1 Amitav Acharya & Barry Buzan (eds.), Non-Western International Relations Theory. Perspectives on and beyond Asia, London and New York, Routledge, 2010. Introduzione Una comprensione sistematica della materia delle relazioni internazionali, ovvero delle relazioni tra stati, non prevede percorsi ottimali. La definizione stessa di “teoria delle relazioni internazionali”, per dirla à la Wight, è “confusa, senza limiti ben precisi, priva di ordine e inaccessibile all‟uomo comune” tanto che è lo stesso politologo inglese a metterne in dubbio l‟esistenza in un famoso saggio del 1966 dal titolo emblematico Why is there no international theory? 1 . Tale domanda suggerisce il nodo di Gordio che i due curatori del libro tenteranno di sciogliere: why is there no non-Western international relations theory? 2 Introdurre delle fonti non occidentali nell‟attività di ricerca della disciplina e mostrare al contempo come il dominio nell‟ambito teorico del pensiero occidentale corrisponda da un lato alla distribuzione globale del potere e dall‟altro alla cecità della teoria tradizionale soffocata dalla camicia di forza eurocentrica è lo sforzo che Amitav Acharya e Barry Buzan, entrambi esponenti del mondo accademico, si prefiggono nel libro che raccoglie le analisi sullo sviluppo della materia in Asia, in particolare in Cina, Giappone, Corea (del Sud), India, Indonesia, Sud-Est Asiatico (Brunei, Burma/Myanmar, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia, Vietnam) 3 e mondo islamico 4 , contenitore questi ultimi due di una complesso insieme di stati ed uniche eccezioni in tal senso. Perché l‟Asia? La scelta del continente asiatico risiede nella consapevolezza che, oltre ad avere ad oggi una concentrazione di potere economico e politico tale da poter sfidare il mondo occidentale, esso ha vissuto non indolore il confronto con questo, anzi ha svolto e continua a svolgere un ruolo di identificazione del sé e dell‟alter, una sorta di “eterotopia”, di “altrove” reciproco. L‟analisi ragionata del libro procederà contestualizzando dapprima la tematica all‟interno del dibattito accademico nel quale si inserisce, in particolare nella cosiddetta Scuola Inglese delle 1 La versione originale in inglese è la seguente: «international theory, or what is of it, is scattered, unsystematic, and mostly inaccessible to layman». Cfr. Martin Wight, „Why Is There No International Theory?‟, in Martin Wight & Herbert Butterfield (eds.), Diplomatic investigations, London, Allen & Unwin, 1966, p. 38. 2 Nel libro così come nell‟elaborato sarà frequente piuttosto l‟acronimo inglese IRT (international relations theory). 3 Per scelta dell‟autore che si occupa del Sud-Est Asiatico Timor Est è escluso dall‟analisi finché «it does not exert any significant analytical weight in the existing academic literature on Southeast Asia» (A. Chong, „Southeast Asia. Theory between modernization and tradition?‟, in A. Acharya & B. Buzan, Non-Western International Relations Theory. Perspectives on and beyond Asia, London and New York, Routledge, 2010, p. 147, nota 2). 4 Si occupano rispettivamente di tali argomenti: Yaqing Chin (China Foreign Affairs University, CFAU); Takasi Inouguchi (Università di Tokyo); Chaesun Chun (Seoul National University); Navnita Chadha Behera (Università di Delhi); Leonard C. Sebastian (Nanyang Technological University, Singapore) e Irman G. Lanti (Program Manager, Deeping Democracy, United Nations Devolopment Program, Indonesia); Alan Chong (S. Rajaratnam School of International Studies della Nanyang Technological University di Singapore); Shahrbanou Tadjbakhsh (Program for Peace and Human Security, Insitut d‟Etudes Politiques di Parigi).
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A critical book review. Amitav Acharya & Barry Buzan (eds.), Non-Western International Relations Theory. Perspectives on and beyond Asia, London and New York, Routledge, 2010
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1
Amitav Acharya & Barry Buzan (eds.), Non-Western International Relations Theory. Perspectives
on and beyond Asia, London and New York, Routledge, 2010.
Introduzione
Una comprensione sistematica della materia delle relazioni internazionali, ovvero delle relazioni tra
stati, non prevede percorsi ottimali. La definizione stessa di “teoria delle relazioni internazionali”,
per dirla à la Wight, è “confusa, senza limiti ben precisi, priva di ordine e inaccessibile all‟uomo
comune” tanto che è lo stesso politologo inglese a metterne in dubbio l‟esistenza in un famoso
saggio del 1966 dal titolo emblematico Why is there no international theory?1. Tale domanda
suggerisce il nodo di Gordio che i due curatori del libro tenteranno di sciogliere: why is there no
non-Western international relations theory?2
Introdurre delle fonti non occidentali nell‟attività di ricerca della disciplina e mostrare al contempo
come il dominio nell‟ambito teorico del pensiero occidentale corrisponda da un lato alla
distribuzione globale del potere e dall‟altro alla cecità della teoria tradizionale soffocata dalla
camicia di forza eurocentrica è lo sforzo che Amitav Acharya e Barry Buzan, entrambi esponenti
del mondo accademico, si prefiggono nel libro che raccoglie le analisi sullo sviluppo della materia
in Asia, in particolare in Cina, Giappone, Corea (del Sud), India, Indonesia, Sud-Est Asiatico
(Brunei, Burma/Myanmar, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia,
Vietnam)3 e mondo islamico
4, contenitore questi ultimi due di una complesso insieme di stati ed
uniche eccezioni in tal senso.
Perché l‟Asia? La scelta del continente asiatico risiede nella consapevolezza che, oltre ad avere ad
oggi una concentrazione di potere economico e politico tale da poter sfidare il mondo occidentale,
esso ha vissuto non indolore il confronto con questo, anzi ha svolto e continua a svolgere un ruolo
di identificazione del sé e dell‟alter, una sorta di “eterotopia”, di “altrove” reciproco.
L‟analisi ragionata del libro procederà contestualizzando dapprima la tematica all‟interno del
dibattito accademico nel quale si inserisce, in particolare nella cosiddetta Scuola Inglese delle
1 La versione originale in inglese è la seguente: «international theory, or what is of it, is scattered, unsystematic, and
mostly inaccessible to layman». Cfr. Martin Wight, „Why Is There No International Theory?‟, in Martin Wight &
Herbert Butterfield (eds.), Diplomatic investigations, London, Allen & Unwin, 1966, p. 38. 2 Nel libro così come nell‟elaborato sarà frequente piuttosto l‟acronimo inglese IRT (international relations theory).
3 Per scelta dell‟autore che si occupa del Sud-Est Asiatico Timor Est è escluso dall‟analisi finché «it does not exert any
significant analytical weight in the existing academic literature on Southeast Asia» (A. Chong, „Southeast Asia. Theory
between modernization and tradition?‟, in A. Acharya & B. Buzan, Non-Western International Relations Theory.
