-
5. NOVECENTO BARBARO: DALL’“INUTILE STRAGE” AD AUSCHWITZ
Il problema dell’irruzione della barbarie nel cuore stesso della
cultura europea, che nei secoli passati si era autodefinita come
modello positivo e progressivo di civiltà, é l’oggetto di questo
percorso. L’ampiezza dell’argomento, tuttavia, impone di limitare
la riflessione al momento nel quale si verifica il crollo delle
certezze che avevano a-nimato le generazioni che si erano succedute
dal secolo dei lumi fino alle soglie del Novecento: la Grande
guerra. Essa rappresenta, infatti, l’evento che scatena meccani-smi
di aggressività che la tecnologia sempre più perfezionata rende più
distruttivi. Se da un lato le masse e molti gruppi di intellettuali
vengono suggestionati dal fascino di una guerra della quale non si
conoscono ancora gli effetti, dall’altro la visione delle macerie
materiali e morali che essa lascia ove passa muove una riflessione
che si in-terroga sul valore delle stessa civiltà occidentale che
quelle distruzioni ha voluto, la discussione sull’attributo
“barbaro”.
La qualifica di barbarie attribuita al Novecento deve essere
presa con cautela e richiede alcune precisazioni.
È vero che atti di inaudita e impensata barbarie hanno fatto
irruzione nel cuore stesso di quella che si considerava la civiltà
per eccellenza, ossia la cultura occidentale: le due guerre
mondiali, con il loro carico di sangue e di devastazioni, ne sono
soltanto l’aspetto più evidente, perché guerre locali, genocidi,
discriminazioni politiche e razzia-li, e, non ultimo, il divario
tra povertà e ricchezza, sono continuati e si sono acuiti nella
seconda metà del secolo, con la responsabilità, a volte diretta a
volte indiretta, dell’Occidente.
È altrettanto vero che nessun altro secolo come il Novecento è
stato progressivo in tutti i campi della vita associata e civile.
In particolare i diritti umani si sono affermati in e-stensione,
ossia per un numero sempre più ampio di uomini e donne, e in
profondità, ampliando cioè il contenuto dei diritti riconosciuti
alla persona.
Il Novecento è allora, e piuttosto, un secolo nel quale la
contrapposizione civiltà e barbarie si è fatta più evidente e più
radicale. Nel corso della sua storia e all’interno del-la sua
produzione tecnico scientifica e culturale, il Novecento non è
stato immune da ri-gurgiti di barbarie, ma è anche stato capace di
produrre gli anticorpi che la possono pre-venire. Sembra, anzi,
quest’ultima la nota più caratterizzante la civiltà occidentale.
Nel contesto di questa premessa diventa importante conoscere e
analizzare i meccanismi che hanno prodotto quegli eventi che alla
luce della civiltà non possono che essere qua-lificati come
barbari. Tra questi, un nome ha assunto il ruolo di emblema di ogni
barba-rie: Auschwitz, ma l’elenco di luoghi e fatti che evocano
l’incubo del crollo della civiltà è assai lungo e attraversa tutto
il secolo. Comprendere le ragioni che hanno provocato la deriva
della civiltà in un secolo così controverso è quindi opera non solo
di carattere ac-cademico ma anche e soprattutto di impegno
civile.
L’immagine e il tempo della barbarie Uno sguardo retrospettivo
su Ottocento e Novecento individua nel 1914 un punto di non
ritorno; dopo quella data, le grandi illusioni di progresso
pacifico e di benessere mate-
-
2 Percorso 5 - Novecento barbaro: dall’“inutile strage” ad
Auschwitz
riale e spirituale, nutrite dalle generazioni della belle
époque, sembrano inghiottite in un vortice che inesorabilmente fa
irrompere nel cuore stesso della civiltà la più orrenda e inaudita
delle barbarie. Ciò che di fatto mette in discussione, e per alcuni
capovolge, l’immagine del Novecento progressivo e civile, sta in un
solo dato documentato dallo storico Eric J. Hobsbawm (1917) nella
sua ultima opera Il secolo breve (1995).
→ Vedi come l’espressione “secolo breve”, ormai adottata dagli
storici e dai mass media, sia dovuta all’opera, sopra citata, di
Hobsbawm, con la quale lo storico inglese qualifica il Novecento
rispetto all’Ottocento.
