. . 1 1. Un anno di transizione Il 1999 è un anno di transizione per l’economia italiana, non già perché segna cronologicamente un passaggio di secolo e di millennio, ma perché apre le porte all’impianto di un nuovo programma di politiche economiche. Così come ribadito nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria deliberato dal Consiglio dei Ministri nel giugno scorso, le politiche di sviluppo per il Mezzogiorno e le misure per la crescita produttiva e per l’occupazione costituiscono, ora, una volta oltrepassato il traguardo dell’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica europea, gli obiettivi centrali della politica economica nazionale. La naturale lentezza, tuttavia, con cui i progetti di cambiamento si traducono in provvedimenti concreti, consolida un’atmosfera d’incertezza e una sensazione di precarietà e transitorietà degli equilibri di mercato che si riflettono nel segno incerto della congiuntura di fine anno. L’economia italiana attraversa nel corso del 1999 fasi alterne di crescita: da un iniziale rallentamento complessivo dell’attività economica, si passa a un leggero recupero nei primi mesi estivi, e, infine, a un’accelerazione nei mesi autunnali. L’incremento del Pil su base annua è stimato intorno all’1,3%, lo stesso di quello registrato alla fine del 1998, rivelatosi, tuttavia, tra i più bassi dell’Unione Europea. In buona parte, la stagnazione d’inizio anno sembra essere dovuta alle cattive performance del settore manifatturiero, che ha esercitato pressioni al ribasso anche sulle esportazioni (-4,9% nei primi nove mesi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Un segnale positivo di tendenziale ripresa dell’economia nazionale proviene, invece, dalla domanda interna, che cresce del 2,2% nei primi sei mesi dell’anno, non molto lontano dal 2,4% fatto registrare dall’intera area dell’euro. Ciò nonostante, è bene considerare che il maggiore aumento della domanda interna rispetto al PIL può fare riorientare la domanda interna verso le importazioni, che in effetti sono cresciute in misura pari allo 0,5% per quanto riguarda le produzioni provenienti dai paesi extra UE, e allo 0,8% per quanto concerne quelle provenienti dalle regioni dell’Unione Europea. Altri aspetti positivi contrastano, tuttavia, l’esito incerto dell’espansione della domanda interna: l’andamento del mercato del lavoro, che registra un incremento della base occupazionale dell’1,2% nei primi sei mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e il buon andamento del rapporto tra deficit e PIL, in linea con i dettami del Patto di stabilità e di crescita. La “crescita lenta” dell’economia italiana nel corso del 1999 ha avuto un impatto differenziato a livello territoriale. Nel Mezzogiorno, dopo i buoni risultati conseguiti verso la fine del 1998, con un tasso di crescita del prodotto interno lordo pari all’1,1% e un leggero aumento dell’occupazione (+0,8%), il primo semestre del 1999 imprime una brusca frenata ai ritmi espansivi della produzione, anche in ragione della maggiore concorrenza venutasi a creare sia sui mercati interni che su quelli internazionali: Il PIL meridionale è cresciuto solo dello 0,9% nel Mezzogiorno, contro l’1,5% nel Centro-Nord. In generale, tuttavia, gli anni novanta non hanno sicuramente costituito un decennio facile per le regioni del Mezzogiorno e il solo dato del
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1. Un anno di transizione - Unindustria Calabria · L’economia italiana attraversa nel corso del 1999 fasi alterne di crescita: da un iniziale ... brusca frenata della spesa pubblica
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1. Un anno di transizione
Il 1999 è un anno di transizione per l’economia italiana, non già perché segna
cronologicamente un passaggio di secolo e di millennio, ma perché apre le porte all’impianto di
un nuovo programma di politiche economiche.
Così come ribadito nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria deliberato dal
Consiglio dei Ministri nel giugno scorso, le politiche di sviluppo per il Mezzogiorno e le misure
per la crescita produttiva e per l’occupazione costituiscono, ora, una volta oltrepassato il
traguardo dell’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica europea, gli obiettivi centrali
della politica economica nazionale. La naturale lentezza, tuttavia, con cui i progetti di
cambiamento si traducono in provvedimenti concreti, consolida un’atmosfera d’incertezza e
una sensazione di precarietà e transitorietà degli equilibri di mercato che si riflettono nel segno
incerto della congiuntura di fine anno.
