa un tifo appassionato, fra sé e sé.
Nel suo tifo gli italiani vanno più forte di tutti, con quei nomi rimati
che si possono canticchiare come una filastrocca:
"Dino Baggio Roberto Baggio Gian Luca Pagliuca"
La finale la vedo con Gigio.
Lui adora tutto dell'Italia, dalle magliette al taglio dei capelli di
Massaro.
Ci rimane più male di me.
I rigori non sono sportivi, dice.
Sono come la roulette.
La roulette era il suo mestiere.
I cetnici sparano una dose normale.
Dev'essere venuto sonno anche a loro.
Ai tempi dell'umor nero, il fotografo di Sarajevo voleva scrivere sulla
sua insegna: Fatevi la foto, subito! Stasera potreste essere morti.
Ora fa una quantità di scatti Polaroid da passaporto.
Infatti sta ridiventando faticosamente possibile uscire dalla città, e la
gente fa la coda per avere i permessi.
Quattro pose, dieci marchi.
I rollini mancano ancora, e le foto private sono un lusso.
Una signora molto anziana e dolce mi ferma e mi chiede timidamente se
potrei fargliene una, e farla avere ai suoi figli e nipotini, che sono in
Italia, e non si vedono da quasi tre anni.
Se sapesse com'era bella Sarajevo!, dice.
Tutti dicono così: com'era bella Sarajevo! Com'era dolce la vita di
Sarajevo! E' questa, oltre al dolore e all'umiliazione, l'esperienza più
profonda dei sarajevesi: che la vita di prima era dolce e preziosa e che
qualcuno, per stupidità e cattiveria, l'ha potuta d'un tratto rovinare e
distruggere.
Provano a spiegarci la lezione della vita di prima, ma diffidano di
riuscirci.
Loro stessi non l'avrebbero capito, prima.
Così, si dedicano con ogni cura ai pomodori sulla finestra e ai tumuli
dei cimiteri, che ora sono fioriti di malva rosa e scarlatta e di
violaciocche.
Girano fra le tombe, donne bambini e cani, con la dimestichezza
tranquilla con cui si sta in un giardino pubblico.Questa naturalezza
consolante non fa che segnalare più penosamente lo scandalo che si è
consumato: che fra quelli che poco fa appartenevano allo stesso
caseggiato, alla stessa classe di scuola, alla stessa squadra di calcio,
alla stessa coda a una fontana, allo stesso gruppo di passeggeri di un
tram, o di passanti di un marciapiede, alcuni sono sottoterra, altri,
vivi, vanno per le loro strade, a casa, a vedere la partita, al bar, a
fare il bagno nel fiume.
Doveva essere così, un tempo, con le pestilenze.
Tuttavia questo succede altrove, di là dall'Adriatico, in un altro mondo.
Quando ho riattraversato l'Adriatico e sono sceso, l'altro giorno,
dall'aereo canadese dell'Onu che porta da Sarajevo a Falconara, ho
trovato l'aeroporto pieno di bambini e ragazzi.
Avevano facce belle, bionde e accaldate.
Erano trattenuti lì da qualche ora per delle irregolarità formali nella
compilazione del visto d'ingresso, benché fossero ospiti invitati nel
nostro paese.
Erano bambini di Chernobyl.
ITINERARIO PER UN VIAGGIO NELLA CITTA' FERITA (L Unità, 18 agosto 1994)
Se fossi papa - diceva Cecco Angiolieri, che era di cattivo umore allora
sì che sarei contento, e tormenterei tutti i cristiani.
Se fossi stato il papa sarei andato a Sarajevo.
Anche il papa, se fosse stato in me, ci sarebbe andato.
E' stato più volte evidente, infatti, che ne aveva un gran desiderio.
Questo significa, semplicemente, che il papa è meno libero di noialtri.
Il paradosso del viaggio del papa a Sarajevo è proprio questo: che il
viaggio è importante perché a farlo è il papa, e che il fatto che sia il
papa gli impedirà, più ancora di altre volte, di fare il viaggio che
vorrebbe.
Ho letto qualche anno fa un libro del cardinale Ratzinger.
Si apriva citando vivacemente alcune scritte sui muri delle strade di
Roma.
Mi piacque quell'esordio, che dava un piglio vivace e quotidiano a pagine
di dottrina.
Poi pensai malinconicamente che Ratzinger doveva aver carpito e annotato
le futili scritte sui muri - sui laziali bastardi, o su Antonio che ama
Elvira - in qualche passaggio veloce, dal finestrino della sua auto nera,
con le tendine magari, come un prigioniero fa tesoro delle figure dei
suoni e degli odori del mondo avvertiti durante un trasferimento (anche
lì, attraverso una grata).
Naturalmente, la letteratura conosce da secoli l'immaginazione del papa
che passa, dissimulato, nel mondo e ne fa la stupefacente scoperta.
Sarebbe facile addebitare alla misconoscenza del mondo - non una
conoscenza falsa, ma una mezzo vera, dunque più rischiosa, com'è sempre
quella filtrata dalla presenza del papa - ciò che meno ci piace delle
opinioni di Giovanni Paolo secondo: e in particolare le sue sempre più
perentoriamente ribadite sulla sessualità o sulla maternità.
E' un fatto che nessuna autorità mondana ha pronunciato la protesta, il
dolore e lo scandalo per quello che si consumava nella exJugoslavia come
questo papa.
Nessuno ha dato altrettanto vigore e nettezza alla proclamazione cruciale
del diritto e del dovere dell'ingerenza umanitaria (consacrato bensì in
leggi internazionali, ma restato lettera semivuota).
Sono in molti a non volere - a non aver voluto finora - Giovanni Paolo
secondo a Sarajevo.
I primi sono i nazionalisti serbi e, fra i serbi, la loro gerarchia
ortodossa, in prima fila nell'ignobiltà etnica.
Nella chiesa cattolica croata - e dei croati di Bosnia - tentazioni
nazionalistiche non sono mancate, ma non si può dire che il papa le abbia
fomentate, e neanche che se ne sia lasciato pregiudicare.
Fra gli esponenti religiosi musulmani di Bosnia ci sono, com'è
comprensibile, di fronte all'eventualità di un pellegrinaggio papale,
sentimenti contrastanti di accoglienza e di gelosia: soverchiati dal
desiderio unanime dei musulmani comuni di ricevere il papa.
Un desiderio di quelle persone infelici e dignitose, dalla lunga
disillusione.
Infine, tra le potenze degli stati e dell'Onu, il viaggio del papa è
sentito per lo più come un'interferenza, una concorrenza, una gran
seccatura.
Quanto all'entourage più stretto del papa, è ragionevole che senta delle
preoccupazioni.
Così ragioni di stato e di religione e private cospirano a impedire il
pellegrinaggio del papa.
Nei giorni scorsi, quando sembrava che fosse un fatto compiuto, qualcuno
ha pregato che il papa circoscrivesse la visita a una breve discesa
all'aeroporto di Sarajevo.
Benché non sottovaluti il valore simbolico delle cose, soprattutto
trattandosi di papi, mi si è stretto il cuore.
L'aeroporto di Sarajevo è un campo cintato distante dalla città e dalle
persone che non siano militari dell'Unprofor, ufficiali e soldati
spaesati o, per mascherare lo spaesamento, bruschi e scostanti.
Se il papa scendesse lì, i sarajevesi ne sentirebbero tutt'al più parlare
come di un evento remoto e aeronautico.
Il papa scenderebbe, un mulinello di polvere rossastra gli sporcherebbe
il vestito bianco, dei militari cortesi ma fermi lo tirerebbero via in
fretta mentre cerca di chinarsi a baciare la terra, per paura degli
"snajper".
Sarebbe risospinto su un aereo, senza vedere più di qualche cocuzzolo di
colle tra i cui boschi è passato un pettine di ferro - e il titolo dei
giornali e t.g.: Il papa a Sarajevo.
Nemmeno questo, probabilmente, gli sarà permesso fare.
Peccato.
Ma il papa, forse, perderà la pazienza.
Successe perfino a Gesù.
Perderà la pazienza e farà di testa sua.
Oppure, più mitemente, pregherà molto e diventerà, per qualche ora,
invisibile, o visibile in altre fattezze.
Libero.
All'aeroporto, com'è per tutti, il suo viaggio comincerà, anziché finire.
Lungo il tragitto guarderà le case sventrate, le lenzuola e i teli di
plastica stesi per rendere, pateticamente, le persone invisibili ai
cecchini.
Scenderà in centro, starà attento a dove mettere i piedi sull'asfalto
bucato dalle granate come da schizzi di pozzanghera.
Imparerà a conoscere la città lasciandosi portare dal caso, e dagli
incontri.
Incontrerà, forse, la mia amica Iseta - è facile riconoscerla, dai cani
randagi che l'accompagnano e dalle scatole di cartone che si porta
dietro, oltre che dal gesto con cui si aggiusta il fazzoletto quando
qualcuno, raramente, si sofferma a guardarla.
La prima volta mi aveva detto, Iseta: Tanti saluti al papa, in tedesco.
Era ingenua, pensava che io potessi incontrare il papa, e che il papa
potesse ricevere i saluti della gente.
L'ultima volta che l'ho incontrata Iseta era in forma.
Lei è musulmana e usa sempre un intercalare che al papa potrebbe piacere:
grazie a Dio.
Non ho più nessuno, dice, né la casa, ma grazie a Dio sono viva.Il papa,
naturalmente, vorrà entrare nella sua cattedrale: è lì, a pochi metri dal
mercato del più famoso massacro, tutti i sarajevesi ci passano e ci
ripassano davanti nella passeggiata della dolce serata estiva.
L'abside della cattedrale è coperta da una grande vetrata a colori.
Al centro c'è naturalmente la crocifissione, e i proiettili si vedono
bene i buchi dall'esterno - l'hanno colpita in modo tale da spezzare la
lastra che formava il torace di Cristo.
Così, per un caso singolare, il Cristo in croce ha un vuoto bianco al
posto del petto il papa forse vorrà leggervi qualcos'altro che il caso, e
in ogni modo è un'immagine suggestiva.
Il papa visiterà poi invisibilmente i cimiteri: non occorrerà che li
visiti, ci si passa continuamente attraverso, a Sarajevo, perché i
cimiteri erano già tanti, di tante devozioni, e ora anche i giardini
pubblici e privati sono diventati camposanti.
Se l'8 settembre sarà una bella giornata - perché non dovrebbe, un giorno
così speciale? - il papa potrà andare a guardare i tuffi e le nuotate dei
ragazzini nella Miljacka, e, con l'aria di giocare con i sassolini del
greto, li benedirà.
Di lì, dalla Biblioteca Moresca, potrà salire su un tram.
I tram di Sarajevo - i più antichi d'Europa - sono rossi, salvo uno, il
prediletto dei bambini, che è giallo e azzurro.
L'anima di Sarajevo è nei suoi tram.
Per questo i cecchini si accaniscono tanto sui passeggeri.
Il papa farà tutto il lungo itinerario del Viale dei Cecchini - l'ultimo
tratto libero prima di tornare all'aeroporto.
Avrà così l'agio di guardare il viso, gli occhi, i polsi e le scarpe dei
suoi compagni di viaggio, e di dedurne le storie di questi due anni e
mezzo.
A un certo punto il papa si sentirà guardato a sua volta con insistenza
da una vecchina magra e con gli occhi scuri.
La vecchina gli dirà, in una lingua strana ma misteriosamente
comprensibile a un papa polacco: Lei non è un passeggero.