Afferma, infatti, Hobsbawm: “Una stima recente (1993) delle
grandi stragi del nostro secolo registra 187 milioni di morti”.
Apre la macabra rassegna la Prima guerra mon-diale con 13 milioni
di vittime, e i 50 milioni della Seconda guerra mondiale
costitui-scono un record assoluto. A questi dati impressionanti
seguono quelli delle guerre locali della prima metà del secolo e
tutte le guerre del “terzo mondo” nella seconda metà del secolo. La
stima di 187 milioni non comprende le guerre più recenti, ossia
quelle com-battute dopo il 1991 e non “computa” tra le vittime i
morti per le carestie che spesso so-no seguite alle guerre.
Un’altra opera di ricostruzione storica recentemente pubblicata, Il
libro nero del comunismo (1998), computa anche i 90 milioni di
morti che si addebitano ai regimi comunisti.
Quest’ultima cifra, sulla quale si è aperta una discussione
circa la sua attendibilità, ri-sulterebbe dalle stime dei morti per
guerre, deportazioni, carestie e catastrofi naturali connesse
comunque alle trasformazioni economiche introdotte dalle economie
colletti-vistiche. In ogni modo lo spettro della morte incombe
costante dal 1914 e sembra caratterizzare l’intero arco di storia
del “secolo breve”. Mentre infatti questo deborda dai suoi confini
temporali, perché i fatti che ne scandiscono la storia vanno dalla
Rivoluzione francese (1789) alla Grande guerra (1914), il Novecento
completa il suo “breve” ma intenso arco dalla Grande guerra al
crollo dell’Urss (1991).
→ Vedi sui manuali di storia e di storia dell’arte i caratteri e
le immagini della belle époque, periodo in cui l’Europa
industrializzata vive l’illusione di una pace e un progresso
stabili e duraturi. Ricorda inoltre che, per costruire una visione
complessiva del “Novecento barbaro”, è utile tracciare un quadro
sintetico dell’Ottocento e giustificare il significato
periodizzante delle date e dei fatti ad esse connessi proposti da
Hobsbawm: 1789-1914.
→ Vedi due autori appartenenti a scuole storiografiche diverse,
Eric J. Hobsbawm e François Furet (1927), i quali presentano nelle
loro opere una visione assai ampia e completa dei due secoli. Più
in particolare per il Novecento sono assai interessanti le loro
ultime opere: Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano
1995; François Furet, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano
1995.
Il crollo della civiltà occidentale Una volta ricostruita
l’immagine della società europea che, prima della Grande guerra,
nutre una fiducia illimitata nelle “magnifiche sorti progressive”,
possiamo renderci con-to della portata e del significato che deve
avere avuto la constatazione che della civiltà occidentale; la
coscienza della crisi è scandita da tre momenti.
1. La Grande guerra è il fattore che scatena nella coscienza
dell’Occidente dinamiche regressive e meccanismi distruttivi delle
conquiste materiali e civili avvenute nei decen-
-
3 Percorso 5 - Novecento barbaro: dall’“inutile strage” ad
Auschwitz
ni precedenti. In particolare l’Europa, che si era autoproposta
come “faro di civiltà”, vi-ve dentro i propri confini la certezza
del crollo ormai avviato ed inesorabile.
2. Il ventennio tra le due guerre mondiali può essere
qualificato come un momento di equilibrio precario durante il quale
l’Europa constata la debolezza dei sistemi politici
liberaldemocratici e socialdemocratici al confronto con i regimi a
partito unico e ten-denzialmente totalitari.
3. La Seconda guerra mondiale è il momento della catastrofe: 50
milioni di morti, un genocidio programmato, bombardamenti
convenzionali e atomici sulle popolazioni inermi lasciano nella
coscienza civile macerie che non sono ancora completamente
ri-mosse, anche se il “secolo breve” è ormai considerato
chiuso.
In questo percorso ci si limita ad analizzare il primo punto tra
quelli ora esposti.