L’economia italiana attraversa nel corso del 1999 fasi alterne di crescita: da un iniziale
rallentamento complessivo dell’attività economica, si passa a un leggero recupero nei primi
mesi estivi, e, infine, a un’accelerazione nei mesi autunnali. L’incremento del Pil su base annua
è stimato intorno all’1,3%, lo stesso di quello registrato alla fine del 1998, rivelatosi, tuttavia,
tra i più bassi dell’Unione Europea. In buona parte, la stagnazione d’inizio anno sembra essere
dovuta alle cattive performance del settore manifatturiero, che ha esercitato pressioni al
ribasso anche sulle esportazioni (-4,9% nei primi nove mesi rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente). Un segnale positivo di tendenziale ripresa dell’economia nazionale
proviene, invece, dalla domanda interna, che cresce del 2,2% nei primi sei mesi dell’anno, non
molto lontano dal 2,4% fatto registrare dall’intera area dell’euro. Ciò nonostante, è bene
considerare che il maggiore aumento della domanda interna rispetto al PIL può fare riorientare
la domanda interna verso le importazioni, che in effetti sono cresciute in misura pari allo 0,5%
per quanto riguarda le produzioni provenienti dai paesi extra UE, e allo 0,8% per quanto
concerne quelle provenienti dalle regioni dell’Unione Europea. Altri aspetti positivi contrastano,
tuttavia, l’esito incerto dell’espansione della domanda interna: l’andamento del mercato del
lavoro, che registra un incremento della base occupazionale dell’1,2% nei primi sei mesi
dell’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e il buon andamento del rapporto
tra deficit e PIL, in linea con i dettami del Patto di stabilità e di crescita.
La “crescita lenta” dell’economia italiana nel corso del 1999 ha avuto un impatto differenziato a
livello territoriale. Nel Mezzogiorno, dopo i buoni risultati conseguiti verso la fine del 1998, con
un tasso di crescita del prodotto interno lordo pari all’1,1% e un leggero aumento
dell’occupazione (+0,8%), il primo semestre del 1999 imprime una brusca frenata ai ritmi
espansivi della produzione, anche in ragione della maggiore concorrenza venutasi a creare sia
sui mercati interni che su quelli internazionali: Il PIL meridionale è cresciuto solo dello 0,9%
nel Mezzogiorno, contro l’1,5% nel Centro-Nord. In generale, tuttavia, gli anni novanta non
hanno sicuramente costituito un decennio facile per le regioni del Mezzogiorno e il solo dato del
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1998 non è sufficiente a ribaltare il quadro complessivo di medio periodo dell’economia
meridionale, che rimane marcatamente negativo. Dal 1992, quando è iniziata la politica del
rigore contrassegnata da un’intensa stretta fiscale, l’economia meridionale ha risentito della
brusca frenata della spesa pubblica e della caduta degli investimenti. Da allora la crescita
cumulata del PIL è stata di 2,9 punti percentuali contro i 9,8 di quella del Centro-Nord. Di
conseguenza, il PIL procapite della popolazione meridionale si è ridotto dal 58,6% di quello del
Centro Nord registrato nel al 54,6% del 1998. Dal lato degli impieghi, si accresce il divario
degli investimenti procapite e i consumi finali interni passano, nell’arco di tempo considerato,
dal 77% al 75% di quelli registrati nel Centro e nel Nord del Paese. Il mercato del lavoro
risente in modo particolare di questi andamenti: l’occupazione diminuisce a un tasso pari
all’1,3% all’anno, contro una riduzione media annua dello 0,5% al Centro Nord, mentre il tasso
di disoccupazione si accresce di 7 punti percentuali contro un aumento inferiore a un punto nel
Centro-Nord. Gli anni novanta, dunque, si chiudono senza lasciare testimonianza di sostanziali
modifiche dei divari Nord-Sud.
Il pessimismo potrebbe prendere il sopravvento se non pensassimo che insieme all’inizio di una
politica di rigore finanziario e della fine dell’intervento straordinario a favore delle regioni
meridionali, il 1999 segna anche l’avvio di una rivisitazione di gran parte delle forme di
intervento pubblico, che risponde pure a un’esigenza ormai maturata in larga parte della
società civile, di una maggiore efficienza ed efficacia della spesa pubblica. Siamo dunque di
fronte a un’epoca di transizione con un bagaglio nuovo di vincoli e di incentivi rispetto a quello
esistente all’inizio degli anni novanta: ai minori flussi di risorse statali verso le aree depresse
del Paese si affiancano gli aiuti finanziari dei fondi strutturali europei; all’intervento
straordinario subentra la programmazione negoziata (patti territoriali, contratti d’area,
contratti di programma) e la nuova legge di incentivazione degli investimenti; minori sgravi
contributivi si associano misure di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e l’introduzione
di forme di occupazione sussidiata destinate ai disoccupati di lungo termine.