E con l'aria di armeggiare con la sua borsa di rete lo benedirà.
DIARIO MINIMO DALL'ALTRO MONDO (L'Unità, 20 novembre 1994)
C'è sempre un tocco amaro in più nelle storie terribili di Sarajevo.
Si sarebbe tentati di chiamarlo destino; ma non bisogna togliere agli
assassini neanche una briciola del loro merito.
Parecchie persone di Sarajevo avevano cercato riparo dall'assedio a
Zagabria, o a Belgrado, se la lotteria etnica glielo permetteva, e se
avevano parenti.
La bambina di tredici anni ammazzata da un cecchino mentre era in casa,
qualche giorno fa, era rimasta con sua madre a Belgrado fino a poco
prima.
Poi avevano deciso di rientrare e ricongiungersi col padre.Il cecchino
aspettava.
Ieri, lì vicino, hanno ammazzato un bambino di sette anni.
Alla tempia, un tiro magistrale .
E' facile equivocare su come vanno le cose a Sarajevo.
E' il 19 novembre, e continua una luminosa estate di San Martino, estate
dei poveri la chiamano qui.
Un supplemento di grazia: è anche una luce ideale per la mira degli
"snajper".
C'è la luna piena, e anche le notti, nonostante il buio delle case, sono
chiare. L'umor nero della città è l'unico a rifiorire con l'inverno e
l'ambiguità è il suo pane.
Per esempio: i sarajevesi non vedono l'ora di uscire dalla città, e
quelli che hanno potuto farlo, spesso dopo aver provato l'esilio, non
vedono l'ora di tornare.
Gira una storiella sul tunnel, il cunicolo scavato nella terra per un
chilometro che collega Sarajevo - nel fango, carponi - al resto del
mondo.
A metà del tunnel si incontrano due sarajevesi, uno che va, l'altro che
viene, e tutti e due dicono sbalorditi: Ma sei matto ad andare là?.
Enis, che si è fatto il suo mese all'estero, e vi ha rifocillato il suo
umor nero, racconta: Tutti sanno che a Sarajevo non si sopravvive senza
fumare, però in tre anni di assedio ho contato tre persone in tutto che
mi abbiano fermato per chiedermi da fumare.
A Milano un mucchio di persone mi hanno chiesto una sigaretta.
Uno per strada mi ha perfino chiesto dei soldi.
Quando gli ho spiegato che mi dispiaceva, ma venivo appena da Sarajevo,
gli è venuto un grande spavento ed è scappato.
Sul fumo, gira un'altra freddura.
Dei ragazzi attraversano il ponte di Vrbania, quando lo "snajper"
comincia a sparare.
Scappano, ma un colpo porta via un'orecchia a uno.
Quello torna indietro e si mette a frugare.
Gli altri gli gridano: Ma sei pazzo? Corri! Lascia stare l'orecchio. E
lui: Chi se ne frega dell'orecchio.
Mi è caduta la sigaretta.
Non so se qualcuno raccolga le storielle di guerra.
I pacchetti di sigarette scadenti si vendono per strada al grido di: Tre
per dieci marchi.
Una anziana signora va dal dentista e chiede quanto le costerà rifarsi un
dente.
Quattro marchi, dice il dentista.
Facciamo tre per dieci marchi? dice la signora.
La barzelletta non è granché, ma batte dove il dente duole.
I denti scompaiono e compaiono nelle bocche dei sarajevesi, e non solo di
quelli anziani, seguendo l'altalena dell'assedio.
Nella breve e fervida tregua estiva, quando la strada blu si era aperta,
in tanti erano corsi, se potevano permetterselo, a riempire i buchi che i
due anni e passa di assedio avevano aperto nei loro sorrisi.
Ora, è di nuovo il contrario.
Tutta la città è sforacchiata, ma i buchi improvvisi nei sorrisi delle
persone sono quelli che turbano di più.
Una donna giovane, e del resto molto bella, raccontava l'altra sera della
vita sessuale propria, e dei sarajevesi.
La donna si chiama Mersiha, che vuole dire - spiega - porto, approdo: ma
nessuna nave è in vista da tanto, dice.
Il fatto è, secondo lei, che l'amore ha bisogno di un po' di attesa e a
Sarajevo nessuno adesso se la sente di aver cura di un altro per più di
qualche momento.
Lei dice che succede
con l'amore come con lo scatolame di cui i sarajevesi nauseati si cibano
da tre anni.
Apri la scatola, e devi mangiarla tutta subito, se no va a male.
E chi può prendere gusto a una cosa del genere? Le conversazioni così
sono usuali a Sarajevo, e hanno un tono insieme affabile ed esasperato.
La giovane Mersiha mi era stata presentata sì e no cinque minuti prima.
Se dovessi dire qual è la cosa più significativa dei rapporti umani nella
città derelitta, sceglierei questa intimità assoluta ed effimera, questa
confidenza senza passato né futuro.
L'ha provata forse, da noi, chi ha frequentato i rifugi sotto i
bombardamenti.
Ma non parlo dei rifugi di qui, posti fortunosi e desolati, bensì della
penombra dei caffè, o delle stanze di case in cui scende la sera, e si
resta a parlare al buio, o a lume di candela, e le persone si muovono
lentamente e a piedi nudi. Tutto si può dire per una volta sola.
Questo forse somiglia all'amore, e lo sostituisce.
L'argomento cui inevitabilmente si torna, da qualunque avvio, è la
normalità.
Siamo ancora esseri normali, noi? - si chiedono le persone - e se sì,
come è possibile? E se noi lo siamo, che cosa sono gli altri? E l'Europa?
L'Europa è infatti l'altro capo del viavai di domande sulla normalità.
I sarajevesi, dice uno, sono tutti pazzi, ma non lo sanno ancora.
Un altro racconta la storiella dell'équipe di psicologi dell'Unprofor (le
forze di protezione delle Nazioni Unite) che chiede al primo sarajevese
quanto fa tre più tre.
Martedì, risponde quello.
Il secondo: Ventiduemila.
Il terzo: Sei.
Entusiasti di averne trovato uno normale, gli psicologi chiedono: E come
hai fatto?.
Semplice.
Ho moltiplicato martedì per ventiduemila.
Enis, che è un po' matto, ma lo sa, conclude la discussione così: A
Sarajevo siamo normali, ma di una normalità, per così dire, al quadrato.
Del resto l'altro ieri sono cadute quattro granate sulla Presidenza della
Repubblica, ieri un paio, e mentre scrivo ho perso il conto dei botti: e
questo altrove non sarebbe ritenuto normale.
L'interlocutore esterno, che legge negli occhi dell'ospite sarajevese la
domanda - Vi sembriamo ancora normali? ha voglia di rimandarla a sua
volta, come allo specchio.
Per fortuna c'è subito qualcuno che alleggerisce l'aria con un nuovo
quiz: E' enorme, blu, e non serve a niente: che cos'è?.
La risposta è: l'Unprofor.
Ieri sera ho invitato a cena un po' di amici, in un ristorante scelto a
caso.
Abbiamo mangiato bene, per i tempi che corrono, e serviti da un signore
premuroso.
Durante la cena i miei commensali sarajevesi si davano di gomito.
All'uscita me l'hanno spiegato.
Al tempo delle Olimpiadi della neve dieci anni fa, Kirk Douglas era
andato a cena là, e quel signore gentile gli aveva presentato un conto di
5000 dollari.
La polizia lo arrestò e gli ritirò la licenza per cinque anni.
Il mio conto è stato ragionevole.
C'è perfino un televisore acceso, con lo schermo a strisce, ma un audio
passabile.
Certo, dove sono le nevi di un tempo? Smetto.
C'è di nuovo bel tempo, e vado in giro.
Le storie vi vengono incontro, basta uscire per strada.
Se nessuna vi ha fatto ridere, non importa.
Non fanno ridere nemmeno qui.
SE SARAJEVO CADESSE (L'Unità, 1 dicembre 1994)
La sera di lunedì anche a Sarajevo erano arrivate le cattive notizie: la
stretta su Bihac, e le dichiarazioni delle autorità internazionali
secondo cui i cetnici sono vincitori sul campo, ed esse se ne lavano le
mani.
Se dovessi dire come hanno reagito i sarajevesi, sarei in imbarazzo.
Semplicemente, non hanno reagito.
Hanno altro da fare.
Si sono scaldati la loro cena di fagioli umanitari, senza gas e corrente
elettrica, nel focherello di una stufa.
Si sono aguzzati la vista studiando una lingua straniera, a lume di
candela.
I pochi che escono ancora prima del coprifuoco delle dieci, per
incontrarsi al caffè e parlare d'altro, si sono forse lavati i capelli
con l'acqua gelata conservata in una bottiglia di plastica.
Una ragazza di vent'anni, che studia pianoforte e si esercita in una
stanza di scantinato, ha continuato a esercitarsi.
Sono passato e, come ogni volta, l'ho ascoltata dalla strada.
Il suo piano è un po' scordato, e ha il mogano bucato da una scheggia di
granata.
In compenso, suonare per tante ore al buio migliora la memoria e la
sensibilità della ragazza.
Lunedì sera suonava Chopin.
Qualche Chopin, qui o in esilio, prepara forse una musica degna della
caduta di Sarajevo.
La caduta di Sarajevo è infatti diventata possibile, benché resti
impensabile.
Questo volevano dire le notizie arrivate lunedì da Parigi o da Bruxelles.
Prima di tutto, la caduta di Sarajevo è impensabile.
A meno di immaginare una grande città, una capitale, in cui vivono ancora
poco meno di trecentomila persone, messa a ferro e fuoco da branchi di
armati sadici e ubriachi.
Le persone di Sarajevo verrebbero sgozzate nelle strade col coltello da
macellaio.
Le autorità internazionali ribadirebbero di essersi dovute rassegnare
all'impotenza.
Le catene internazionali trasmetterebbero il massacro in mondovisione.
Se per giunta l'inverno sarà un po' più inoltrato, lo spettacolo della
neve e del sangue sarà formidabile.
Ciò è impensabile per una mente che conservi un affetto umano.
Ebbene: tutto quello che era impensabile si è finora compiuto, nella
exJugoslavia e nella Bosnia-Erzegovina.
Dunque la caduta di Sarajevo è possibile, e bisogna parlarne subito.
Qui nessuna epopea accompagna l'orrore, nessun eroismo militare cadrebbe
virilmente con Sarajevo.
Per altre ragioni questa città è martire e testimone di ciò che vi è di
più alto nel nostro tempo.
I suoi cittadini non hanno compiuto gesta di valore combattente, ma gesti
minori, quotidiani, pazienti di resistenza umana.
Non il campo di battaglia, ma la resistenza oltre ogni limite nel campo
di prigionia è la sua gloria.
Gli inni, le medaglie, le frasi nobilmente retoriche non le competono: ma
la fatica ingegnosa degli espedienti per sopravvivere, l'attenzione
riservata alla dignità esteriore anche nella desolazione, i sorrisi di
cui restano capaci bocche sdentate.
Perfino il valor militare, sui fronti della Sarajevo assediata, ha
qualcosa di domestico e di carcerario.
Panni poveri, scarpe di gomma slabbrate, ragazzi che stanno due giorni e
due notti in trincee di fango e di gelo, e poi, se è andata bene,
rientrano per due giorni e due notti a casa, o sui banchi di scuola.
I capi bosniaci si erano forse illusi, nel corso della tregua estiva, di
avere riorganizzato le proprie file, e messo insieme un armamento meno
fortunoso.