La Grande guerra La Grande Guerra scoppia tra l’entusiasmo
generale; pochi riescono a sottrarsi al fasci-no dell’azione e
della forza. Ma presto la guerra rivela un volto che l’Europa non
aveva mai conosciuto. Le guerre dell’Ottocento, se si esclude
quella di secessione negli Stati Uniti che già presenta i caratteri
distruttivi delle guerre contemporanee, erano state con-tenute sia
nell’estensione sia nei loro effetti distruttivi. La guerra del
1914/18 deve la sua inquietante “grandezza” non solo alla quantità
delle vittime e all’entità delle risorse morali, economiche e
sociali sacrificate sui campi di battaglia; la sua inquietante
novità appare assai più impressionante se si analizzano alcuni dati
di ordine “qualitativo” nella conduzione della guerra, quali
l’impiego per la prima volta di armi chimiche (il gas i-prite
prende il nome dalla località francese di Ypres dove fu usato per
la prima volta dai comandi militari tedeschi); la volontà di
condurre la guerra fino alla capitolazione dell’avversario; il
primo genocidio del Novecento, ossia quello perpetrato dai turchi
nei confronti del popolo armeno ; la propaganda interna finalizzata
a dipingere l’avversario come il nemico assoluto, fatto
quest’ultimo che riproduce del Novecento la radicalità delle guerre
di religione. Nella Grande guerra si inserisce inoltre un nuovo
evento che la guerra stessa ha contri-buito a determinare: la
rivoluzione in Russia. La conquista del potere da parte del
parti-to bolscevico e la guerra civile che ne consegue tra le
“armate bianche” e l’Armata rossa sono eventi destinati ad
introdurre un ulteriore elemento di crisi nella coscienza europea:
la borghesia che lì vede materializzarsi lo “spettro del comunismo”
parteggia e sostiene, attraverso l’ intervento militare di quasi
tutti i maggiori Stati europei, il tenta-tivo di restaurazione
condotto dai “bianchi”, la classe operaia e ampi gruppi di
intellet-tuali intravedono nella vittoria dei bolscevichi l’evento
rivoluzionario destinato a intro-durre nella Storia un processo
irreversibile di giustizia sociale.
Questa frattura e, più in generale, l’incubo da un lato e le
speranze/illusioni dall’altro, suscitati dal comunismo, sono
ulteriori elementi che dividono e polarizzano l’opinione politica
nei paesi europei e scatenano quei fattori di tensione e
contrapposi-zione che caratterizzeranno l’intero secolo.
→ Vedi sul manuale di storia i motivi per i quali la guerra
1914-18 è stata denominata “grande”.
-
4 Percorso 5 - Novecento barbaro: dall’“inutile strage” ad
Auschwitz
La guerra nella letteratura e nella cinematografia La produzione
letteraria che ha per oggetto specifico la Grande guerra e il suo
carattere inaudito è assai vasta e può essere analizzata secondo
diversi modelli. Un possibile per-corso, che trova certamente
adeguati testi sui manuali d’uso comune nelle scuole, è quello di
valutare le seguenti posizioni di fronte alle nuove dimensioni
della guerra.
1. L’esaltazione dell’azione distruttiva e il fascino per la
tecnologia che ne moltiplica le possibilità.
→ Vedi ad esempio sul manuale di letteratura alcune pagine di
Filippo Tommaso Marinetti tratte da Zang Tumb Tumb nelle quali egli
trasferisce le sensazioni provate nell’azione durante la guerra di
Libia e la visione del volo aereo e degli effetti del
bombardamento. Sulle riviste di inizio secolo ad orientamento
nazionalista, quali ad esempio “Lacerba”, “Il Regno e La Voce”,
puoi trovare traccia dell’esaltazione della guerra come “igiene del
mondo” o il desiderio del salutare e benefico “bagno di sangue” che
rigeneri il carattere di un popolo.
2. Il resoconto amaro e disincantato dell’esperienza cruda della
morte vissuta faccia a faccia nella guerra in trincea.
→ Vedi la produzione poetica di Giuseppe Ungaretti in Allegria
di naufragi . 3. La riflessione sulla guerra di trincea e sul
sistema di disciplina militare che deve im-porre e giustificare il
supremo sacrificio dei combattenti al fronte.