Perspectives on and beyond Asia, London and New York, Routledge, 2010, p. 147, nota 2). 4 Si occupano rispettivamente di tali argomenti: Yaqing Chin (China Foreign Affairs University, CFAU); Takasi
Inouguchi (Università di Tokyo); Chaesun Chun (Seoul National University); Navnita Chadha Behera (Università di
Delhi); Leonard C. Sebastian (Nanyang Technological University, Singapore) e Irman G. Lanti (Program Manager,
Deeping Democracy, United Nations Devolopment Program, Indonesia); Alan Chong (S. Rajaratnam School of
International Studies della Nanyang Technological University di Singapore); Shahrbanou Tadjbakhsh (Program for
Peace and Human Security, Insitut d‟Etudes Politiques di Parigi).
2
relazioni internazionali, quindi dopo una dovuta premessa per comprendere lo sviluppo del testo si
passerà all‟analisi della parte “teorica” e della parte empirica dei case studies, mentre gli ultimi due
paragrafi daranno spazio a considerazioni personali sui contenuti, in particolare ad una verifica di
una presenza o meno di bias (pregiudizio) teorico nella struttura del libro e ad una disamina del fine
che esso stesso si prefigge attraverso una rielaborazione della cornice analitica di Cox
sull‟interazione tra idee, capacità materiali e istituzioni.
Il dibattito accademico: new thinking on international society, new thinking on international
relations theory5
La questione della rilevanza di un modo di vedere la politica internazionale all‟interno del mondo
non occidentale rientra nel più ampio dibattito sulla comprensione e sul futuro dell‟odierno sistema
degli stati, sul modo in cui essi interagiscono e una determinata weltanschauung interagisce con
un‟altra, sul modo quindi in cui l‟Occidente interagisce con l‟Oriente.
La disciplina ha in generale mostrato non troppo interesse a tali tematiche da un lato a causa di una
sorta di autoreferenzialità della teoria, che, nata e sviluppatasi nell‟emisfero occidentale, prima di
indagare sul rapporto con l‟altra parte del mondo ha preferito indagare sull‟evoluzione del proprio,
e dall‟altra a causa di una radicata tendenza ad analizzare le relazioni internazionali degli stati con
maggiore “capacità relativa” giungendo così alla conclusione di Waltz secondo cui «Denmark
doesn‟t matter». Infatti mentre il costruttivismo, muovendo dall‟importanza della cultura e
dell‟identità nelle relazioni internazionali6, attraversa ora una fase di analisi sull‟evoluzione del
mondo occidentale mettendo in discussione le convenzionali tesi a fondamenta del moderno stato-
nazione7, la scuola neoliberale e la scuola neorealista invece partono entrambe dall‟assunto
dell‟esistenza del sistema internazionale così come si mostra oggi dando per scontato («for
granted»)8 il processo che lo ha generato: i concetti di “struttura”, “interdipendenza” e “istituzioni”
si muovono tutti in tal senso.9 Discorso a parte per la Scuola Inglese o Società Internazionale che si
5 Il titolo del paragrafo prende spunto dal titolo di un articolo („New thinking on intenational society‟) di Tim Dunne
sullo sviluppo della cosiddetta Scuola Inglese. L‟articolo è apparso sul British Journal of Politics and International
Relations, vol. 3, n. 2, June 2001, pp. 223-244. 6 Cfr A.I. Johnston, Cultural Realism and Strategy in Maoist China, e più in generale su come la cultura e identità
contino nella cruciale area della sicurezza nazionale, P. Katzenstein (ed.), The Culture of National Security: Norms and
Identity in World Politics, New York, Columbia University Press, 1996. 7 A questo proposito si veda uno studio sull‟impatto del conflitto religioso sulla nascita del sistema vestfaliano, D.
Nexon, The Struggle for Power in Early Modern Europe: Religious Conflict, Dynastic Empires, and International
Change, Princeton, Princeton University Press, 2009. 8 Vd. B. Buzan & R. Little, „World history and development of non-Western international relations theory‟, in A.
Acharya & B. Buzan (eds.), op. cit., pp. 197-220. 9 Pare doveroso sottolineare come quasi in netta contraddizione a quanto detto sulla scuola neoliberale l‟economia
sembra aver avuto un ruolo determinante nella formazione di una società internazionale. A tal proposito vd. L.A.
3
è spesso occupata dell‟evoluzione e dell‟espansione del sistema degli stati.10
Quindici anni dopo la
sua scomparsa, Kai Alderson e Andrew Hurrel hanno deciso di mettere insieme i contributi di
Hedley Bull, uno dei padri del suddetto filone di pensiero, successivi al suo noto libro The
Anarchical Society, da cui emergono delle considerazioni dell‟accademico australiano riguardo alla
relazione tra una “società internazionale europea” e il “mondo non-europeo”.11
A fini esplicativi è necessario in primis capire cosa si intenda per “società internazionale” e quando
se ne possa così intravedere l‟esistenza. Secondo le parole di Bull, “esiste una società internazionale
quando alcuni stati, consapevoli di certi interessi comuni e valori condivisi, formano una società,
nel senso che si considerano vincolati da un insieme comune di regole nei loro rapporti reciproci e
collaborano al funzionamento di istituzioni comuni”12
in contrapposizione al concetto di “sistema di
stati” caratterizzato quest‟ultimo dalla «mutual sensivity» (mutua sensibilità), ovvero la condizione
sufficiente di interazione delle parti.
La teoria di Bull sembra non chiarire tre punti essenziali, motivi di altrettante critiche. Il primo
riguarda la sottovalutazione dell‟ampiezza dei “contatti” tra stati che porterebbero gli stessi a
riscoprire interessi o norme comuni, in particolar modo in riferimento alle tematiche della guerra e
della pace, senza che vi siano le condizioni necessarie per poter intravedere una “società”.13
In
secondo luogo la distinzione tra “sistema di stati” e “società di stati” sembra fermarsi ad un
determinato momento storico relativo al periodo post pace di Vestfalia (1648), nel momento in cui
sorge il moderno sistema dello stato-nazione, rischiando così di non analizzare in modo adeguato la
continuità o la discontinuità temporale dell‟organizzazione delle stesse comunità politiche. In tertiis
le regole e le norme caratterizzanti la società internazionale parrebbero piuttosto aver
temporalmente preceduto la nascita stessa dello stato-nazione e società internazionali sarebbero
presenti anche in epoca pre-moderna, ben prima del 1648, ad esempio in quella che Wight
riconosce nella societas Christiana del medioevo europeo.14
Da tali critiche nasce l‟esigenza all‟interno della disciplina accademica di tentare di analizzare le
relazioni internazionali attraverso una diversa prospettive storica, rivolta al passato, e spaziale,
Benton, „From the World-Systems Perspective to Institutional World History: Culture and Economy in Global Theory‟,
Journal of World History, volume 7, 1996. 10
Cfr. Martin Wight, „De systematibus civitatum‟ [Systems of States], Leicester, Leicester University Press, 1977; A.