La stampa internazionale ha anche lei intitolato alla irresistibile
controffensiva musulmana.
Non era così, e non poteva essere così.
La tragicommedia di Bihac, dove i raid virtuali della Nato hanno cantato
il coretto ai bombardamenti cetnici, in barba al solenne impegno di
protezione delle Nazioni Unite, ha riportato i rapporti di forza al punto
di prima.
Come al tempo di Gorazde, i controllori dell'Unprofor sono finiti
controllati a vista dai militari cetnici.
Senza cedere a polemiche troppo facili nei confronti dell'Unprofor, è un
fatto che nei tempi meno disastrosi essa si occupa prevalentemente del
proprio (lauto) sostentamento, e nei tempi peggiori della propria
particolare sicurezza.
Col passare del tempo, le rivalità fra organismi internazionali, governi,
ed emissari in loco, sono cresciute a dismisura, fino a provocare la
paralisi quando non il sabotaggio reciproco.
Tutto questo, lungi dall'impensierire Karadzic, gli ha spianato la
strada.
Gli ha permesso di giocare col mondo come il gatto col topo, lui, l'ex-
psichiatra affetto da cattiva vena poetica e da enuresi notturna - un
tratto umano, finalmente.
Fatto compiuto dietro fatto compiuto, Karadzic si è assicurato come in un
laboratorio senza rischi l'impunità.
Ogni cedimento internazionale è diventato un suo nuovo nullaosta.
Intanto sono passati tre anni, e contro un tribunale per i crimini di
guerra messo su avaramente, stanno i défilé di Karadzic a Ginevra e i
pellegrinaggi dei potenti a Pale.
Questa fenomenale sedicente "realpolitik" non ha solo ottenuto di
deridere la legalità internazionale e di calpestare i diritti umani
primari, ma di insediare ai bordi dell'Adriatico i russi, oggi di Eltsin,
domani di uno Zhirinovskji qualunque. (Se va bene Karadzic, infatti,
perché non Zhirinovskji?).
Ciò non era mai avvenuto, neanche quando per impedirlo ci voleva davvero
del fegato, come nel dopoguerra di Tito.
Così stando le cose, lo scacco matto alla civile Sarajevo non aspetterà
più molte mosse.
Vedrete che, nell'attesa e per rendere digeribile fra poco ciò che è
ancora impensabile, si moltiplicheranno le dichiarazioni roboanti sulla
tutela internazionale di Sarajevo, e i progetti più strampalati sulla sua
ricreazione.
Poi verrà la fine.
Sarajevo sarà bombardata fino a farla stramazzare.
I grandi del mondo si troveranno in qualche palazzo belga e si
confesseranno, con aria triste, impotenti.
I cetnici barbuti metteranno in scena il loro programma in bianco e
rosso.
L'Unprofor sarà impegnatissima nell'evacuazione di se stessa.
Si parli dunque della possibile caduta di Sarajevo e con essa della
catastrofe della nostra civiltà in questa fine di secolo.
Si smetta di concedere alibi al cinismo e alla viltà.
Infiniti sono gli alibi.
Quel malinteso amor di pace che suscita di quando in quando mirabili
opere di infermeria ma non disturba i macellatori.
L'equidistanza, ipocrita spesso, illusoria sempre: motivata dal pretesto
che i bosniaci sarebbero pronti a fare come i loro nemici, se ne avessero
la forza.
Intanto, non ne hanno la forza, e la differenza non è da poco.
Poi, per riconoscere l'aggressore, non si richiede un certificato di
illibatezza dell'aggredito.
Infine, la repubblica di Bosnia-Erzegovina e il suo governo sono
legittimamente sovrani e come tali riconosciuti dalle Nazioni Unite.
L'Italia, paese beato di chiacchiere e di avvisi di garanzia, avrebbe
potuto far tesoro dei pochi giorni terribili passati dalla gente dei
paesi alluvionati, delle notti del freddo, della mortificazione, del lume
di candela, per figurarsi più concretamente i quasi mille giorni
trascorsi dalla gente di Sarajevo in una condizione simile - salvo che,
in Italia, agli scampati non si sparava addosso.
Non so come se ne sia parlato.
So che qui tanti mi hanno chiesto dell'Italia, della sua terribile
alluvione.
Non sapevo come fare a raccontar loro dell'insufficienza dei soccorsi.
LE DONNE FANNO RISORGERE SARAJEVO (L'Unità, 12 dicembre 1994)
La Cattedrale di Sarajevo è un posto di appuntamenti.
Ci vediamo alla cattedrale, si dice, da qualunque religione si venga.
Ieri mattina, domenica, l'appuntamento era speciale: la prima messa da
cardinale dell'arcivescovo Vinko Pulijc.
Solennità e confidenza insieme, qualità delle chiese dove sono in
minoranza, hanno cercato di avere la meglio sul gelo dell'inverno e dei
marmi.
Di tutte le promozioni, quella cattolica al cardinalato è forse la più
sontuosa: e il contrasto fra la prostrazione, il freddo e il buio di
Sarajevo e l'elevazione alla porpora che si è guadagnata è davvero
spettacoloso.
Un onore - l'unico forse - tributato dal mondo a un uomo degno e per il
suo tramite alla sofferenza e al supplizio di una città.
Esso avviene nel momento in cui tutte le potenze temporali del mondo
sembrano mettersi in combutta per abbandonare definitivamente la Bosnia e
Sarajevo.
Di questo contrasto è vissuta la cerimonia di domenica, e quelle che
l'hanno preceduta.
Nella messa di domenica, che commemorava anche i settecentocinquanta anni
dalla fondazione della prima cattedrale a Sarajevo, sono risonati
soprattutto gli appelli alla pace e al perdono, al ritorno in sé.
Sabato sera il nuovo cardinale aveva parlato una lingua franca.
Oggi, aveva detto, si celebra la giornata internazionale dei diritti
dell'uomo: ebbene, a Bihac, a Sarajevo, alla Bosnia, non è accordata
neanche una piccola parte delle attenzioni e della protezione che il
mondo sviluppato riserva ai suoi animali domestici.
Prima di quelle parole secche attori avevano recitato, musicisti avevano
suonato, contralto musulmane e tenori di Zagabria avevano cantato.
Autorità di tutte le confessioni avevano applaudito forte per la
commozione, e per scaldarsi.
I soliti contrasti forti di Sarajevo, la città che ha ora un cardinale,
titolare della chiesa romana di Santa Clara - ogni cardinale ha infatti
il titolo di una delle chiese cardine di Roma e domiciliato in un
appartamentino a tre metri dal quale una granata ha sfondato il muro.
Il cardinale ha ringraziato tutti: in particolare, ha detto, i bambini.
Non erano tanti, nella cattedrale: solerti però a sventolare bandierine
vaticane e cuori rossi di cartone, come certi lecca lecca dei paesi
ricchi.
Tra i fedeli, di fronte alla moltitudine di concelebranti maschi attorno
all'altare, le persone più commoventi e commosse erano le donne anziane,
e le suore di tutte le età.
La gioia delle suore è davvero speciale, devota com'è ai successi altrui.
Casalinghe di Dio e dei suoi ministri, sfaccendano nella fredda
cattedrale lavando il pavimento con le maniche rimboccate, mettono in
riga i bambini, passano il dorso della mano sui paramenti per stirarli.
La loro felicitazione è riservata e assoluta.
Una di loro è sorella del nuovo cardinale: due volte.
In questi giorni, si è sentito dire che il papa ha parlato di una
speranza legata alle donne, e di un fallimento di cui gli uomini devono
ormai prendere atto.
In nessun posto è vero come qui.
Ora la percentuale di donne di Sarajevo che aspettano bambini è due volte
più alta di quanto fosse tre anni fa, prima di questo inferno.
Molti temettero che la visita mancata del papa preludesse all'abbandono
di Sarajevo.
Sta avvenendo, compresi i propositi di diserzione delle Nazioni Unite,
che riparerebbero così alla meschinità della loro presenza.
La Bosnia sarà preda di una nuova spartizione, una Polonia minore e senza
protettori, da cancellare dalla carta geografica.
Solo il papa ha fatto di Sarajevo una frontiera decisiva dell'epoca.
Qui i cattolici sono una minoranza e non esiste una questione cattolica.
Esiste una questione musulmana, e il cinismo internazionale si spiega
anche così.
Ma l'errore è qui micidiale: i bosniaci non sono musulmani senza
petrolio, il loro non è un capitolo della generale questione islamica, se
non in misura per ora secondaria.
L'eccezione dell'islamismo bosniaco - in una popolazione slava come i
suoi vicini, che parla la loro stessa lingua - sta soprattutto nella sua
storia di minoranza, da quando l'impero turco si è ritirato da queste
regioni.
Nella cultura islamica bosniaca la mescolanza e l'apertura hanno avuto
uno spazio maggiore.
Nel loro stile di vita, di Sarajevo soprattutto, un cosmopolitismo di
provincia, e un'attenzione verso le grandi capitali europee, hanno avuto
una parte determinante.
L'odio accanito che i razzisti serbi e croati riservano ai bosniaci
(diverso da quello che nutrono gli uni per gli altri, dedito alla mutua
sopraffazione) è la conferma di una legge dei razzismi profondi: che il
loro furore non è acceso dalla differenza ma dalla somiglianza.
Non da una diversità troppo radicale - un altro colore della pelle, un
costume - ma da una somiglianza così stretta da insinuare una
frustrazione e un'invidia impaurita.
Al bosniaco dal nome musulmano non si può neanche inventare il naso
adunco, né un suo libro sacro in cui esiliarsi - il Corano non lo è.
E' spesso laborioso, ha inclinazioni intellettuali e artistiche, è alieno
dalla burocrazia e dalla carriera militare.
E' un musulmano più diverso dai musulmani dei paesi dell'Islam che dai
cristiani e dagli ebrei della sua terra e dell'Europa.
E' questa singolarità che si vuole sopprimere.
Essa assimila davvero antisemitismo (e antiarmenismo) e furore
antibosniaco; al tempo stesso rende indiretta e condizionata la
solidarietà di alcuni stati islamici, e fornisce una spiegazione
terribile, benché forse non del tutto consapevole a loro stessi, del
cinismo dei governi e degli uomini di cultura liberale.
Un papa, e la chiesa cattolica bosniaca, hanno fatto eccezione alla
regola universale dell'ignoranza, della brutalità e del realismo.
Questa è la piccola buona notizia dell'arcivescovo di Sarajevo diventato
cardinale.
Alla fine della messa, i cetnici hanno festeggiato a loro volta con un
congruo lancio di granate sul centro.
L'Unprofor le avrà contate meticolosamente.
Si avvicina Natale, è l'altra buona notizia.
Un presepio qui è pronto.
La neve arriva, gli alberi sono rosicchiati fino alle radici, candele
poche, le donne sono incinte, i falegnami disoccupati, e dappertutto ci
sono angeli: al buio non si vedono, ma si sente il battito freddo che
fanno le loro ali.
MILLE GIORNI DEL GULAG SARAJEVO (L'Unità, 30 dicembre 1994)
Cominciato il 6 aprile del 1992, il tormento di Sarajevo compie i suoi
mille giorni il 31 dicembre.
La coincidenza ha un'amara intelligenza, poiché ogni giorno ha la sua
notte, e ogni notte di Sarajevo rimbomba di colpi: i nostri fuochi
d'artificio coincideranno con le mille e una notte di Sarajevo.