→ Vedi, tra le varie possibilità di lettura, le opere di
narrativa più comunemente frequentate, all’interno delle differenti
letterature nazionali che sono le seguenti: Letteratura italiana:
Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano; Letteratura francese: Henry
Barbusse, Il fuoco; Letteratura tedesca: Erich Maria Remarque,
All’Ovest, niente di nuovo; Letteratura inglese: Ford Maddox Ford,
La fine della parata ; Evelyn Waugh La spada dell’onore.
Può essere assai interessante anche confrontare il racconto con
la produzione cinemato-grafica, pure assai ricca: tra i tanti film
ancora oggi in circolazione, quattro meritano particolare
attenzione: Uomini contro (1971) di Francesco Rosi e All’Ovest
niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone che sono la trasposizione
rispettivamente di Un anno sull’altipiano di Lussu e dell’omonimo
romanzo sopra citato e consentono quindi un raffronto tra i due
linguaggi letterario e cinematografico; Orizzonti di gloria (1957)
di Stanley Kubrick, può essere considerato un capolavoro in
assoluto nel suo genere. È in-teressante anche osservare la
smitizzazione dell’eroismo che Mario Monicelli compie ne La grande
guerra (1959).
La guerra nella filosofia e nella cultura Il senso di frattura e
di inquietante novità che fa presagire più laceranti catastrofi
umane non poteva non essere avvertito dalla cultura del tempo.
Molte sono le testimonianze del mutamento epocale inaugurato dal
“bagno di sangue”, che, quando si realizza, appare tutt’altro che
“rigeneratore”.
Quelle parole lette oggi sono già la manifestazione della
barbarie incombente nel se-no stesso della civiltà e contrastano in
modo assai efficace con le riflessioni amare dei contemporanei che
con sguardo retrospettivo osservano e giudicano la carneficina e le
distruzioni. È soprattutto nell’ambito della cultura
nazionalistica, che si manifesta una più decisa adesione alla
guerra, non solo come strumento di affermazione della vitalità di
un popo-
-
5 Percorso 5 - Novecento barbaro: dall’“inutile strage” ad
Auschwitz
lo e dello Stato, ma anche come manifestazione di volontà,
coraggio e grandezza d’animo, e addirittura come fenomeno estetico,
come fa Enrico Corradini (1865-1931) nella sua apologia della
guerra tra Russia e Giappone (La conferma del cannone (in “Il
Regno”, II, 1904, n. 12) oppure Giovanni Papini (1881-1956) in
Amiamo la guerra! (da “Lacerba”, II 1914, n. 20). Papini parla
della guerra come un di “male necessario” e il senso più comune di
questa espressione assume un contenuto inquietante: “necessario”
significa cioè necessario all’elevamento morale di un popolo, che,
senza la benefica for-za rigeneratrice della guerra, ristagnerebbe
nella fiacchezza della vita quotidiana, non sarebbe più in grado di
apprezzare la virtù del coraggio. La guerra è infine utile e
neces-saria al progresso economico ma anche in questo caso Papini è
destinato a scardinare la più logica e ovvia interpretazione del
concetto: non è della grande industria che egli si preoccupa, ma
dell’agricoltura, perché “i campi di battaglia rendono, per molti
anni, as-sai più di prima senz’altra spesa di concime”. Qui la
posizione di Papini diviene para-dossale, i cadaveri vengono
considerati come utile "concime" dei campi. Non c’ è biso-gno di
ricordare che egli scrive queste parole “commosso” dalle notizie
che giungono dai fronti dove la carneficina è appena cominciata ma
ha già mietuto centinaia di mi-gliaia di vittime.
Sono queste le forme più radicali di un’orgiastica esaltazione
del “bagno di sangue”, che pretendono di cogliere un contrasto
insanabile tra gli effetti della civilizzazione, causa di
imborghesimento e infiacchimento delle energie vitali dei popoli, e
il riemergere del-la natura genuinamente selvaggia ma vitale e
grandiosa delle stirpi destinate a fare la storia. E, in modo meno
truculento ma sostanzialmente in sintonia con Papini, buona parte
degli intellettuali europei è attratta dal fascino della guerra
convinta che per suo tramite sia possibile riattingere
l’autenticità dell’identità etnica dei popoli contro il mo-dello
illuministico astratto ed universalistico di “civilizzazione”. È in
questo quadro che si determina, ad esempio, l’adesione di Thomas
Mann (1875-1955) (vedi Pensieri di guerra del 1914), come avviene
per altri intellettuali tedeschi e mitteleuropei, alla guer-ra;
tale adesione però suscita un dibattito articolato e sofferto di
fronte alla constatazio-ne della realtà della guerra.