Watson, „European International Society and Its Expansion‟, in H. Bull & A. Watson (eds.), The Expansion of
International Society, Oxford, Oxford University Press, 1984. 11
K. Alderson & A. Hurrel (eds), Hedley Bull on International Society, London, Macmillian, 2000. In particolare una
relazione mai pubblicata che Bull ha presentato nel 1980 al Britich Committee dal titolo „The European international
order‟ e le letture tenute dallo stesso all‟Università di Waterloo in Canada nel 1983 („Justice in international relations‟). 12
H. Bull, The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, London, Macmillan, 1995 (II ed.), p. 13. 13
Cfr. B. Buzan, „From international system to international society: structural realism and regime theory meet the
English school‟, International Organization, 47, 1993, pp. 327-352; A. James, „System or society?‟, Review of
International Studies, 19, 1993, pp. 269-288. 14
Cfr. Martin Wight, „De systematibus civitatum‟ [Systems of States], cit.
4
rivolta all‟intero globo. Così Buzan e Little analizzano il complesso sistema degli stati nella storia a
partire dal 3500 a.C., ossia da quando le città-stato sumere hanno iniziato ad avere rapporti reciproci
nell‟area tra il Tigri e l‟Eufrate attraverso due date chiave, il 1648 e la seconda metà XIX secolo,
quando Cina e Giappone si piegarono alle potenze occidentali con le guerre dell‟oppio e con
l‟occidentalizzazione nipponica, quando cioè il sistema degli stati iniziò davvero a diventare
“internazionale” sotto le spinte dello sviluppo industriale.15
Tuttora nella teoria delle relazioni internazionali tale egemonia occidentale resta incapace di
comprendere a fondo né tanto meno di dare voce a sviluppi teorici, o “pre-teorici” (come si vedrà di
seguito sulla sezione sul concetto di teoria) diversi. Due direttrici ne sarebbero le cause: l‟una
muove dallo stesso concetto di stato-nazione, l‟altra focalizza l‟attenzione sulla disciplina
accademica.
Mentre da un lato il modello dello stato-nazione viene considerato un errato riferimento esclusivo
ed escludente, dall‟altro cinque grandi cause spiegherebbero la difficoltà della disciplina di
comprendere in maniera adeguata la realtà:16
presentism, la teoria è troppo preoccupata dalla
spiegazione dei fatti correnti e troppo poco dal processo storico che ha portato alla situazione
odierna; ahistoricism, ovvero il desiderio di emulare le leggi delle scienze naturali, proiettando la
disciplina al di là del limite spazio-temporale conduce in alcuni casi a quelle che Rosemberg, in
riferimento al paragone realista secondo cui «patterns recur, and events repeat themselves
endlessly»17
dal conflitto nell‟Ellade tra Atene e Sparta a quello più recente tra Stati Uniti e Unione
Sovietica, definisce una «gigantic optical illusion»18
; Eurocentrism o l‟evoluzione della disciplina
in senso eurocentrico mostra scarsa e pressoché nessuna attenzione alla dimensione non europea;
anarcophilia come conseguenza della percezione eurocentrica e di uno sviluppo quasi positivista
della materia (ahistoricism) il mondo accademico, in particolar modo quello che fa riferimento al
cosiddetto neorealismo, pone eccessiva attenzione alle caratteristiche della condizione di anarchia
come spiegazione del sistema internazionale; state-centrism (o politicophilia), di pari passo con il
problema di anarcophilia, esso causa una
sopravvalutazione della dimensione militare e politica a discapito di altri importanti settori, come
quello economico e/o sociale.
15
B. Buzan & R. Little, International Systems in World History: Remaking the Study of International Relations, Oxford,
Oxford University Press, 2000. Sono presenti nel libro altre date «turning points», ossia il 1900, il 1945 e il 1989. 16
Quello che segue è un adattamento da B. Buzan & R. Little, International System in World History, cit., pp. 19-22. 17
K. N. Waltz, Theory of International Politics, Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1979, p. 66. 18
J. Rosenberg, The Empire of Civil Society: A Critique of the Realist Theory of International Relations, London,
Verso, 1994, p. 90.
5
Sulla stessa riga Acharya, curatore del libro Non-Western International Relations Theory insieme a
Buzan, pone l‟accento su quattro grandi pregiudizi (biases) della materia19
: l‟etnocentrismo o la
tendenza a teorizzare le relazioni internazionali utilizzando principi chiave e meccanismi derivanti
da idee, cultura e esperienza storico-politica occidentale, pregiudizio che vede come altra faccia
della medaglia la completa marginalizzazione delle idee, cultura e esperienza storico-politica del
mondo non-occidentale; il “falso universalismo”, ovvero l‟assunto per cui la teoria delle relazioni
internazionali non è altro che un‟espansione della storia diplomatica europea e della politica estera
statunitense odierna; una divergenza («disjuncture») de facto tra teoria e prova empirica nel senso
che spesso le teorie tradizionali sono incapaci di spiegare realtà diverse dalla propria; «agency
denial» come rifiuto o negazione di principi propri delle società o dei paesi non occidentali e il
conseguente adattamento di principi occidentali all‟interno dei medesimi (es. l‟adattamento del
principio di sovranità in Asia o in America Latina).
Tali pregiudizi sono soprattutto il frutto dello sviluppo della teoria a partire dal secondo dopoguerra
nel continente americano. A tal propposito in un saggio del 1977 dal titolo An American Social
Science: International Relations Stanley Hoffmann analizza come nella “terra promessa” del Nord
America le relazioni internazionali siano diventate una disciplina accademica grazie alla
convergenza di tre fattori: la predisposizione intellettuale radicata nella convinzione di poter
comprendere la realtà così come il mondo naturale insieme ad una maggiore rilevanza tematica per
l‟analisi del “potere”, oggetto di studio ad esempio di uno dei padri della disciplina, Hans
Morgenthau20
, e la presenza di accademici provenienti dal vecchio continente desiderosi di evitare
un‟altra catastrofe come il secondo conflitto mondiale21
; le circostanze politiche sul ruolo degli Stati
Unti nel palcoscenico mondiale, per cui la convinzione che studiare la politica estera statunitense
voleva dire studiare il sistema internazionale, ragione del relativo sviluppo di teorie in grado di
soddisfare e a “giustificare” le esigenze politiche del Paese (es. realismo); i fattori istituzionali del
sistema di governo che interpreta il ruolo degli accademici come veri e propri cuochi nelle “cucine
del potere” («kitchens of power»).22
Le accuse finali mosse da Hoffmann sono simili alle considerazioni fatte da Acharya e Buzan sopra
descritte:
19
Cfr. A. Acharya, Non-hegemonic International Relations: a preliminary conceptualization, saggio del 2008
disponibile online sulla pagina personale di Acharya, http://amitavacharya.com. 20
H. Morgenthau, Politics Among Nations. The Struggle for Power and Peace, New York, Alfred A. Knopf, 1948 (trad.
it. [introduzione di Luigi Bonante] Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Bologna, Il Mulino, 1997). 21
Tra i nomi degli accademici che hanno portato un contributo rilevante allo sviluppo della materia possono essere
citati a titolo di esempi: Arnold Wolfers, Klaus Knorr, Karl Deutsch, Ernst Haas, George Liska, lo stesso Hoffmann. 22