La sua Sheherzada (si chiama così in bosniaco) continuerà il racconto
infinito per dilazionare la condanna della città.
Mutata, nei nostri titoli di giornale, da luogo reale in evocazione
infernale, Sarajevo resta ancora penosamente sconosciuta.
Per descriverla, i suoi viaggiatori hanno fatto ricorso a ogni
espediente.
Hanno mostrato i buchi nei muri delle case, le rose delle granate fiorite
ad ogni passo sull'asfalto delle vie, le bocche sdentate.
A Sarajevo le madri affiderebbero i propri figli bambini a qualunque
visitatore di passaggio, col pensiero di non rivederli mai più, pur di
mandarli lontano da quegli spari e da quella tosse.
E' strano che questo non sia diventato un rovello insostenibile per le
nostre notti.
I viaggiatori a Sarajevo ne sono presi fino al furore, e insieme resi
reticenti.
Quell'inferno non ha bisogno di chi vi discenda per dargli voce.
E' pieno di voci, fioche o alte, capaci di dire di sé e ansiose di farlo.
Della singolarità della nostra reazione fa parte anche la riluttanza ad
ascoltare le voci dei sarajevesi, dei passanti e dei poeti, degli
scrittori e dei venditori di tabacco agli angoli di strada.
Che da noi Sarajevo sia raccontata solo dal montaggio cruento dei
telegiornali o dai pezzi degli inviati speciali, e che tanto poco spazio
si sia fatto alla traduzione, fa parte del nostro disagio, e del
desiderio di tenere i fatti dell'ex-Jugoslavia alla distanza rassicurante
dell'esotismo.
Dopotutto Bihac è a poco più di un'ora d'auto da Trieste, e Sarajevo a
neanche un'ora di volo umanitario da Falconara.
Troppo vicino per non voltare la faccia da un'altra parte.
Dopo un certo tempo, il viaggiatore a Sarajevo trova il proprio posto,
grazie allo spaesamento stesso che finora lo metteva a disagio come ogni
sano e robusto in visita in un sanatorio.
Gli succede di ricordare i propri anziani genitori nella coppia di
coniugi in abiti dignitosamente lisi che escono, sostenendosi l'un
l'altra, dall'androne di un palazzo bombardato in cui si distribuisce un
chilo di farina e mezza bottiglia di olio, di vedere il proprio
professore di liceo nel signore avvilito che offre libri vecchi, una
penna stilografica, un cappello, a un angolo di mercatino.
Di vedere una propria giovane amica nella ragazza bella dai capelli
maltinti che serve ai tavoli di un bar a lume di candela.
Il viaggiatore smette allora, con un leggero capogiro, di vedere nella
città straniera assediata e umiliata i suoi abitanti segnati da mille
giorni e notti, per riconoscere in loro le fisionomie note e care dei
propri concittadini e amici e parenti.
Poiché un volo di neanche un'ora gli basta a tornare, il viaggiatore a
Sarajevo non ha avuto il tempo di sgombrare gli occhi e la mente da
quello scambio di figure, ed ecco che lo scambio reciproco gli si fa
incontro.
Le coppie che passeggiano ben vestite e affabilmente sicure di sé, il
professore ben rasato che sfoglia compiaciuto gli ultimi volumi
scambiando frasi superflue coi commessi di libreria, la bella ragazza dai
bei capelli, diventano sotto il suo sguardo, distorto come da una
malignità radiografica, i loro corrispondenti sarajevesi, dal passo
malfermo, dallo sguardo mortificato, dagli occhiali rotti e tenuti
insieme con un pezzo di carta adesiva, dai capelli colorati con qualche
intruglio di fortuna.
Nelle vetrine natalizie traboccanti il viaggiatore cercherà il riflesso
della propria faccia, spaventato di scoprirla illividita e sdentata e
grigia come in un vetro rotto di Sarajevo.
Così, dopo tanto tempo e tante andate e ritorni, il viaggiatore a
Sarajevo ha finalmente una propria malattia a cui badare.
Aveva rinunciato, dopo averci provato, a diventare sarajevese: non
bastava infatti andare lì, rischiare le stesse granate, sentire lo stesso
freddo.
Per essere sarajevese occorre non poter entrare né uscire nella città da
mille giorni; occorre esservi esposti al tiro a segno, alla fame, al
freddo, all'umiliazione senza averlo scelto, né avervi avuto alcuna
parte, né averlo potuto neanche immaginare; e occorre comunque essere
stati sarajevesi prima, quando la vita era vita.
E d'altra parte il viaggiatore a Sarajevo non è più semplicemente la
persona di prima, né riesce più ad appartenere in pieno al proprio mondo
- all'acqua calda della propria casa, al proprio negozio di alimentari e
al proprio programma televisivo, al linguaggio privato e pubblico della
propria nazione e della propria vacanza all'estero.
In un certo senso, si è perduto.
Le cose che cerca di dire da lì passano inosservate, o ascoltate
distrattamente, solo per una benignità nei confronti suoi e della sua
passeggera mania.
Si è perduto, per così dire, nello specchio che la Bosnia e l'Italia
costituiscono l'una per l'altra.
Di questa esperienza del viaggiatore a Sarajevo possiamo tranquillamente
fare a meno, o addirittura deplorarne un tono querulo e magari
narcisistico, a condizione di non rispondere a qualche domanda.
Per esempio, alla domanda su che cosa sarebbe avvenuto mezzo secolo fa se
fosse stato possibile ai viaggiatori andare su e giù al ghetto di
Varsavia, o ad Auschwitz, o in Siberia.
O a una variante di questa domanda (che, naturalmente, non ha bisogno di
stabilire un'eguaglianza stretta, e tanto meno una gerarchia morale, fra
gli inferni che ragionevolmente paragona): cioè, che cosa avremmo fatto,
ciascuno di noi, se avessimo saputo e visto in tempo il ghetto di
Varsavia e Auschwitz e la Siberia.
O ancora, la domanda sull'eventualità che l'incendio divampato di là
dall'Adriatico non sia davvero così remoto e impensabile ed estraneo ai
fuochi su cui si soffia qui da noi, un po' per gioco, un po' per
imparare.
E poi la domanda sulla disgrazia sulla frattura che può irrompere nella
nostra civiltà irreparabile e brutale, come nelle nostre esistenze
personali: e travolgerne le fondamenta, quello che ci siamo abituati a
considerare guadagnato una volta per tutte.
E anche la nostra idea della Storia, e la sistemazione che ci siamo
illusi di compierne per il passato della nostra parte di mondo e del
nostro secolo.
Insomma, per la nostra vita e la nostra morte.
Questa canzone canta la Sheherzada sarajevese nella millesima e una notte
dell'assedio.
Nessuno va a Sarajevo senza pensare un po' più da vicino alla propria
morte.
Ma per i sarajevesi la vita e la morte sono diventate un'altra cosa, dopo
tre anni così.
Ci abbiamo fatto l'abitudine, dicono.
Ma non dev'essere vero.
Si fanno delle abitudini, per effetto della necessità, o della
ripetizione, a modi di emergenza di provvedere ai morti, non si fa
l'abitudine alla morte.
L'anno scorso i cetnici presero a bersaglio una sepoltura, e uccisero fra
gli altri due fratelli del sepolto.
Benché le cerimonie funebri siano diventate tanto frequenti e sbrigative,
e ci sia sempre meno tempo e spazio da riservare ai morti che fanno la
fila, e spesso i funerali abbiano dovuto compiersi furtivamente e nella
penombra, nonostante tutto ciò la presenza dei morti attraversa Sarajevo.
Pagati con un soldo troppo povero e svelto, i morti si aggirano nei
luoghi degli ancora vivi con l'ansia del creditore imbrogliato.
I cimiteri islamici sono sparpagliati un po' dappertutto.
Ci sono quelli antichi e monumentali, quelli raccolti attorno alle
moschee, quelli ricavati nei parchi pubblici e nei giardini, e infine in
tutti i pezzi di terreno sgombro.
Le persone non vanno al cimitero, gli passano continuamente accanto.
Si fermano brevemente, tengono le mani aperte davanti al petto, recitano
una preghiera e riprendono la strada.
Le persone di Sarajevo passano più volte al giorno dal luogo in cui giace
il loro figlio, la loro madre, il loro marito, la loro sorella, e si
fermano a pregare e ricordarli.
Questo è molto diverso dai nostri cimiteri suburbani, in cui andiamo di
tanto in tanto, e di proposito, così lontano e a parte.
I visi delle persone che si fermano a salutare debitamente i morti a
Sarajevo, sembrano provare un disagio, come se non riuscissero a spiegare
al morto e a se stessi il loro continuare a muoversi e andare.
Il posto in cui il morto si è fermato è un vero posto, e la strada che i
vivi fanno è faticosa e ingiustificata.
Questo vale soprattutto per i vecchi, che sono più lenti e provati,
cosicché fare una sosta lungo il cammino è per loro naturale: ma del
tutto innaturale è il paragone fra la loro età e quella dei sepolti che
si fermano a commemorare.
Sempre più spesso i morti sono più giovani di una, due, tre generazioni.
I figli e i nipoti e i bisnipoti li hanno preceduti nella morte, e i
vecchi non sanno sopportare questo peso.
E' che alla morte nelle nostre società longeve si associa una pazienza, e
invece qui l'ha presa una frettolosità capricciosa e sleale.
I cristiani del Mediterraneo non possono immaginare funerali senza donne,
donne nere, piangenti e chiuse nel dolore: si muore per loro, sono loro
ad accompagnare chi muore.
Nei funerali musulmani tradizionali le donne sono assenti.
Restano a casa, a pregare.
Non devono piangere, devono farsi forza.
Gli uomini vanno a seppellire i morti nei loro cimiteri di pietre, anche
quando i morti sono donne, o figli e figlie bambine.
I musulmani tradizionali dicono: è stato un funerale davvero distinto,
non c'era neanche una donna.
E' facile vedervi una conferma del confinamento domestico delle donne.
Le donne giovani e indipendenti non si uniformano a quell'uso.
Si insiste molto sul destino, e sulla consolazione che deriva ai vivi dal
sapere che si è compiuta la volontà divina.
A parte il fanatismo della guerra santa e del martirio per la fede, che è
qui del tutto assente, questo fatalismo è davvero un tratto profondo.
Si rimanda alla fatalità perfino di fronte a una brutalità criminale e
inconsulta come questa guerra.
La morte ha dato a ciascuno il suo appuntamento.
Ma l'attenzione che i sarajevesi mettono al destino è anche un modo per
riscattare il diritto alla morte singolare, personale contro l'arbitrio
anonimo della morte di massa, della mietitura all'ingrosso.
Già nel 1966 il municipio aveva proibito ogni ulteriore impiego dei
cimiteri antichi: se avessero immaginato! Ora, quando i cimiteri
s'ingrossano delle loro annate d'eccezione, quando le generazioni sono
accomunate non dall'anno di nascita ma dall'anno di morte, diventa più
forte il desiderio, se sopravvivere non si potrà, di acquistarsi una
morte tutta per sé.
Non è vero infatti che la morte sia la grande uguagliatrice: e il
livellamento delle persone nella morte è altrettanto odioso che quello in
vita.
Così sentono forse i sarajevesi.
La nozione di morte naturale è stata travolta.
Tutti i dati sulla mortalità perinatale e infantile, su quella tra gli
adulti e tra gli anziani, mostrano una correzione sconvolgente.
Chi è passato attraverso questi mille giorni ha comunque perduto una
parte ingente della propria promessa di vita.