Superata la fase di entusiasmo per la “voce del cannone”, man
mano che giungono le notizie dal fronte e si impone l’evidenza
“dell’inutile strage”, si fanno strada il disagio e l’inquietudine
non solo per il tempo presente ma anche per il futuro stesso del
genere umano.
La voce più autorevole che si assume il compito di riflettere
sul rapporto tra la civiltà occidentale e la guerra è quella di
Sigmund Freud (1865-1939). Anche il padre della psicanalisi non era
rimasto immune dal turbine di patriottismo che aveva attraversato
l’ Europa e, con la precisione del linguaggio della scienza che
egli stesso aveva plasmato, aveva scritto, il 23 agosto 1914,
“tutta la mia libido si riversa sugli austroungarici”.
Ma un solo anno di guerra gli era stato sufficiente per
rielaborare una lettura più di-staccata degli avvenimenti in un
brevissimo scritto del 1915, intitolato Caducità, nel quale egli
coglie tutta la complessità e la drammaticità del problema. Per
Freud la guer-ra svela definitivamente l’illusione che il processo
di civilizzazione si sia sedimentato nell’animo e nel comportamento
degli uomini: al contrario è sufficiente che lo Stato consenta e
obblighi i cittadini all’uso legittimo della violenza affinché
riemergano le più violente pulsioni aggressive.
Freud affida le riflessioni sulla guerra e la constatazione
della sua cruda realtà a un saggio del 1915, Considerazioni sulla
guerra e sulla morte, nel quale approfondisce il rapporto tra
l’attività pulsionale e l’aggressività. Più tardi, quando
l’evoluzione della
-
6 Percorso 5 - Novecento barbaro: dall’“inutile strage” ad
Auschwitz
storia europea e mondiale farà temere il riemergere della
barbarie comparsa nella Gran-de Guerra, Freud ritornerà
sull’argomento sollecitato, nel 1932, da una lettera di Albert
Einstein (1879-1955).
→ Vedi i saggi di Freud sulla guerra e lo scambio epistolare con
Einstein in un libretto di facile lettura: Freud, Einstein,
Riflessioni a due sulle sorti del mondo, Bollati Boringhieri,
Torino 1989.
Dagli scritti di Freud si evince che la Grande guerra ha
certamente influito sull’ampliamento del pensiero psicanalitico,
dal campo medico terapeutico alla rifles-sione sulle dinamiche
della psicologia collettiva e sociale; i risultati di questo
estensione sono affidati all’opera Al di là del principio di
piacere del 1920 e Il disagio della civiltà pubblicato nel
1929.
Nelle opere di questo periodo, in un contesto nel quale il
pensiero della guerra ricorre come sottofondo, Freud analizza le
componenti pulsionali aggressive e distruttive che si manifestano
come reazione al prezzo di infelicità pagato dall’individuo alla
civiltà e al benessere materiale. Assai significative appaiono in
questa prospettiva le parole che concludono l’opera del 1929:
“Il problema fondamentale del destino della specie umana a me
sembra questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli
uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva
provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In
questo a-spetto proprio il tempo presente merita forse particolare
interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio
potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sa-rebbe facile
sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona
parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E
ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”,
l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo
avversario altrettanto immortale [la pulsione di Morte]. Ma chi può
prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”
L’ultima frase è stata aggiunta al testo originario nel 1933
quando in Europa, e più in particolare in Germania, si stanno
imponendo quelle ideologie politiche che fanno ap-pello alle forze
istintive e pulsionali delle masse.
→ Vedi sul manuale di filosofia l’esposizione della svolta nel
pensiero di Freud che consiste nel passaggio cosciente dalla
psicanalisi, rigorosamente mantenuta entro i limiti delle scienze
empiriche, ad una sorta di “metapsicologia” ossia l’interpretazione
di fatti psichici complessi nel quadro di una visione più generale
dell’uomo.