A giugno 1999, infine, con il documento di programmazione economica e finanziaria per gli
anni 2000 – 2003 viene delineata la “politica nazionale per il Mezzogiorno”, ovvero lo sviluppo
delle aree meridionali del Paese diventa “la grande priorità della politica economica italiana”.
La strategia per lo sviluppo del Mezzogiorno include cinque politiche settoriali, delle quali due
riguardano il rilancio e la riqualificazione degli investimenti pubblici, ricorrendo allo strumento
del Programma di Sviluppo del Mezzogiorno (PSM) per l’utilizzo dei fondi comunitari 2000 –
2006; e le altre tre, rispettivamente, il rafforzamento della concorrenza, il miglioramento e la
maggiore efficacia dei meccanismi allocativi del mercato del lavoro, il miglioramento di
efficienza dell’Amministrazione Pubblica.
Tutti questi processi sono, nella gran parte dei casi, in itinere, talvolta solo appena avviati. Essi
non sono stati, pertanto, ancora in grado di produrre grandi “svolte” per le economie locali, ma
non vi è dubbio che è dall’impegno e dalla continuità con cui sarà guidato l’espletamento di tali
processi che dipende lo sviluppo di un’economia meridionale competitiva, non solo sui mercati
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di scambio delle merci, ma anche sul piano dell’attrattività dei luoghi al fine di incentivare e
promuovere la localizzazione di attività produttive nel Mezzogiorno.
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2. L’economia calabrese negli anni novanta
2.1 I divari interregionali
Alla fine degli anni novanta la Calabria presenta ancora rilevanti deficit strutturali rispetto alle
aree più dinamiche del Paese: dal divario in termini di reddito prodotto alla polverizzazione
industriale, dall'arretratezza delle forme organizzative della produzione agricola
all'inconsistenza del terziario innovativo, dalla dipendenza dalle risorse monetarie esterne alla
povertà delle infrastrutture sociali.
Pochi dati sono in realtà sufficienti per tracciare un quadro esauriente dei divari attuali con le
regioni italiane economicamente più progredite1. Facendo i confronti con il Centro - Nord, salta
immediatamente agli occhi la forte differenza che esiste tra il peso della popolazione calabrese
e l'incidenza in termini di produzione di reddito: a fronte di una popolazione che raggiunge la
quota del 5,6% dell'insieme delle regioni del Centro e del Nord, la produzione di reddito incide
soltanto per il 2,6%. Il dato trova conferma nel valore assunto dall'indicatore del reddito
procapite, pari al 46,8% di quello delle aree più ricche del Paese, due punti percentuali in
meno di quello registrato nel 1980 (cfr. Tab. 2.1).
Tabella 2.1 – Calabria: indicatori macroeconomici (Centro – Nord =100)
Indicatori Calabria Mezzogiorno
Popolazione (’98) 5,6 57
Pil (’98) 2.6 31.5
Pil pro capite (98) 46.8 54.6
Tasso di disoccupazione (’98) 3.62 3.0
Tasso di attività (’98) 87.3 88.5
Occupazione nell’industria (’98) 2.2 28.0
Occupazione manifatturiera (’98) 1.1 21.2
Esportazioni (‘98) 0.1 11.3
Importazioni (’98) 0.2 13.2
Fonte: Svimez
Questi tre parametri racchiudono il drammatico sottosviluppo della Calabria in termini di
ricchezza prodotta.
Anche sotto il profilo del mercato del lavoro le elaborazioni statistiche non necessitano
approfondite disaggregazioni per evidenziare tutta la gravità di una situazione divenuta la
“priorità di intervento” della politica economica nazionale. L'acuto e strutturale deficit di
1Questo paragrafo sviluppa e aggiorna alcune considerazioni sulle caratteristiche strutturali del sistema produttivo calabrese in parte già contenute nel primo
e nel secondo numero di "studi e documenti" dell’Associazione degli industriali di Cosenza, cfr. Nisticò (1988a, b).
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occasioni di lavoro è sintetizzato da un valore del tasso di disoccupazione che risulta oltre il
triplo di quello del Centro-Nord.