Si muore di cecchini e di bombe, e di stenti e di crepacuore.
Fra gli scampati comincia a insinuarsi un disagio, l'impressione penosa
che siano i peggiori a sopravvivere.
Del resto, non è un caso che la Shehrezada bosniaca rinnovi all'infinito
le sue storie: i sarajevesi girano con il proprio necrologio nel
taschino.
Buon anno.
E' FINITA L'ORA D'ARIA DI SARAJEVO (L'Unità, 3 maggio 1995)
Che cosa sarà di Sarajevo e della sua gente? In apparenza, Si recita il
consumato viavai di tutti gli ultimatum: la spola inutile e irrisa di
Akashi fra Sarajevo e Pale, le riunioni del Gruppo di contatto in qualche
capitale lontana, le facce abbronzate degli alti ufficiali dell'Onu che
ripetono frasi di bronzo.
Ma a Sarajevo si parla d'altro: del ritorno della guerra in Croazia,
della battaglia finale, dell'occupazione dell'aeroporto, del
bombardamento della città.
Corrono cifre, non so da chi e come da prima calcolate, ma poi ripetute
con la rapidità con cui l'ansia diffonde i suoi cerchi in un luogo chiuso
e soffocato: diecimila, dodicimila morti nel conto dei giorni che
verranno.
Nella città le sirene suonano prima e dopo la pioggia di granate, senza
lasciar capire se annuncino l'allarme, o la sua interruzione.
Le persone sbrigano in fretta le loro incombenze, le spese, i saluti
scambiati in strada senza fermarsi, e tornano a rinchiudersi nelle case.
Il silenzio e l'attesa svuotano la città.
La tregua, violata mille volte, è scaduta ufficialmente il 30 aprile,
domenica.
C'era una gran primavera, e per qualche ora ragazze e ragazzi sono
tornati nelle strade.
Sono stato a guardare sulle facce i segni di un altro inverno finito.
Segni promettenti, a prima vista: capigliature più curate, trucchi
femminili meno forzati, fisionomie rincuorate.
La gran differenza sta nel ritorno, da un paio di mesi, di elettricità,
sia pure razionata, e acqua e gas, sia pure per qualche ora.
Fare il bucato a macchina, cucinare, riscaldarsi, usare perfino degli
ascensori: è una risalita dal precipizio che non può intendere chi non
l'abbia provata.
Anche la vita povera si riempie così di lussi: l'acqua calda qualche
mattina, un libro letto di notte non più al lume di candela.
Al loro terzo anno di assedio e reclusione, gli abitanti di Sarajevo sono
stati restituiti a una specie di prigione dura - e coi carcerieri che
giocano al tiro a segno sulla loro ora d'aria - dalla buia e fetida cella
di tortura in cui erano stati gettati.
Questo solleva i corpi, indebolisce gli spiriti.
Sento dire: Appena tre mesi fa avere la luce e l'acqua mi sarebbe
sembrato un sogno: ora le ho, e sono avvilita.
Si sono riallacciati cavi e condutture (perfino per la corrente elettrica
è il tunnel a fare da tramite: anche la luce viene da quel cunicolo
angusto) ma non si sono riannodati i capi della speranza.
Sarajevo ha continuato a vivere alla giornata, e il 30 aprile si è
rifatta la domanda degli altri giorni: che cosa sarà domani.
Per un'ironia amara, il primo giorno dopo la fine della tregua è stato il
Primo maggio.
I sarajevesi hanno avuto il cuore stretto dal ricordo dei Primi maggio
trascorsi fuori città, al mare della Dalmazia, o sui monti che sono,
stavo per dire, a un tiro di schioppo.Non si entra e non si esce ora
nella città assediata, e i monti sono brulli dei boschi devastati e fitti
di tiratori ubriachi assassini.
Dei Primi maggio passati viene in mente l'altra faccia, le orrende parate
militari, celebrazioni, in teoria, della guerra partigiana e
dell'indipendenza jugoslava, annunciazioni, a rivederle ora, della tetra
macchina da guerra che si sarebbe di lì a poco scatenata.
Domenica, appena scoccata la mezzanotte, i cetnici della montagna
l'avevano salutata puntualmente con la stura dei loro mortai e cannoni
sulla città: un brindisi fragoroso alla fine ufficiale della tregua.
Nessuno qui sa dire cosa succederà, ma tutti hanno paura di cose
orribili.
Che la guerra combattuta divampi, che Sarajevo (e le città minori, a
cominciare dalle più esposte, Gorazde, Srebrenica) ne sia comunque
l'ostaggio.
Che una nuova trattativa, una nuova dilazione, ammesso che vengano,
esigano il prezzo di una strage mai toccata.
Ospedali e cimiteri sono preparati da giorni: spazi sgombrati, turni di
emergenza, appelli straordinari.
Domenica sera la televisione bosniaca ha trasmesso "Radio Days" di Woody
Allen.
Nessuna allusione alle ore che correvano.
Se non, involontaria, in una pista da ballo che si svuotava: Ma "chi" è
Pearl Harbour?.
Lunedì sera, invece, è andato in onda uno special sulle Nazioni Unite.
Il dato che ha fatto più impressione ai sarajevesi è stato il costo annuo
della carta igienica: un milione di dollari.
La carta igienica è fra i generi che più scarseggiano, qui, nonostante
l'Unprofor.
Oggi, martedì, mentre cade la dose regolarmente progressiva di granate, i
sarajevesi hanno appreso che sette granate hanno colpito Zagabria.
Lo scenario più probabile è quello di una guerra guerreggiata che vada
dai due fronti croato-serbi, della Krajina e di Vukovar, a Bihac, alla
Bosnia centrale, dove i bosniaci hanno riconquistato alture importanti
sopra Banja Luka, ai dintorni di Sarajevo, dove sognano da tempo un
controassedio.
Ma la sproporzione di armamenti rimane.
Per la prima volta, in un passaggio così cruciale, i giornalisti mancano.
Forse le giornate cruciali sono state troppe, e non fanno più notizia.
Del resto è troppo difficile arrivare a Sarajevo.
L'aeroporto è fuori uso, e i serbo-bosniaci lo pretendono brutalmente per
sé.
Dal monte Igman, unica via d'accesso, si viene con un altissimo rischio,
sotto il fuoco costante di mitragliatrici pesanti e addirittura di
granate.
Pochi si avventurano.
Il 30 aprile un giovane autista del governo è stato ammazzato, il primo
maggio una donna ha avuto le gambe tranciate di netto.
Avevo fatto l'Igman in pieno inverno.
Quando l'ho rifatto, pochi giorni fa, ai bordi della strada restava solo
qualche chiazza di neve, e invece ciuffi dorati di primule e tappeti di
crochi violetti.
Era un giorno di sole e cielo azzurro, maledettamente limpido: luce da
cecchini.
Nella mia auto, una giovane, medico sarajevese, ha detto, seria: Ora, chi
ha un Dio lo preghi con tutte le sue forze.
Domenica poi ho chiesto al cardinale Vinko Pulijc - un altro dei lussi
sarajevesi, il cardinale della città umiliata - di questa ennesima
condizione della città "in extremis".
Preghiamo e speriamo mi ha detto: come deve dire un cardinale.
Gli dèi erano di casa a Sarajevo, ma forse se ne sono andati.
Anche quell'ultima fra loro, la speranza, che nella lingua di qui si
dice: Nada.
Come in spagnolo per dire: Niente.
SARAJEVO SPERA NELLO SCONTRO IN CAMPO APERTO (L'Unità, 5 maggio 1995)
Il linguaggio ufficiale bosniaco non ha esitazioni: la chiama Guerra
di aggressione.
Ha le migliori ragioni, e del resto tutti hanno sempre chiamato
aggressioni le guerre altrui, e difeso le proprie.
Sono particolarmente interessato piuttosto al modo in cui la chiama la
gente.
Ebbene, la gente non le ha ancora trovato un nome.
La gente dice: Prima della guerra, o: Quando la guerra finirà.
La nomina più propriamente solo quando è costretta dal contesto.
Per esempio, quando parla di una persona vecchia, che ha visto la prima
guerra, la seconda guerra, e questa.
Questa è la terza nella vita delle persone più anziane, e tuttavia non ha
il diritto di essere nominata così perché non ce l'ha fatta a diventare
mondiale.
Così, come in una parabola orientale, il calendario sarajevese le enumera
così: la prima guerra, la seconda guerra, e questa guerra.
La guerra nella ex-Jugoslavia sta cambiando natura.
Per dirlo, occorre tuttavia mettersi d'accordo su che specie di guerra
sia stata finora, e se addirittura sia stata una guerra.
Da noi, la formula: guerra civile, ormai fin troppo consolidata rispetto
alla storia della nostra Resistenza, ha accontentato rapidamente i più.
Autorizzava l'idea (e l'ignoranza) corrente sui Balcani come groviglio
inestricabile di stirpi e tribù, e culla instancabile di macelli
bellicosi.
Ma quella facile etichetta di guerra civile ignorava due realtà decisive.
La prima, la responsabilità dell'aggressione e della violenza, raramente
così distinta, come qui nel nazionalismo grande serbo e etnico.
All'altro capo, la libertà e l'esistenza stessa della Bosnia-Erzegovina
sono state la posta accanita del doppio nazionalismo serbo e croato -
com'è evidente, per il secondo, in quel macabro monumento al mondo
spaccato in due secondo la legge del più forte e del più brutale che è
Mostar, nonostante la postuma e sforzata ricucitura.
La seconda realtà ignorata dalla nozione di guerra civile è che essa è
fin dalle sue radici guerra contro i civili, contro le popolazioni civili
e inermi, e più peculiarmente contro donne e bambini, con un'intenzione
che mescola la brutalità sessuale col genocidio.
La caratteristica che rende tutta la guerra moderna la violenza contro i
civili (così ben espressa in quella formula umanistica: mine antiuomo) -
qui è culminata fino a un'attitudine militare vile ed ebbra e insieme
impiegatizia che ama colpire da lontano e impunemente.
La metodica, monotonamente puntuale pioggia di granate e di tiri di
cecchino (o di proiettili di antiaerea prodigati, in mancanza di aerei,
contro i pedoni delle strade urbane) che si rovescia da anni su Sarajevo
e su Gorazde o su Bihac, ecco la guerra cui questi strateghi pensano, e
che ammette le battaglie e i confronti fra militari solo come incidenti
di percorso.
Le granate di Zagabria hanno mostrato al mondo questa squisita anima
terroristica della guerra contemporanea, con le immagini così simili sia
quando la morte arrivi da un cestino di rifiuti della metropolitana o
dalla cantina di un grattacielo, oppure da una rampa di missili oltre
qualche proclamato confine sovrano.
La morte del terrorismo militare insegue con intelligenza le sue vittime,
si può ben dire: nel centro di Zagabria è stata colpita e ammazzata - una
crocetta - una donna che era riuscita a fuggire fin lì da Sarajevo.
E' questa situazione che probabilmente sta cambiando in modo radicale,
per effetto di un migliore armamento dell'esercito bosniaco in primo
luogo, e di un'insofferenza verso una tortura delle città durata troppo a
lungo per dare ancora voce alle speranze o agli avvisi moderati.
Così, nell'estinzione di ogni formale cessate il fuoco, e nello
svuotamento penoso della presenza militare dell'Onu - le cui guarnigioni
vengono "ipso facto" messe sotto sequestro dai cetnici a ogni annuncio di
crisi - avanza la prospettiva di una guerra guerreggiata e regolare, con
armi e armati che si fronteggino in campo aperto.