S. Hoffmann, „An American Social Science: International Relations‟, Daedalus, vol. 106, n. 3, 1977, p. 49.
6
[…] the discipline of international relations is, so to speak, too close to the fire. It needs triple
distance: it should move away from the contemporary, toward the past [presentism]; from the
perspective of a superpower (and a highly conservative one), toward that of the weak and the
revolutionary – away from the impossible quest for stability [Eurocentrism/state-centrism]; from the
glide into policy science, back to the steep accent toward the peaks which the questions raised to the
traditional political philosophy represent [ahistoricism].23
In questo grande dibattito sull‟evoluzione del sistema/società degli stati, sulla
continuità/discontinuità del sistema dello stato-nazione e sulla capacità empirica della teoria delle
relazioni internazionali si pone il libro Non-Western International Relations Theory di Acharya e
Buzan. Non si tratta di “de-euroamericanizzare” e di “de-occidentalizzare” le relazioni
internazionali o la teoria tradizionale, ma di mettere in discussione la capacità di adattamento di
questa in realtà diverse e di cercare di intravedere la possibilità per tali realtà di sviluppare a loro
volta orientamenti teorici, ponendo nel dibattito un nuovo modo di pensare la società internazionale
(new thinking on international society) e soprattutto un nuovo modo di pensare la teoria delle
relazioni internazionali (new thinking on international relations theory) e sebbene “theory is always
for someone and for some purpose”, come ricorda un esponente della teoria critica, Robert Cox,24
che rimane per ora un‟ottima risposta alle domande cruciali del libro: why is the non-Western
international relations theory? Why is there no international relations theory?
Una dovuta premessa: dal concetto di “teoria” al concetto di “contributo alla teoria”
Buzan e Achaharya non chiariscono quale tipo di teoria si tratti, se per teoria si intenda o meno la
suddivisione di Wæver citata all‟inizio del libro25
tra «softer reflectivist undestandings of theory»,
presente nel continente europeo e caratterizzata da una rigorosa connessione tra concetti e categorie,
e «hard positivist understandings of theory», concezione positivista di teoria presente invece negli
Stati Uniti con una stretta connessione tra causa ed effetti,26
suddivisione che separerebbe a sua
volta il mondo occidentale tra Stati Uniti e Europa complicandone così ulteriormente la scelta.
Privilegiare un tipo di teoria rispetto ad un‟altra pertanto rischierebbe di tramutarsi in una
deviazione sostanziale rispetto all‟iniziale proposito del libro di capire «what is out of there»27
nel
modo di pensare sulle relazioni internazionali nel continente asiatico.
23
Ivi, p. 59. 24
Vd. Robert Cox, „Social Forces, States and World Order: Beyond International Relations Theory‟, in Robert O.
Keohane (ed.), Neorealism and its Critics, New York, Columbia University Press, 1986, pp. 204-254. 25
Vd. A. Acharya & B. Buzan, op. cit., p. 2. 26
O. Wæver, „The Sociology of a Not so International Discipline: American and European Development in
International Relations‟, International Organization, vol. 52, n. 4, 1998, pp. 687-727. Distinzione che poi è la stessa
compiuta da Hollis e Smith tra understanding e explanation in M. Hollis & S. Smith, Explaining and Understanding
International Relations, Oxford, Clarendon Press, 1990. 27
A. Acharya & B. Buzan, op. cit., p. 4.
7
Rebus sic stantibus, i due curatori sembrerebbero trovare inizialmente una soluzione richiamando i
fini che essa si prefigge: la teoria, quindi, può essere «universalista», universale nello scopo,
applicabile cioè all‟intero sistema degli stati (es. K. Waltz, Theory of International Politics, 1979),
o «eccezionalista», applicabile cioè ad un sottosistema nelle sue distintive caratteristiche.28
Trovare degli esempi di teorie eccezzionaliste risulta un‟impresa sisifica e a fortiori qualora si
volesse trovare una teoria eccezionalista fatta da asiatici che tratti del continente asiatico come di un
sottosistema, cosa accaduta non stranamente made in Usa (Fairbank, Chinese World Order, 1968).
Lo stesso eccezionalismo portato alle estreme conseguenze negherebbe inoltre la possibilità di
teorie universaliste o universali. Se le differenze fossero più evidenti delle similarità, una teoria
condivisa seppur a livello sistemico si reggerebbe su basi troppo fragili per essere considerata tale.
Parrebbe di vedere in questa trappola relativista un interessante collegamento con la formula di Cox
presentata nel precedente paragrafo. Se tutte le teorie fossero per qualcuno e per qualcosa, anche
una teoria universalista sarebbe impossibile se non come cartina di tornasole per gli interessi di
quelli che la promuovono. Colta da E. H. Carr, che avverte che «the English-speaking peoples are
past masters in the art of concealing their selfish national interests in the guise of the general
good»29
, la prospettiva di Cox imprime al dominio per così dire “anglofono” della disciplina una
forza “attiva” di tutela, il cui risultato finale si manifesta in una tensione perenne tout court nell‟atto
di “creazione” di una teoria: la teoria tradizionale occidentale sarebbe così uno forzo quasi
inconscio di mantenere e salvaguardare la propria posizione di forza.
Queste dovute premesse hanno spinto i due curatori a spostarsi piuttosto sulla curiosa definizione di
“contributo alla teoria delle relazioni internazionali” qualora si presenti almeno una delle seguenti
condizioni:
che lo studio in questione sia considerato nell‟ambito della comunità accademica delle
relazioni internazionali come una teoria in nuce;
che esso sia considerato dai suoi creatori come tale seppur non sia riconosciuto all‟interno
della comunità accademica;
che, a prescindere da un eventuale riconoscimento, il modo in cui è strutturato lo identifica
come un tentativo sistematico di generalizzare su una questione o un oggetto delle relazioni
internazionali.
Da qui anche la definizione di “pre-teoria” come insieme di possibili fonti che prese singolarmente
possono costituire un punto di partenza per la nascita di una teoria.30
Tale necessità di allargare i
28
Tale distinzione sembra ricordare per certi aspetti la suddivione tra teorie riduzioniste e teorie sistemiche in K. N.
Waltz, Teoria della politica internazionale, Bologna, Il Mulino, 1987, cap. IV, pp. 135-162. 29
E.H. Carr, The Twenty Years Crisis, London, Macmillan, 1946 (II ed.), p. 79. 30
A. Acharya & B. Buzan, op. cit., p. 6.
8
confini teorici, seppur con le dovute critiche (come si vedrà in seguito), è uno strumento per
analizzare non solo la presenza di una teoria delle relazioni internazionali nei case studies presi in
esame, ma anche l‟oggetto su cui la teoria o il “contributo alla teoria” si concentrerebbe.
Le «main possibilities» come spiegazione del dominio occidentale nella teoria delle relazioni
internazionali
La teoria delle relazioni internazionali così come studiata e diffusa all‟interno della comunità
accademica è quasi esclusivamente di provenienza occidentale sic et simpliciter. Acharya e Buzan
propongono a loro volta cinque possibili spiegazioni («main possibilities») alla prova empirica dei
case studies.31
Tali spiegazioni non si escludono vicendevolmente, ma al contrario è d‟uopo
immaginarne le combinazioni.32
1. Western IRT has discovered the right path to understanding IR
La teoria tradizionale proveniente dal mondo occidentale sarebbe pienamente in grado di
comprendere le relazioni internazionali..