Particolarmente contenuta è l'occupazione industriale, che raggiunge appena il 2% di quella del
Centro Nord e riflette un connotato essenziale dell'apparato produttivo calabrese, quello della
scarsa diffusione sul territorio regionale di presenze industriali significative e dell'accentuato
atomismo dimensionale del comparto manifatturiero, costituito per la quasi totalità da micro
imprese che non riescono a superare la soglia dei 10 addetti fissi2. Perdipiù, in base al recente
“censimento intermedio” dell'Istat, la Calabria ha continuato a perdere, nell'arco di 5 anni, dal
1991 al 1996, ben il 13,5% degli addetti alle unità locali dell'industria manifatturiera. Sebbene
la tendenza alla riduzione di addetti risulti comune a quasi tutte le regioni italiane, l'intensità
della variazione risulta in Calabria tra le più elevate - superata soltanto dalla Liguria (-19,6%),
Valle d'Aosta (-17%) e la Sardegna (-16,4%) - e tra le più significative, se si tiene conto
2 Sui vincoli economici e ambientali alla crescita delle piccole imprese in Calabria si rinvia a Nisticò (1988b)
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Anche sotto il profilo della dinamica settoriale, l’industria manifatturiera regionale presenta
andamenti differenti da quelli registrati nel resto del Paese. La Fig. 2.1 mostra le variazioni
intervenute nell’arco di un decennio, dal 1985 al 1995 in termini di occupazione e di valore
aggiunto in ciascun settore. In particolare, riportando sull’asse delle ascisse il rapporto tra il
valore aggiunto registrato nel 1995 e quello relativo al 1985 e sull’asse delle ordinate il
rapporto tra l’occupazione nei due periodi, il grafico risulta diviso in quattro quadranti.
Il quadrante in alto a destra contiene i settori che nei dieci anni considerati sperimentano sia
una crescita di addetti che di valore aggiunto: essi rappresentano, cioè, i settori manifatturieri
in espansione. Come illustra la figura 2.1, la Calabria annovera in questo insieme quattro
settori in tutto: il comparto del legno e gomma, il comparto della carta, quello della produzione
di macchine e, infine, quello del tessile-abbigliamento-calzature.
Fonte: Elaborazioni su dati Istat
All’estremo opposto, il quadrante in basso a sinistra descrive andamenti settoriali in netto
arretramento, caratterizzati da processi di ridimensionamento, sia in termini di addetti che di
valore aggiunto. Fanno parte di questo insieme tre settori: minerali e metalli, il comparto della
produzione di minerali non metalliferi e quello dei mezzi di trasporto. Una situazione
intermedia, caratterizzata da contrazione della base occupazionale, accompagnata tuttavia da
una netta crescita in termini di produzione, interessa i settori compresi nel quadrante in basso
a destra: in Calabria solo due settori, quello alimentare e quello della chimica e farmaceutica,
sembrano essere attraversati da tale dinamica.
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A livello nazionale, invece, i sentieri di sviluppo dei singoli comparti manifatturieri relativi alla
media nazionale si collocano tutti su una traiettoria che associa al ridimensionamento
occupazionale una sostenuta espansione del valore aggiunto. Lo stesso grafico, tracciato
questa volta tenendo conto delle dinamiche occupazionali e produttive registrate dai singoli
settori a livello nazionale, raggruppa, infatti, tutti i settori nel quadrante in basso a destra,
tranne uno, quello dei minerali non metalliferi, che risulta in espansione sia dal punto di vista
occupazionale che produttivo, cfr. fig. 2.2.
Fonte: Elaborazioni su dati Istat
I settori più forti sembrano essere dunque quelli della manifattura leggera, tra i quali spiccano
il tessile-abbigliamento-calzature e il settore del legno.
Asfissia dimensionale, polverizzazione territoriale e mercati di sbocco a circuito
prevalentemente locale costituiscono aspetti salienti del contesto economico calabrese. Il
carattere puntiforme del capitalismo regionale implica che siano assenti, da un lato, economie
di scala, date le ridotte dimensioni aziendali, e, dall’altro, economie di agglomerazione, ovvero
quei vantaggi della concentrazione spaziale delle attività produttive derivanti dalle opportunità
di decentramento e specializzazione, diffusione delle informazioni e condivisione di servizi alle
imprese, condizioni tipiche dei distretti e delle aree di specializzazione produttiva.
Un’ulteriore peculiarità del sistema produttivo regionale è la scarsa apertura dell’economia
locale ai mercati internazionali: la differenza è sotto questo profilo molto accentuata rispetto ai
sistemi produttivi più dinamici. Le esportazioni calabresi rappresentano solo lo 0,1% di quelle
che si registrano al Centro-Nord.
Il ritardo economico sintetizzato dai pochi indicatori fin qui utilizzati può risultare in qualche
modo accentuato dal fatto che il confronto è stato condotto rispetto a un’area particolarmlente
ricca e dinamica. Tuttavia, è possibile notare che i parametri presi in considerazione sono tutti
sistematicamente più bassi di quelli relativi alla media delle regioni meridionali.