Questa è, almeno, l'apparenza.
Perché? Intanto, perché il migliorato armamento dei bosniaci - quelli che
con una convenzione indebita la stampa chiama musulmani, trattandosi
dell'esercito legale, e ancora in qualche misura multietnico, di una
repubblica indipendente e come tale riconosciuta dall'Onu - è di dubbia
portata, e comunque molto al di sotto della potenza di fuoco pesante dei
serbobosniaci.
L'esercito bosniaco conta oggi, con una certa sicurezza di sé, su un
miglior equipaggiamento, sul numero, e soprattutto su una combattività
superiore.
A suo svantaggio giocano i calcoli delle potenze, Usa e Russia comprese,
per le quali la Bosnia è una pedina nelle reciproche trattative, nel
migliore dei casi, e nelle faccende elettorali interne, nel caso più
consueto.
In suo favore, la moltiplicazione dei fronti.
Nel corso degli ultimi mesi la situazione militare si è messa in
movimento sotto la coperta corta della tregua.
La Croazia punta a riprendersi la Krajina a Sud-ovest, e la Slavonia a
Est.
L'operazione dei giorni scorsi su Jasenovac, che ha suscitato il
bombardamento di Zagabria, è stata decisiva per restituire ai croati il
controllo dell'autostrada che porta dalla capitale al confine.
In Bosnia, il successo più importante dei governativi, militarmente e
simbolicamente, è stato la riconquista del monte Vlasic: sull'antenna di
un ripetitore, preso sanguinosamente dai cetnici all'inizio del
conflitto, hanno messo a sventolare una bandiera bosniaca di venti metri.
Dal Vlasic i bosniaci hanno il controllo di Banja Luka.
Altri confronti si sono preparati in punti cruciali come il corridoio di
Brcko e la seconda cerchia delle alture attorno a Sarajevo, dal lato di
Visoko e da quello di Trnovo.
L'intera geografia militare si gioca sull'antico rapporto fra l'alto e il
basso, fra monte e valle.
Conquistare le quote, tagliare i passaggi a valle: questa è la posta.
Ma il confronto fra l'alto e il basso agisce anche, alla rovescia, nelle
situazioni in cui sono i cetnici a occupare cime e pendii, e castigare da
lì, come nella storia del lupo e dell'agnello, le città che intorbidano
la loro acqua: Sarajevo in primo luogo.
Sarajevo è in fondo a una vera conca.
Il viandante che deve guardarsi dai cecchini non trova mai un punto del
suo cammino in cui levando gli occhi non veda un punto della montagna
occupato: cioè un punto dal quale non sia inquadrato dagli "snajper".
Armi di ogni genere sono puntate sulla città: e quelle messe in teoria
sotto il controllo dell'Onu tornano in mano ai cetnici senza che questi
debbano colpo ferire, e senza le proteste dei caschi blu.
Essere imbelli è la loro condanna, anche quando sono loro gli ammazzati o
i mortificati.
Così, il progetto, o il sogno, di una guerra via via più regolare che
conduca a una battaglia campale e alla liberazione finale di Sarajevo, è
costretto a mettere nel conto una distruzione terribile e vendicativa
della capitale.
Dopo più di tre anni di orrore, e centinaia di migliaia di morti e
milioni di deportati, e ore e minuti trascorsi ancora ogni giorno nella
paura e nell'infelicità, e dopo che è stata provata oltre ogni dubbio
l'inerzia o la viltà del governo del mondo, nessuna voce politica in
Bosnia può più permettersi di sostenere che il bombardamento delle città,
l'urbicidio moltiplicato, sia un rischio troppo alto per la scelta di
battersi.
Nessuna alternativa politica è stata formulata.
Possono levarsi voci diverse, voci di minoranza religiosa, voci di
persone comuni che guardino i propri figli chiusi in casa, ma sono ora
senza ascolto.
Gravissimo, pesa sui bosniaci un altro pericolo, che ad alcuni fra loro
può sembrare un acquisto: la tentazione di valersi dei punti conquistati
per rivolgere a loro volta le armi sulle popolazioni civili nemiche.
Questa tentazione è poco meno che irresistibile.
Ha dalla sua tutto: la giustificazione della storia, l'argomento della
rappresaglia come legittima difesa.
La ripugnanza per un nemico, come il governo di Belgrado, che ha
scatenato, fomentato e sostenuto una guerra di cui nella sua capitale non
è arrivata neanche l'eco delle esplosioni e dei pianti.
Occorrerà ai bosniaci uno speciale eroismo per rinunciare a fare come gli
altri, per mostrare di non essere stati diversi dagli altri solo quando
non ne hanno avuto l'occasione e la forza.
Fra tutti i contendenti, la Croazia è la più sensibile alle pressioni
internazionali, e la più tentata dall'opportunità di guadagnare quello
che è possibile, tirandosi poi fuori e lasciando la Bosnia alla sua
deriva.
Sacri egoismi di ogni genere verranno invocati per arginare i conflitti e
per sancire la vittoria del più forte.
La Bosnia non è in grado di vincere: forse può tirare fuori da sé una
forza bastante a impedire la propria liquidazione e la spartizione delle
spoglie.
Allora, nessuno può dire fin dove arriverà il contagio di questa peste, e
gli egoismi si riveleranno un'ennesima volta, oltre che immorali e
sacrileghi, miopi e suicidi.
L'Europa, che continua a guardare così dall'alto le bassezze dell'inferno
bosniaco, avrà allora il più brutto dei risvegli.
Oppure no.
Oppure tutto sarà destinato ai bosniaci: un piccolo orzaiolo nell'occhio
lungimirante della storia.
EVVIVA LA PIOGGIA: ACCECA I CECCHINI (L'Unità, 7 maggio 1995)
Venerdì a Sarajevo è venuto un temporale.
Che notizia è questa? si dirà.
Beh, lo è: basta confrontare il rombo amichevole del tuono con quello
delle granate.
Quando piove i cecchini si bagnano, e non vedono niente.
I ragazzi mi cantano qui una filastrocca che dice: Quando c'è la pioggia
- non c'è la guerra.
Giovedì, uccidendo un ragazzo di 15 anni nel sobborgo di Sredrenik, il
cecchino di Spicasta Stijena ha assicurato alla sua postazione il record
di cento persone ammazzate dall'inizio della guerra.
Immagino che abbia sportivamente brindato, ieri notte.
Giovedì era anche il quindicesimo anniversario della morte di Tito.
Nelle pagine dei necrologi di Oslobodjenje - le più lette un lungo elenco
di firme autorevoli lo ha commemorato.
Di fatto la Bosnia è l'unica nazione della ex-Jugoslavia in cui la
memoria di Tito è ancora viva e grata, e i suoi ritratti non sono stati
rimossi.
I giudizi politici sono i più diversi, ma tutti pensano che Tito sapesse
che questo avrebbe potuto succedere, e si è adoperato per impedirlo: per
dilazionarlo almeno.
Così la rovina di ora ha definitivamente proiettato Tito nel vecchio
mondo perduto, e un'aria di rimpianto, asburgico, che gli sarebbe
piaciuta, accompagna il suo nome.
D'altra parte anche altrove le cose devono essere più tortuose di quanto
le storie ufficiali rifatte dai nuovi stati lascino intendere.
Ero a Zagabria un mese fa, alla ricerca di un passaggio per Sarajevo, e
sono entrato in un cinema in cui davano "Gospà" - La signora - una
coproduzione croato-americana dedicata alle apparizioni di Medjugorje,
con Martin Sheen nella parte del francescano Joze e Michael York in
quella del suo avvocato difensore contro le persecuzioni comuniste.
Non so se il filmaccio sia arrivato in Italia, e in particolare a
Civitavecchia.
Nel cinema di Zagabria c'era un pubblico pomeridiano misto di giovani e
di anziani.
A un certo punto, il film mostrava una grottesca cerimonia di partito in
cui i malvagi burocrati arringavano altri ottusi burocrati, opponendola
alla fede sincera e povera dei pellegrini raccolti a Medjugorje.
Nella loro idolatria, i burocrati del regime cantavano l'inno a Tito:
Dragi Tito, mi ti se kunemo.
Caro Tito, noi ti giuriamo...
La rappresentazione grottesca di quel passato non ha impedito agli
anziani fra gli spettatori di Zagabria timorati, senz'altro, di Dio e
della nazione croata - di cedere per un momento al riflesso condizionato
di mettersi a canticchiare, come ai vecchi tempi, Dragi Tito....
Storielle.
Del resto si raccolgono storielle in questo universo estremo con una
premura da filatelici, o da medici legali.
Ci sono storielle, parole povere, gesti, che dicono molto più di venti
sedute del parlamento confederato.
Ieri sera per esempio ho commesso la leggerezza di dire a una bambina di
quattro anni, in mezzo a un gioco allegro ed eccitato: Vuoi che andiamo
al mare domani?.
E' diventata molto seria e ansiosa, e mi ha chiesto: E' una cosa vera, o
uno scherzo?.
Bisogna stare attenti agli scherzi distratti coi bambini reclusi.
E non solo coi bambini.
Una signora che conosco mi ha raccontato, con una malinconica ironia, che
resta sempre a guardare le partite di calcio riprese dalla televisione
italiana per poter vedere gli intermezzi pubblicitari, specialmente
quelli della biancheria e del caffè.
Suo marito è un famoso pittore, è malato e ha bisogno di cure che qui non
può ricevere.
Aspettano da molto tempo di partire per la Svezia.
Aspettiamo la Svezia dice lei ormai è un modo di dire.
Io non voglio vivere in Svezia mormora lui voglio morire a Sarajevo.
Le loro finestre danno sulla via principale, la Vase Miskina: a sinistra
è appena caduta una granata, a destra si alza un gran polverone bianco.
E' una squadra di muratori che lavora di lena a raschiare i muri d'angolo
di un vecchio negozio che sta per riaprire sotto la firma di Benetton.
Le ragazze passano e spiano nei locali in allestimento il poster che ne
promette di tutti i colori.
Benetton e i suoi colori hanno fatto un'ottima scommessa.
Un problema è caso mai di capire perché tanti altri non facciano lo
stesso.
Soprattutto, è francamente incomprensibile perché l'Italia, unico fra i
paesi europei, abbia a Sarajevo, invece che un'ambasciata, una
delegazione speciale.
Ed è sconcertante che non si sia finora sollevato il problema.
La delegazione è praticamente inabilitata alle funzioni essenziali, a
partire dalla concessione dei visti, ed è simbolicamente ciò che conta
ancora di più - una prova di avarizia.
Tanto più contraddittoria se si conosca la straordinaria simpatia in cui
tutto ciò che è italiano è tenuto a Sarajevo, già prima della guerra, e
assai più oggi, anche per il buon lavoro fatto dalla nostra
quasiambasciata.
Il governo italiano spiegherebbe forse l'anomalia come una forma di
prudenza: io userei una nozione meno benevola.
Queste, dunque, le ultime da Sarajevo, dove ieri è piovuto.
Oltre a ciò è mancata l'acqua, il gas e la luce.
In compenso, le sirene d'allarme sono suonate solo per una parte della
giornata.
Manca il latte per i bambini lattanti, mancano i medicinali specifici per
le donne incinte.
Ci sono, come sempre, mostre d'arte, spettacoli, anche sfilate di moda
locale.