Mentre è vero che la disciplina è fortemente legata alla storia del mondo occidentale con
tutte le conseguenze derivanti (anarcophilia, state-centrism, Eurocentrism), lo stesso legame
ne coinvolge lo sviluppo in una più ampia prospettiva per l‟analisi storico-politica anche
della restante parte del mondo. La visione di Cox sul concetto di teoria mostra ancora una
volta come essa sia in un certo senso un atto politico (nel senso della definizione di Easton
di allocuzione imperativa di valori), e teorie come la balance of power (equilibrio di
potenza), la stabilità egemonica (la necessità di un paese egemone per la stabilità
internazionale), la pace democratica (paesi democratici e relazioni pacifiche tra gli stati) o
l‟unipolarità (massima concentrazione di potere nelle mani di una sola potenza) non possono
che stabilizzare il mondo che si propongono di descrivere. Tale accettazione produrrebbe
degli effetti anche qualora, puta caso, in termini materiali l‟unipolarità non si dimostrasse
un‟accurata descrizione della realtà e, in effetti, le stesse riserve di Carr sopra menzionate
sul dominio attuale del mondo anglofono devono essere guardate non senza sospetto.
2. Western IRT has acquired hegemonic status in the Gramscian sense
La teoria occidentale grazie al dominio di questo negli ultimi due secoli sarebbe riuscita a
stabilizzarsi nello status gramsciano di teoria dominante. Essa risulta quindi in grado di
31
Ivi, pp. 16-22. 32
Le cinque spiegazioni proposte nel libro sono qui riproposte nello stesso ordine e mantenendo fede all‟originale
inglese nella loro denominazione.
9
“diffondersi in tutta l'area sociale, determinando oltre che l'unicità dei fini economici
politici, anche l'unità intellettuale e morale, ponendo tutte le questioni intorno a cui ferve la
lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale»”, creando così i presupposti per
un complesso sistema di controllo.33
Il processo di decolonizzazione ha lasciato nella sua scia un mondo rimodellato a immagine
e somiglianza degli stati europei. Il prezzo per l‟indipendenza è stato l‟accettazione da parte
delle élites locali di questa struttura o sovrastruttura in ottica marxiana attraverso alcune
idee chiave di politica economica, di sovranità e di territorialità, mentre altri leitmotiv come
quelli di democrazia e del rispetto dei diritti umani si sono diffusi con più evidenti difficoltà.
Talvolta a livello locale se ne è persino ampliato il campo di applicazione, come nel caso
della dottrina del non intervento, secondo la quale ogni stato deve essere arbitro e artefice
del proprio destino, in discussione in Occidente e diventata contemporaneamente più salda
nel mondo non occidentale.
Se nel rispetto del precedente punto (Western IRT has discovered the right path to
understanding IR) la teoria avesse conquistato tale status semplicemente per il fatto che essa
avrebbe trovato il modo migliore per comprendere le relazioni internazionali, non vi sarebbe
spazio per contributi non occidentali. Se invece tale posizione e comportamento di “classe
dominante” dovesse risalire al potere occidentale, ovvero alle sue “capacità relative”, a quel
punto a ragione andrebbe data voce ad una prospettiva teorica non occidentale.
Particolarmente significante a proposito notare come il colonialismo non solo ha spesso
annullato la intellighenzia locale, ma è anche riuscito nell‟ardua impresa di tagliare fuori le
popolazioni dalla loro cornice storica inserendole tout court nel processo storico occidentale.
Vice versa il grado di consapevolezza della restante parte del mondo è sfociato nel desiderio
di evitare di aver a che fare con le teorie tradizionali per paura di rimanere intrappolati in
tale egemonia.
3. Non-Western IR theories do exist, but are hidden
Potrebbe esserci anche la possibilità che in realtà esista uno sviluppo teorico nel mondo non
occidentale, ma che questo rimanga invisibile a causa, ad esempio, di barriere linguistiche
che ne impedirebbero la diffusione. Se le barriere fossero meramente linguistiche, la loro
circolazione sarebbe limitata anche all‟interno dello stesso mondo non occidentale: teorie
condotte in Giappone potrebbero trovare difficoltà a trovare eco in Cina o in India. Persino
in Europa teorie in francese o in tedesco sono spesso solo parzialmente o debolmente legate
33
Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerrentana, Torino, Enaudi, 1975 (II ed.), in particolare
Q. 13 “Noterelle sulla politica del Machiavelli” p. 1584, ma anche Q. 4 e Q. 6.
10
ai dibattiti del mondo anglofono.34
Le difficoltà linguistiche e/o culturali risiedono anche nel
fatto che talune particolarità non possono essere spiegate se non attraverso una determinata
lingua e non possono essere intraviste se non attraverso una certa lente, cosa che però
relegherebbe ciascuna lingua allo studio della propria area geografica con un conseguente
scarso interesse per la teoria generale. Le ragioni35
di tale invisibilità potrebbero essere
legate comunque a barriere più o meno imposte per entrare nei grandi dibattiti
dell‟Occidente, come scarse capacità recettive connesse al problema di ethnocentrism (vd.
parte sul dibattito accademico), ovvero alla tendenza a vedere le altre realtà attraverso la
propria esperienza storico-politica.36
Tuttavia i rari contributi sulle riviste specialistiche di accademici asiatici partono pur sempre
da presupposti occidentali, mentre le critiche alla disciplina si concentrano contro il dominio
statunitense, in particolare contro il modello dell‟attore razionale, trovando alternative in
Europa (qualcuna in Australia) piuttosto che in Asia.37
4. Local conditions discriminate against the production of IR theory
Ci sono varie condizione locali, motivi storici, culturali, politici e istituzionali, che possono
influenzare così come hanno influenzato lo sviluppo della disciplina.
Le condizioni storiche che hanno fatto in modo che l‟Occidente stabilisse una coscienza di
sé come area comune di valori condivisi sono state l‟inaspettato orrore, i costi e la
distruzione dei due conflitti mondiali. Da quel momento in poi la teoria delle relazioni
internazionali si è orientata verso la risoluzione di tali problemi: il liberalismo e il realismo
sono entrambi in modo diverso delle risposte alla sempre maggiore consapevolezza che il
problema della paura di una guerra diventava uguale, o persino superiore, alla paura di una
sconfitta. Se tale “trauma” storico è stato una necessaria “ostetrica” («midwife»38
) per la
nascita della materia, il colonialismo e la decolonizzazione da sole sarebbero bastate per
raggiungere tale scopo. Sebbene lo sviluppo della disciplina sia direttamente connesso alla
34
Vd. Jörg Friedrichs, European Approaches to International Relations Theory, London, Routledge, 2004. 35
Sul dominio occidentale nella IRT vd: Arlene B. Tickner & Ole Wæver (eds.), International Relations Scholarship
Around the World, New York, Routledge, 2009 oppure Ole Wæver, „The Sociology of a Not so International
Discipline: American and European Development in International Relations‟, cit. 36
Vd. A. Acharya, „Ethnocentrism and Emancipation IR Theory‟, in Samantha Arnold & J. Marshall Bier (eds.),
Displacing Security, resoconto della Conferenza Annuale dello YCISS (York Center for International and Security
Studies), Toronto, Centre for International and Security Studies, York University, 1999. 37
Vd. S. Smith, „The Discipline of International Relations: Still an American Social Science‟, cit. Su come la disciplina
fuori dagli Stati Uniti si fermi in Gran Bretagna e in Australia vd Robert A. Crowford & Darryl S. L. Jarvis (eds.),
International Relations – Still an American Social Science? : Toward Diversity in International Thought, New York,
State University of New York, 2000. Sulle relazioni internazionali in Asia vd: John G. Ikenberry & Michael
Mastanduno (eds.), International Relations Theory and the Asia Pacific, New York, Columbia University Press.