Sono andato alla sinagoga sperando di vedere la celebre "Haggadah" di
Sarajevo, uno dei più splendidi codici miniati ebraici, opera spagnola
sefardita del quattordicesimo secolo, tesoro del Museo nazionale
bosniaco.
Qualche giorno fa il governo bosniaco aveva prestato il codice alla
comunità ebraica, ma non l'ho trovato.
Il prestito era durato solo un paio d'ore, il tempo di far sapere al
mondo che quella meraviglia non era stata, come si era insinuato,
venduta.
Ero attratto dalla bellezza delle miniature, ma anche dall'affinità del
racconto con la situazione di Sarajevo: le porte segnate per scampare
all'Angelo della Distruzione, i bambini tenuti svegli di notte,
l'appuntamento: L'anno prossimo a Gerusalemme, e soprattutto l'Esodo.
La storia di un mare che si apre ai fuggitivi ha un suono speciale in una
città prigioniera che, nell'Europa dei tunnel sotto la Manica, comunica
col mondo solo attraverso un angusto tunnel clandestino.
Per il rischio corso in quelle due sole ore di esposizione, il direttore
del museo sarajevese si era dimesso per protesta.
Nel 1941, il suo predecessore aveva ricevuto la visita di un ufficiale
della Wehrmacht che gli aveva intimato di consegnargli la "Haggadah".
Il direttore era stato così audace e pronto di spirito da rispondere di
averla appena data a ufficiali della Gestapo.
Poi il codice fu portato in salvo in montagna.
Ho trovato i capi della comunità ebraica piuttosto ottimisti.
Uno di loro, il vicepresidente, l'avevo visto preparare e guidare i
convogli che portavano via vecchi e malati di tutte le fedi dalla città
minacciata.
Lui è sempre qui.
Sulla parete c'è una foto dei suoi nonni, i ritratti dei rabbini, e anche
una foto di Tito.
STRAGE NEI QUARTIERI MUSULMANI (L'Unità, 8 maggio 1995)
I morti sono almeno nove: fra loro due fratelli.
I feriti almeno quindici per l'Onu, più di quaranta secondo radio
Sarajevo.
Abbastanza per sperare che sia questa la strage annunciata dalla scadenza
della tregua? Nessuno è così ottimista da pensarlo.
I quartieri di Butmir, che comprende l'aeroporto, e di Hrasnica, da cui
parte la strada del monte Igman, sono bersagliati da un bombardamento
metodico da molti giorni.
Una settimana fa, una bomba da aereo modificata di 250 chilogrammi è
stata lanciata su Hrasnica, ha fatto due morti, ha raso al suolo le due
case fra le quali è caduta.
Questi sobborghi - Butmir è a meno di 8 chilometri dal centro di
Sarajevo, la zona di sicurezza delle Nazioni Unite è ufficialmente di 20
chilometri - sono doppiamente strategici.
Per la vita quotidiana, perché sono il punto di arrivo finale delle merci
che vengono dalla strada di Spalato e Mostar, il polmone economico,
seppure strozzato, della Sarajevo assediata.
Lì le cose vengono comprate, trasportate a spalla nel tunnel clandestino
che corre sotto la pista dell'aeroporto, e rivendute a prezzi ovviamente
moltiplicati sui banchetti e nei negozi di Sarajevo, che si chiamano,
chissà perché, mercato nero, come se ce ne fosse uno bianco.
Oggi, nonostante la domenica, la gente si affollava ai mercatini di
Butmir.
A Butmir sbuca l'uscita verso il mondo libero del tunnel, che rende
perciò il sobborgo anche militarmente e civilmente decisivo.
Il fuoco di artiglieria dei serbo-bosniaci, da una distanza
ravvicinatissima, si accanisce su questo stretto spazio.
Sabato giorno e notte il bombardamento sulla strada del monte Igman era
stato eccezionalmente intenso, costringendo i bosniaci a interrompere il
già rado e spettrale traffico.
Domenica i serbo-bosniaci da Gavrica Brdo hanno colpito Butmir con cinque
granate poco dopo le 13.
Le telecamere della tedesca A.T.P. sono state le prime ad arrivare fra i
corpi martoriati: se l'aspettavano. (Per i curiosi delle lottizzazioni
etniche, aggiungerò che almeno due degli uccisi hanno cognomi ortodossi).
Paradosso che aggrava la tragedia, in quei sobborghi non ci sono che
ospedali da campo, sicché i feriti devono risalire al contrario il tunnel
della libertà, trasportati nel cunicolo su barelle di fortuna da uomini
curvi.
I feriti più gravi sono stati ricoverati dopo quel viaggio infernale
negli ospedali di Sarajevo.
Mentre quella tragedia si consumava, il resto di Sarajevo si svuotava per
un ennesimo allarme, e riceveva la dose giornaliera di bombe.
Tre granate sono cadute sul vecchio centro alle cinque del pomeriggio.
Intanto, il rombo degli aerei Nato stringeva i suoi cerchi sul cielo di
Sarajevo: quel megalomane rumore è tutta la risposta che il mondo fa
sentire ai terroristi etnici.
La gente non alza neanche più la testa.
Il portavoce dell'Unprofor, puntualmente, ha detto in un primo tempo (ma
in serata si è corretto) che le Nazioni Unite non sono in grado di
accertare chi abbia sparato le granate su Butmir.
E' notevole che una persona adulta riceva uno stipendio per dire cose del
genere.
Le tragedie non mancano di un loro umorismo.
Non so se l'Unprofor si sia lavato le mani anche del sangue del vecchio
francescano invalido di Banja Luka.
Almeno i francescani e i loro antichi monasteri meriterebbero di
commuovere il cuore spaesato dell'Occidente.
Quanto a Sarajevo, occorre dire che sul bilancino da farmacia con cui le
istituzioni del mondo e i mezzi di comunicazione pesano i vivi e i morti,
i morti di Hrasnica e di Butmir, appena di là dalla cerchia degli
assedianti serbo-bosniaci, contano molto meno dei morti della Sarajevo
assediata; e del resto fra questi i morti della periferia contano molto
meno di quelli della Città Vecchia.
Così i pessimisti hanno probabilmente ragione.
Non è stata questa, la strage che si aspettava.
Ce ne vogliono altre, più grosse, e più centrali.
Le telecamere sono accese.
Ancora un po' di pazienza, prego.
Il primo ministro bosniaco ha detto: o l'Onu e la Nato intervengono, o
tocca a noi.
Non c'è una terza via, se non il genocidio e la complicità con il
genocidio.
E' seccante da ammettere, ma è vero.
Ha anche detto, a proposito dei 50 anni da che il fascismo è stato
sconfitto, che ha i suoi dubbi.
LA VITA RUBATA ALLA GUERRA (L'Unità, 11 maggio 1995)
Ricorre quest'anno il 10 maggio, per durare quattro giorni, la più
importante delle feste del calendario islamico bosniaco: il Kurban
Bajran, la festa del sacrificio.
Essa commemora il sacrificio ordinato a Abramo-Ibrahim del figlio (Isacco
nella tradizione biblica, Ismaele in quella coranica) e la sostituzione
in extremis di un montone al ragazzo quando già il coltello del padre è
pronto ad affondarsi.
Kurban è il nome dell'animale sacrificale.
Prima della guerra tutti quelli che potevano si procuravano un montone e
lo dividevano poi coi vicini e coi poveri.
Martedì, bellissimi e pazienti capri espiatori aspettavano legati davanti
a qualche luogo pubblico: rari, e guardati con invidia.
Costati ciascuno fra i 500 e i 1000 e fino a 2000 marchi, privilegio di
pochi ricchi o acquisto di collette: arrivati in città per la via
infernale e omerica del tunnel.
Bisogna figurarsi la colonna mista di montoni e di umani che sfila nel
cunicolo sotterraneo, urtandosi, belando e imprecando.
La mattina di mercoledì corna e pelli penzolavano qua e là, nella città a
sua volta mutata da anni in capro espiatorio di tradizioni deliranti.
Alle dieci e mezza di mattina una granata è caduta nella piazza di
Carsja, il cuore della vecchia città: come sarebbe a Roma in piazza
Navona il giorno dell'Epifania.
La granata è rimbalzata su una tettoia, e ha fatto solo quattro feriti.
Così la città ha vissuto l'inizio della sua grande festa fra le sirene
d'allarme, le granate, le raffiche di proiettili antiaerei adattati e i
tiri dei cecchini agli incroci.
La visita tradizionale ai cimiteri, che portava una fiumana di persone di
ogni fede a Bare, su un pendio a poche centinaia di metri dalla linea di
fuoco, è stata tentata solo da pochissimi avventurosi, vecchi i più.
Martedì c'erano stati invece i funerali delle vittime della strage di
Butmir, diventate intanto undici.
Sono andato al vecchio camposanto del colle di Kovac: c'erano tre
funerali contemporanei, ciascuno con una folla dolente.
Allo stadio è stato sepolto il giovane ortodosso Zdravko: i suoi
correligionari hanno guardato dalle colline le centinaia di persone che
nonostante il rischio si sono radunate per salutarlo.
In questa vicenda c'è un aspetto strettamente sarajevese: il padre del
giovane era morto a sua volta nel massacro al mercato di Sarajevo, nel
febbraio dell'anno scorso.
In queste cerimonie funebri c'è un dettaglio decisivo: le persone
accovacciate e strette fra loro a pregare e lamentare il morto, sanno di
essere, più che in ogni altro luogo, in posa davanti all'obiettivo del
cecchino e dell'artigliere.
La distanza fra i vivi e i morti viene così deformata e accorciata: la
morte compiuta e quella incombente si mescolano nel dolore e
nell'abbandono.
Nessun gesto si mostra per questo più forzato, nessun lamento accelerato.
Avevo spiegato, giorni fa, il peso relativo delle stragi: via via più
basso man mano che dal centro di Sarajevo si vada verso la periferia, e
poi i sobborghi oltre la linea dell'assedio.
Non meravigli, dunque, che il massacro compiuto da una granata serbo-
bosniaca nella cittadina di Zepa, benché dichiarata anch'essa zona
protetta dall'Onu, pur avendo totalizzato undici morti in un solo botto
non abbia neanche fatto battere ciglio all'Unprofor e ai mezzi di
comunicazione.
In magazzino: un altro piccolo mucchio che si aggiunge alla grande
discarica.
Tutt'al più, il generale Rupert Smith dichiara che l'Unprofor in questi
giorni avrebbe chiesto alla Nato di intervenire, ma il responsabile Onu
Akashi ha rifiutato per paura delle conseguenze che l'intervento avrebbe
avuto sul personale dell'Unprofor.
Non potrebbe esservi logica più circolare.
In compenso, per un giorno e una notte gli aerei Nato hanno fatto un gran
rumore su Sarajevo: non piovve, ma tuonò formidabilmente.
A Sarajevo la vita riaffiora e sprofonda con una rapidità ormai
consumata, seguendo gli accidenti bellici come si scappa in vacanza dagli
acquazzoni estivi, e si torna al primo raggio di sole.
Martedì si inaugurava una nuova mostra del pittore Afan Ramic: bastava
evitare il ponte di Skenderija, e rasentare i muri del lungofiume, per
arrivarci felicemente.
C'era una gran folla quasi allegra; i quadri sembravano molto belli, ma è
andata via la luce.
Sono sfollati con calma, al lume di qualche fiammifero, ministri e
guardie del corpo, studenti e signore eleganti, ambasciatori di grandi
potenze e colonnelli della legione straniera.
Ho ricordato a Ramic, che era del resto imperturbabile, la fiaccola di
Guernica: noi accenderemo i nostri accendini.
Benché provi a dire le cose di qui come meglio posso, continuo a capire
che resto lontanissimo dal renderne l'idea.
Manca l'odore, il rumore, l'aria.
Sono solo istantanee: quella di un giovane senza una gamba, per esempio,
che risale lentamente e con calma la strada del cimitero urbano mentre
tirano i cecchini.
Manca il silenzio della notte.
Benché l'indecente fragore delle bombe e delle raffiche lo rompa
continuamente, il silenzio della notte di Sarajevo torna ogni volta a
richiudersi, come un mare calmo infastidito da qualche sassata.
Solo i cani si fanno sentire, dopo le esplosioni, e anzi a volte si ha
l'impressione che si mettano ad abbaiare prima, come se le presentissero.
O forse l'artiglieria pesante spara sui cani che abbaiano, capricciosa
com'è.
In una comune di queste notti di Sarajevo si contano almeno venti-trenta
esplosioni di granate e di bombe, di quelle che fanno tremare i vetri, se
ce ne sono ancora, e centinaia di raffiche di mitraglia: poi ci si
addormenta.
Noi forestieri abituati come siamo al rumore di fondo, e a figurarci il
silenzio solo come un vuoto e un'attesa, aspettiamo il frastuono: ma a
poco a poco il silenzio così pieno la vince sul fragoroso e miserabile
alfabeto Morse degli scoppi, delle raffiche e dei tiri.
Il cielo di Sarajevo poi, libero dallo smog da più di tre anni, è sempre
più splendido e vicino.
La notte dell'otto maggio c'era una perfetta mezza luna crescente.
Il telegiornale cetnico aveva dato, come ennesima notizia, un comunicato
sulla strage di Butmir: i musulmani bosniaci, aveva detto lo speaker,
hanno ammassato i corpi di soldati, morti o feriti sul fronte, nella
strada, e lì avevano fatto riprendere la messinscena.
Non ha aggiunto altro.
D'altra parte gli spettatori del suo lato avevano potuto vedere al
telegiornale bosniaco la macelleria dei corpi sanguinanti e denudati,
compresi quelli di donne anziane.
Anche per la strage di Markale i serbo-bosniaci di Karadzic avevano
sostenuto che i morti fossero comparse pagate, o salme riesumate.
Per la ragazza diciassettenne Maja Djokic, una delle più belle e amate di
Sarajevo, ammazzata da una granata un mese fa, hanno detto che l'avevano
uccisa i bosniaci dopo averla violentata, perché voleva passare dal lato
serbo.
Questo gbbelsismo primitivo e ripugnante è uno dei rumori quotidiani sui
quali ogni notte scende il silenzio, e brilla specialmente la luna di
Sarajevo.
QUI L'ONU E' UNA SLOT-MACHINE (L'Unità, 14 maggio 1995)
Mentre scrivo, nel primo pomeriggio, un bombardamento più forte sta
colpendo la parte nuova della città e il vecchio centro: granate sparate
a ripetizione, con un fragore rotolante, come nel finale dei fuochi
d'artificio.
Non so quale sarà il conto di questa pirotecnia.
Anche il lavoro degli "snajper" sulle strade della città si fa più
intenso e sbrigativo: all'incrocio del Parco della Presidenza ai tiri di
fucile si sono aggiunte le raffiche di mitraglia, contro la corsa
affannata dei passanti.
Si noti che il semaforo continua severamente a funzionare, con i suoi
divieti rossi e i suoi omini verdi che sembrano bersagli del tiro a
segno.
Il soldato francese ridotto in fin di vita giovedì era in un gruppo di
anticecchinaggio al solito punto mortale di Marindvor: in un mese, i
militari francesi morti a Sarajevo erano stati già cinque.
L'Holiday Inn, il grande albergo dei giornalisti che ha goduto per tre
anni di una triste pubblicità, e ne ha fatto un impiego tetro ed esoso -
250 marchi a stanza, senza bagno e con bombe - è ormai vuoto.
La tensione più alta è attorno al monte Igman e all'aeroporto chiuso da
più di un mese.
La strada dell'Igman e la zona dell'uscita dal tunnel sotterraneo sono
fittamente battute dal fuoco dei serbobosniaci, i quali hanno spinto
all'estremo le loro pretese sull'aeroporto e le vie d'accesso alla città.
Da giovedì, gli stessi mezzi dell'Onu non possono compiere alcun tragitto
senza chiederne l'autorizzazione con 24 ore di anticipo ai cetnici, senza
di che vengono colpiti.
Da una parte, è una prepotente e provocatoria intenzione di rinegoziare
tutti i termini (anche economici: c'è da tutte le parti una certa avidità
nei confronti dell'Onu, che, non servendo ad altro, può fare almeno da
slot-machine per gli opposti giocatori d'azzardo) degli accordi sulla
presenza dell'Unprofor e sullo status della capitale.
Dall'altra, è una stretta preventiva contro la possibile intenzione della
Bosnia, e soprattutto dei suoi responsabili militari, di forzare una via
di apertura per Sarajevo.
Qualcuno si aspetta una precipitazione nel giro di pochi giorni, altri in
tempi più lunghi.
Ma non si intravede nessuna nuova mediazione, come quella efficace per
metà e non priva di un lato ameno che, nello scorso dicembre, portò l'ex-
presidente Carter in una ex-Jugoslavia di cui aveva un'idea pallidissima.
Pressoché tutti pensano che ogni conclusione, più o meno provvisoria,
esiga ormai un costo di sangue capace di spostare l'equilibrio attuale
fra gli interessi di potenza e la commozione dell'opinione pubblica.
Si aggiunga che quasi nessuno a Sarajevo è incline a prendere sul serio
l'offensiva croata della scorsa settimana: la facilità con cui si è
compiuta e la sequenza dei fatti inducono tutti a vedervi una
combinazione teatrale fra Tudjman e Milosevic, che desse soddisfazione al
primo senza far perdere la faccia al secondo, e contentasse i partner
internazionali comuni.
Nemmeno le bombe spedite su Zagabria dal cetnico della Krajina Martic
intaccano la convinzione su questo scenario: e del resto a Sarajevo (o a
Gradacac dove le granate stanno facendo ogni giorno morti e feriti; o a
Zepa, a Tuzla, a Gorazde) qualche granata caduta su Zagabria non riesce a
sembrare granché.
La capitale è più chiusa che mai: né aerei né convogli la raggiungono; la
via dell'Igman bombardata; il tunnel preso di mira; gli scarsissimi
avventori minacciati all'aeroporto.
Un gruppo di sei italiani, volontari dei Beati i costruttori di pace,
compresi veterani di Sarajevo come don Albino Bizzotto e Liza Clark,
arrivati fortunosamente giovedì per la strada dell'Igman, sono stati
bloccati all'aeroporto per due giorni e due notti, con la minaccia di
essere presi di mira dalle postazioni serbo-bosniache, sia che avessero
tentato di procedere verso la città, sia che avessero provato a tornare
indietro.
Il pretesto per questo sequestro è un presunto rifiuto di consentire a
un'ispezione, di fatto non richiesta e non prevista.
Gli italiani stanno comunque bene e non hanno preoccupazioni per la
propria incolumità.
L'episodio è un altro segno della stretta soffocante su Sarajevo e i suoi
movimenti, che ha reso impraticabile, se non con il più alto azzardo,
qualunque scambio tra la città e il resto della Bosnia.
Esso coincide con notizie non ufficiali, ma certe, su battaglie
importanti nella seconda cerchia di alture attorno a Sarajevo, come a
Treskavica, con un costo alto di vite, e un esito sfavorevole ai
bosniaci.
Questi scontri hanno un andamento da prima guerra mondiale: i bosniaci
attaccano e riconquistano alcune quote, dopo di che i serbo-bosniaci
contrattaccano con una forte prevalenza di artiglieria, e i governativi
sono costretti a ritirarsi dopo aver lasciato sul terreno un gran numero
di caduti - ragazzi, per lo più, neanche ventenni.
Ferma ogni trattativa e derisa ogni allusione all'intervento
internazionale, la strada di un'azione di forza, più o meno lucida, più o
meno illusoria e disperata, è sempre meno una scelta per il governo
bosniaco, sempre più una conseguenza obbligata.
Questo significa, nel resto del mondo, una cosa sola, benché angosciosa,
per chi non voglia essere attivamente complice della sopraffazione armata
serba: revocare l'embargo sulle armi, permettere alla Bosnia di armarsi
adeguatamente.
Questa è la conseguenza inevitabile del fallimento, se non peggio, della
legalità internazionale sulla BosniaErzegovina, e della trasformazione,
dopo addirittura tre anni, di una molteplice e sostanziale aggressione in
una guerra più o meno regolare, ridotta però a una parodia dalla enorme
sproporzione di potenza materiale fra gli eserciti opposti.
Se non ci si commuove per lo stillicidio sarajevese, si ripristini almeno
una parvenza di libero mercato: qui la gente ha visto il grande
spettacolo dei Patriot e delle "Tempeste sul deserto", e fa molta fatica
a spiegarsi che le manchino i fiammiferi, e una qualche transenna che
oscuri almeno la vista di mamme e bambini che attraversano una strada.
Bisogna che dovunque (cioè, intanto, in Italia) si parli di questo, e si
costringa con ogni cortesia chi ha voce in capitolo a dichiarare la
propria posizione, e le ragioni che la sostengono.
Il redattore che riceve questo articolo può, se vuole, finirlo qui;
oppure continuarlo ancora un po' con una storia che c'entra solo alla
lontana.
Me l'ha raccontata ieri a un tavolo di bar un anziano intellettuale, un
uomo di formato, di madre ortodossa e padre cattolico, di cui sono
diventato amico.
Io ho abbandonato mi ha detto il mio duro materialismo, in questa guerra,
per effetto di una sola notte.
Gli ho offerto una birra sarajevese e un caffè.
Ecco la sua storia.
Ero amico di Vedran Smajlovic, il grande violoncellista, ora suona nella
Philarmonica di Londra.
E' ritratto in un poster famoso mentre suona in mezzo alla rovina della
Biblioteca distrutta.
Stavamo seduti a questo tavolo, ogni giorno, a fumare e a parlare, al
buio.
Vedran andava a suonare nelle strade, sotto le bombe.
Qualche giorno ero il solo a sentirlo.
Dopo la strage della Vase Miskina andò lì, e suonò l'"Adagio" di
Albinoni.
Era il tempo più duro.
La gente stava nei rifugi.
Mi buttavo nelle strade, come un randagio, in cerca di una sigaretta.
Una sera usciamo di qui, e andiamo fino a casa sua.
Eravamo fermi a salutarci, quando arriva una soldataglia decisa a far
saltare la saracinesca di un negozio per svuotarlo.
Ci spingono con le brutte nell'androne.
Mentre eravamo lì, esce un vicino, saluta Vedran con entusiasmo, e ci
invita nella cantina-rifugio della casa.
Gli era nata una bambina, lui aveva messo da parte per festeggiarla ogni
ben di Dio, così stemmo con gli altri nel rifugio a mangiare, bere,
cantare.
Si fece tardi, non potei tornare a casa.
Fu l'unica notte in cui non andai a dormire a casa mia in tutti i tre
anni.
Quella notte una granata ha distrutto due stanze del mio appartamento.
Ma non è questo.
La mattina dopo incontro un mio amico, un pittore, mi saluta con
animazione particolare, e mi dice: "Stanotte ho sognato tua madre, e mi