Tuttavia il volume di Ikenberry e Mastanduno contiene un solo contributo di un accademico asiatico. 38
A. Acharya & B. Buzan, op. cit., p. 19.
11
storia occidentale, non è affatto vero che le società non occidentali non siano state in grado
di muoversi in maniera decisa in seguito a fasi traumatiche della loro storia (es. sviluppo
della disciplina in Corea).
Analizzando più attentamente la matrice culturale invece ci si potrebbe chiedere se siano
presenti in realtà differenze culturali tali per cui il mondo occidentale è generalmente più
propenso a confrontarsi con i problemi in termini astratti. Nelle sue forme estreme
risulterebbe che la teoria in generale corrisponderebbe ad una forma mentis propria
dell‟Occidente, mentre gli “altri” sarebbero più inclini ad approcci empirici o astrazioni
legate a questioni locali senza alcuna presunzione di universalità. È innegabile infatti che le
relazioni internazionali come disciplina siano fiorite, come più volte ripetuto, nel mondo
anglofono (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia) e nei paesi dove l‟inglese è quasi
una seconda lingua (Scandinavia, Paesi Bassi). Da tali considerazioni nasce il terreno fertile
per l‟idea che esista per certi aspetti una specificità culturale della materia. Nella sua forma
debole di contro questo comporterebbe semplicemente che la teoria, in particolare quella con
tendenze universali, è una sorta di lusso («a kind of luxury»39
) che le società che stanno
lottando con il fardello dello sviluppo non possono concedersi. Il proposito di una teoria
locale sarebbe piuttosto la soluzione dei problemi a breve termine (tra l‟altro questa è la
tipica analisi di politica estera, almeno a livello regionale, dei case studies esaminati) senza
grandi sforzi per comprendere l‟intero sistema degli stati su vasta scala, magari a causa dello
status egemonico dell‟Occidente (Western IRT has acquired hegemonic status in the
Gramscian sense - punto 2). Una conseguenza di tale condizione potrebbe indurre nella
cultura locale una sorta di radicale demoralizzazione ad impegnarsi in più ampi dibattiti
teorici o, invece, una reazione avversa di impegno maggiore per lo sviluppo della disciplina.
Il fattore politico è legato solo parzialmente alla logica culturale. In Occidente la materia ha
avuto uno sviluppo florido nelle democrazie, anche se la presenza di alcune zone franche
(Italia e Spagna), dimostra tuttalpiù che la democrazia è una condizione necessaria ma non
sufficiente. Non ci si aspetterebbe mai che questa prenda piede in regimi autoritari o
totalitari (come dimostrato dall‟esperienza dell‟Unione Sovietica), dove il governo ha un
forte interesse politico a tenerla sotto controllo, seppure siano presenti nella storia europea
rari casi che dimostrano esattamente il contrario (es. Kant con Federico Guglielmo III di
Prussia). Vale comunque la pena notare che la tipica esperienza occidentale è che il governo
si interessi poco o per nulla a come le relazioni internazionali vengono studiate e di certo
non vede in questo pericoli per la propria autorità. Probabilmente si prenderà in prestito a
39
Ivi, p. 21.
12
seconda delle occasioni elementi teorici per “adornare” politiche specifiche così come è
accaduto che alcuni principi del realismo abbiano pervaso la politica estera occidentale,
dove non è affatto raro per gli accademici giocare ruoli importanti nella compagine di
governo.40
Tale situazione sembra avere più a che fare, contrariamente alle tesi di Hoffmann
(vd. parte su dibattito accademico), con la personale volontà di dar voce ad un attivismo
politico nel contesto del sistema partitico statunitense. Di regola in ogni caso lo studio delle
relazioni internazionali più strettamente connesso alle autorità di governo è meno teorico,
ragion per cui i cosiddetti think thanks si concentrano piuttosto su analisi empiriche di
questione attuali.
La situazione istituzionale può, infine, anch‟essa impedire o porre delle barriere allo
sviluppo della disciplina, come la mancanza di risorse, la cattiva organizzazione dell‟attività
di ricerca o le scarse possibilità di carriera. Ci potrebbero essere particolari circostanze locali
relative a come le relazioni internazionali siano state introdotte, a chi ne siano stati i pionieri
e se siano presenti collegamenti con altre discipline in grado di oscurare o di impedire lo
sviluppo di una teoria. Mentre un collegamento con la storia o col diritto favorirebbe una
tendenza quasi anti-teorica, la teoria sarebbe invece maggiormente presente laddove vi fosse
una stretta connessione con la scienza politica o con la sociologia.
5. The West has a big head start, and what we are seeing is a period of catching up
Il grande vantaggio iniziale del mondo occidentale riguarda perlopiù la questione delle
risorse, ragion per cui è probabile aspettarsi il raggiungimento o almeno l‟avvicinamento del
mondo non occidentale di pari passo con il ritmo con cui esso si avvicina alla
modernizzazione. Seppur si ritenga che questo debba ripetere lo stesso percorso della
disciplina avvenuto in Occidente41
, differenze resterebbero evidenti per la semplice
constatazione che si tratterebbe, e si tratta comunque, di un campo di azione in cui il
dominio e la penetrazione occidentale sono stati continui e sono tuttora presenti.
La verifica delle ipotesi e i case studies
I capitoli empirici, ovvero le analisi riguardanti i singoli paesi (Cina, Giappone, Corea del Sud,
India, Indonesia), uno studio dell‟area regionale del Sud-Est Asiatico e sul mondo islamico, pur
sviluppandosi in maniera diversa, toccano ciascuno i seguenti punti:
40
Per fare degli esempi: Henry Kissinger, segretario di stato con Nixon e Ford; Zbiginiev Brzezinski, Consigliere per la
sicurezza nazionale con Carter; Joseph Nye, assistente del segretario della difesa con Clinton; Stephen Krasner,
Director of Policy Planning del dipartimento di stato dal 2005 al 2007. 41
Vd. Mohammed Ayoob, The Third World Security Predicament, Boulder (Colorado), Lynne Rienner, 1995.
13
presenza di un modo di pensare la teoria delle relazioni internazionali nel contesto
locale, la sua nascita, il suo sviluppo e la sua diffusione; quanto si riferisce ai modelli
generali sviluppatisi nelle scienze sociali; su quali questioni focalizza la sua attenzione;
valutazione dell‟impatto della teoria occidentale come approccio per comprendere la
realtà dei casi in esame;
come il modo di pensare le relazioni internazionali a livello locale è stato influenzato e,
se in maniera rilevante, ha a sua volta influenzato i dibattiti occidentali?
se vi sia una teoria locale delle relazioni internazionali, il perché sarebbe stata esclusa
dai dibattiti occidentali e/o si sarebbe isolata e/o sarebbe stata isolata;
studio delle fonti provenienti dalla tradizione storica, politica e filosofica dei casi in
esame (es. i nodi cruciali della loro storia, i leader politici, le loro ideologie, il pensiero
dei filosofi) con una valutazione di quale ruolo giocano nel dibattito all‟interno della
disciplina e di come potrebbero essere le basi di un‟eventuale teoria.
Il primo caso preso in analisi è la Cina attraverso lo studio di Yaqing Qin, professore di Studi
Internazionali alla China Foreign Affairs University (CFAU). La ragione principale dell‟assenza di
una teoria “cinese” delle relazioni internazionali sarebbe dovuta alla visione del mondo del pensiero
tradizionale cinese che manca di un «international-ness».42
Dal momento che ogni teoria legata ad
un‟identità deve poggiare su un‟idea forte, mentre per gli Stati Uniti vi è la pace democratica, per la
Scuola Inglese la società internazionali43
, per lo sviluppo della disciplina in Cina l‟idea chiave
potrebbe essere il concetto confuciano di Datong (grande armonia universale) insieme alla
tradizionale visione del mondo cinese, denominata Tianxia, che letteralmente vuol dire “spazio
sotto il cielo”. Secondo l‟idea di Tianxia non c‟è nessuna entità delimitata da confini ben precisi né
concetti ad essi legati di sovranità e integrità territoriale. Tali concetti uniti all‟ideale confuciano di
“ordine”, che rispecchia il rapporto tra padre e figlio inuguale e benigno, erano a base del cosiddetto
“sistema dei tributi” durato dal 221 a.C. fino alla fine del secolo XIX, secondo il quale gli stati
periferici o semi-indipendenti pagavano una sorta di “omaggio formale” di sottomissione alla Cina
in cambio della pace e del riconoscimento di legittimità. Nel “sistema dei tributi” non vi era affatto
uguaglianza reciproca tra le unità che lo componevano, anzi per dirla in altri termini «therefore
there were no „like units‟ as Waltz says».44
La situazione è mutata completamente dopo la guerra
42
Vd. Yaqing Qin, „Why is there no Chinese international relations theory?‟, in A. Acharya & B. Buzan (eds.), op. cit.,
p. 35. 43
William A. Callahan, „Nationalizing International Theory: The Emergence of the English School and IR Theory with
Chinese Characteristics‟, relazione presentata all‟incontro IR Theory in the 21st Century: British and Chinese
Perspective, Renmin University of China, 2002. 44
Y. Qin, „Why is there no Chinese international relations theory?‟, in Acharya & Buzan (eds.), op. cit., p. 37.
14
dell‟oppio (1841) quando tale sistema ha fatto posto al moderno stato-nazione. Gli intellettuali
cinesi iniziarono così a confrontarsi con il razionalismo materialista e con l‟individualismo del
pensiero moderno occidentale ben lontano dalla tradizionale visione olistica cinese. Dagli anni
settanta del secolo scorso i grandi cambiamenti di Den Xiaoping di natura istituzionale con
l‟apertura della Cina al mondo, sociali all‟interno dell‟identità cinese rispetto al sistema
internazionale (identificazione positiva come membro della comunità internazionale; identificazione
zero: allontanamento o riavvicinamento a seconda della propria volontà; identificazione negativa:
tendenza ad opporsi alla comunità internazionale)45
, ideologici con l‟inizio di un‟era non-
rivoluzionaria, hanno portato la teoria delle relazioni internazionali in Cina a confrontarsi prima con
le teorie tradizionali occidentali che con la propria tradizione storico-politica, quindi con se stessa.
Il caso del Giappone analizzato da Takashi Inoguchi dell‟Università di Tokyo focalizza la sua
attenzione sugli elementi considerati come solide fondamenta di uno sviluppo di una teoria
nipponica delle relazioni internazionali. La chiarezza e l‟immediatezza di Inoguchi tolgono spazio a
ogni dubbio. «Are there any theories of international relations in Japan? My answer to the question
is qualified yes».46
L‟esempio lampante di tale esistenza è il “modello delle oche volanti” («flying
geese pattern») sullo sviluppo economico in Asia: un paese allo stadio evolutivo più avanzato (oca
guida) mette a disposizione dei paesi meno sviluppati la propria conoscenza diventando esso stesso
poi mercato per l‟export di quest‟ultimi.
Gli attuali studi di relazioni internazionali in Giappone sono caratterizzati da quattro grandi correnti
di pensiero: la staatslehre (scienza politica), lo storicismo, il marxismo, il positivismo. Ancora oggi
esiste tale divisione con una fervida “coesistenza competitiva” tra i quattro filoni, che non mostrano
nessun tentativo di integrazione. Tale peculiarità di «diversity without disciplinary integration»47
è
una delle cause dell‟isolamento della comunità accademica nipponica persino rispetto al confronto
con i paesi vicini della Corea, di Taiwan o della Cina.
Tre teorici, o meglio “pre-teorici” secondo la definizione di teoria e di “pre-teoria” data da Acharya
e Buzan, avallerebbero l‟ipotesi iniziale sull‟esistenza di una scuola nipponica delle relazioni
internazionali fin dal secondo conflitto mondiale48
: Nishida Kitaro come esempio di «innate
constructivist» con l‟emergere dell‟identità nipponica nella dialettica tra Occidente e Oriente;
45
Cfr. Yaqing Qin, „IR Theory and Foreign Policy in China‟, relazione presentata al Sino-US Symposium on
International Relations, Beijing, 2003. 46
Takashi Inoguchi, „Why are there no non-Western theories of international relations? The case of Japan‟, in A.
Acharya & B. Buzan (eds.), op. cit., p. 51. 47
Ivi, p. 54. 48
Ivi, p. 62.
15
Tabata Shigejiro con i suoi studi sull‟uguaglianza tra stati sovrani; Hirano Yoshitaro
sull‟integrazione economica regionale.49
Se si considera poi la mancata colonizzazione occidentale dell‟isola, seppure tenuta presente
l‟occupazione alleata (1945-52), non si può non vedere l‟attività di ricerca perlopiù descrittiva come
una peculiarità bumi putra (autoctona), di cui è necessario l‟inserimento in una logica diversa da
quella che Inoguchi chiama la “bibbia della metodologia” occidentale («positivistic methodology
bible»50
) di King, Verba e Kehoane, che rifletta piuttosto i legami culturali e religiosi nipponici.51
L‟analisi della Corea (del Sud) di Chaesung Chun del Dipartimento di Relazioni Internazionali
dell‟Università di Seoul si concentra sulle cause del sottosviluppo coreano della disciplina. Prima
dell‟arrivo dell‟Occidente i pensatori coreani avevano idee ben delineate sulla politica regionale
delle relazioni inter-dinastiche, in particolare sui rapporti con la Cina, il centro del sistema dei
tributi, e il Giappone. Durante il periodo di transizione dal sistema dei tributi al moderno stato-
nazione (1876-1910), il mondo coreano ha avuto notevoli difficoltà a recepire i concetti occidentali
di sovranità nazionale e di integrità territoriale. La nascita della Corea del Sud riconosciuta come
stato sovrano dalla comunità internazionale nel 1948 è stato il punto di partenza per uno sforzo
verso una teoria delle relazioni internazionali. Negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso la
comunità accademica coreana di fronte alla dura realtà del conflitto bipolare ha analizzato la
situazione della penisola attraverso le teorie occidentali, soprattutto statunitensi, dominate dalla
scuola del realismo. Dopo questa fase di «importing final products» o «period of citation», la
comunità accademica locale ha cercato di adattare tali teorie, in particolare gli studi sulla sicurezza,
alla realtà coreana («period of import substitution»), mentre il successo della teoria della
dipendenza sull‟esistenza di un disegno diseguale e pregiudiziale per i paesi non-sviluppati
suggeriva un riesame delle teorie tradizionali.52
Dalla fine della guerra fredda con l‟ascesa della
Cina, nella fase di transizione post-moderna53
caratterizzata dai fenomeni della globalizzazione,
delle tecnologie dell‟informazione e della comunicazione (ICT), della democratizzazione e da nuovi
49
Cfr. Nishida, Intelligibility and the Philosophy of Nothingness: Three Philosophical Essay, Shinzinger, Robert (trad.),
Honolulu, East-West Center Press, 1958; S. Tabata, Kokka byodo no tankan (The Transformation of the Concept of
Equality of States), Kyoto, Akitaya, 1946; Y. Hirano, Mimpo niokeru Roman ho to German ho (The Roman Law and
the Germanic Law in Civil Law), Tokyo, Yuukikaku, 1924. 50
Takashi Inoguchi, „Why are there no non-Western theories of international relations? The case of Japan‟, in A.
Acharya & B. Buzan, op. cit., p. 63. 51
Vd. G. King, Robert Kehoane & Sidney Verba, Designing Social Inquiry: Scientific Interference in Qualitative
Research, Princeton, Princeton University Press, 2001. Per una visione diversa più vicina al caso nipponico si veda R.
Pettman, Reason, Culture, Religion: The Metaphysics of World Politics, New York, Palgrave Macmillan, 2004. 52
C. Chun, „Why is there no non-Western international relations theory?‟, in Acharya & Buzan (eds.), op. cit., pp. 70-
74. 53
Vd. Chung-In Moon & C. Chun, „Sovereignity: Dominance of the Westphalian Concept and Implications for
Regional Security‟, in Muthiah Alagappa (ed.), Asian Security Order: Instrumental and Normative Features, Stanford,
Stanford University Press, 2003.
16
scenari di sicurezza asimmetrici, l‟influenza statunitense si è di gran lunga indebolita per dar spazio
ad un tentativo di sviluppo “coreano” della teoria delle relazioni internazionali.
Una contraddizione forte persiste tra la consapevolezza che in particolare il realismo e gli studi sulla
sicurezza sono stati più che utili a comprendere la situazione coreana e l‟assunto che la teoria
occidentale sia inadatta a comprendere la complicata realtà del Nord Asia. In tal senso va
inquadrato l‟attuale tentativo di sviluppo teorico locale come necessaria chiave di svolta per un
progetto post-moderno e non il superamento della teoria occidentale stricto sensu.
Navnita Chadha Behera dell‟Università di Delhi presenta il caso indiano. Non è privo di interesse
per il tentativo di approfondimento qui proposto notare che l‟analisi si apra con una critica agli
sforzi della comunità accademica indiana di creare una scuola locale delle relazioni internazionali:
pur riuscendo nell‟ardua impresa che si prefigge il loro intento, gli sarebbe concesso ben poco
spazio all‟interno della narrativa dominata dall‟Occidente. Persino le attività di ricerca di una delle
due scuole di pensiero delle scienze sociali indiane indicate da Behera, la scuola del «we do
theorize» (l‟altra - «we don‟t theorize» - per “definizione” non fa sorgere nessun tipo di problema),
non viene riconosciuta dalla comunità accademica occidentale, impedendole in tal caso di essere
considerata nella ampia definizione di “contributo alla teoria” e di “pre-teoria” di Acharya e Buzan.
Per “re-immaginare” le relazioni internazionali stesse e concepire una teoria post-occidentale
occorre riconsiderare i tre assunti («sets of „given‟») in cui è imprigionata la materia in India,
rappresentati graficamente in tre cerchi concentrici: l‟inadeguatezza dell‟India secondo il concetto
dello stato-nazione è causa di una vulnerabilità interna nei principi del realismo politico e in una
cieca “positivistica” fede nella modernità.54
Political Realism
Positivistic Logic
embedded in Modernity
Facendo propria l‟espressione di Pierre Macherey, Gayatri Spivak, come ricorda Behera, ha notato
che «what is important in a work is what it does not say. This is not the same as a careless notation
[but] “what is refuse to say”».55
Misurare il silenzio vuol dire di contro misurare il livello di
esposizione all‟enorme potere esercitato dal grande disegno verso la modernità che stabilisce i
54
N. C. Behera, „Re-imagining IR in India‟, in A. Acharya & B. Buzan, op. cit., p. 98. 55
Gayatri Chakravorty Spivak, „Can the Subaltern Speak?‟, in Diana Brydon (ed.), Postcolonialism: Critical Concepts
in Literary and Cultural Studies, Volume IV, London, Routledge, 2000, p. 1445.
Westphalian
Nation-state
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parametri di appartenenza o meno al campo della teoria delle relazioni internazionali. In maniera
opposta si delegittima come possibile fonte il passato indiano come il nazionalismo di Gandhi,
Nehru o Tagore. Lo stesso Kautilya, filosofo politico “realista” vissuto nel IV secolo a.C., che con il
suo trattato Arthashastra (“La scienza del guadagno materiale”) potrebbe essere paragonato a torto
o a ragione a Hobbes o a Machiavelli, non è stato considerato come avrebbe potuto, preferendo
sempre e comunque prendere a riferimento i corrispettivi occidentali.
Una scuola “indiana” delle relazioni internazionali avrà sempre difficoltà a farsi largo se continuerà
la sua battaglia intellettuale su una zolla («turf»56
) dominata dai principi della teoria occidentale.
Il Sud-Est Asiatico è oggetto di studio di Alan Chong della Nanyang Technological University di
Singapore. L‟assenza completa di orientamenti locali è dovuta innanzitutto alla modernizzazione
come punto di arrivo dei più ampi processi di colonialismo e nazionalismo. In tale ottica le attività
di ricerca compiute dagli accademici locali dal secondo dopoguerra in poi partono da una
riproduzione regionale di principi occidentali. Tale egemonia si completa quando le prospettive di
un‟Unione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e le dispute bilaterali vengono analizzate
secondo i principi della scuola realista («realist regionalism»57
), mentre la scuola liberale non può
vantare lo stesso successo, non in maniera sorprendente se si considera che i quattordici stati
dell‟area sono poveri di risorse, assai gelosi della loro indipendenza e divisi in senso geografico
(isola-terraferma), religioso (buddisti, musulmani, induisti, cristiani, taoisti, confuciani, animisti e