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2.2 Divari di reddito e divari di consumo
E’ errato pensare alla Calabria come a una regione povera e refrattaria allo sviluppo
economico. Guardando al trend di lungo periodo del prodotto interno lordo procapite, è
possibile notare come durante gli anni ottanta i tassi di crescita del reddito prodotto siano stati
addirittura più elevati di quelli registrati dalle altre macroaree (cfr. fig. 2.3).
Fonte: Elaborazioni su dati Istat
La situazione peggiora visibilmente, con ritmi di crescita del PIL procapite nettamente al di
sotto di quelli dell’Italia e del Centro Nord per tutti gli anni novanta, in coincidenza del
verificarsi di una serie di cambiamenti istituzionali e politici nazionali che esercitano forti
ripercussioni sull’economia di tutte le regioni meridionali (la fine dell’intervento straordinario
nel Mezzogiorno, la forte manovra restrittiva del Governo finalizzata alla riduzione del
disavanzo pubblico) e specifiche congiunture regionali segnate, all'inizio del decennio, da
pesanti processi di ristrutturazione e ridimensionamento degli sparuti poli industriali calabresi.
Da molti anni ormai non esiste più una correlazione stretta tra le caratteristiche della struttura
produttiva regionale e il benessere della popolazione.
Se consideriamo, infatti, il consumo privato pro capite, notiamo che in Calabria esso assume
livelli solo un terzo più bassi di quelli del Centro Nord, che rappresenta una delle aree
industrializzate attualmente più opulente, e inferiori di meno di un quarto rispetto a quelli
dell’Italia e solo di 5 punti percentuali rispetto alla media meridionale (cfr. fig. 2.4).
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Fonte: Elaborazioni su dati Istat
Se la capacità di produzione calabrese, in termini di prodotto interno lordo si colloca, dunque,
al di sotto del 50% di quella del Centro Nord, il gap in termini di consumi privati procapite è
soltanto un terzo. A tutt’oggi, dunque, il carattere più evidente dell’assetto socioeconomico
calabrese sembra essere la stridente contraddizione tra il debole apparato produttivo e le
capacità di consumo dei residenti, tra la ridotta produzione di reddito e il livello di benessere
materiale, tra l’elevatissima disoccupazione e gli apprezzabili standard di vita della popolazione
locale.
La fig. 2.5 evidenzia la progressiva riduzione negli ultimi quindici anni del rapporto tra il PIL
procapite della Calabria e quello del Centro Nord, con una netta accentuazione a partire dalla
fine degli anni ottanta. D’altra parte, se guardiamo al trend del consumo procapite, è
immediatamente evidente che il rapporto di questo indicatore rispetto al Centro-Nord rimane
pressoché stabile intorno al 70% nell’intero quindicennio 1980-95, cfr.Fig. 2.4.
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Fonte: Elaborazioni su dati Istat
Possiamo scomporre il divario di prodotto nelle sue tre componenti: popolazione, forza lavoro
occupata, produttività media del lavoro3. Riguardo a ciascuna di queste componenti l’economia
calabrese ha conseguito, negli ultimi anni, risultati opposti a quelli registrati nel Centro Nord,
con un allontanamento delle posizioni relative.
2.3 Le dinamiche demografiche e occupazionali
Per quanto riguarda le dinamiche demografiche, la Calabria è ancora oggi un’area in forte
sviluppo demografico. Nel 1998 la Calabria vanta un quoziente di natalità pari a 10,07 nati vivi
per ogni mille abitanti contro 8,84 morti ogni mille abitanti, con un conseguente saldo naturale
positivo di 1,23. All’opposto, nel Centro Nord si verifica nello stesso periodo una natalità pari a
8,49 nati vivi ogni mille abitanti a fronte di 10,71 morti ogni mille abitanti con un saldo
naturale negativo di -2,22. Questa divergenza tra le due aree nell’andamento del saldo
naturale persiste almeno per tutti gli anni novanta (cfr. Svimez, vari anni).
Nell’intero periodo che va dal 1989 al 1995, la produttività per addetto calabrese, misurata in
termini di valore aggiunto per unità di lavoro rispetto al Centro Nord peggiora in tutti i settori
produttivi, tranne che nel terziario (cfr. fig. 2.6)4.
3 Indichiamo il divario di Pil come:D=(Yc/Pc)/(Ycn/Pcn), dove:
D=divario di Pil Yc=prodotto interno lordo calabrese Pc=popolazione residente in Calabria Ycn=prodotto interno lordo del Centro Nord Pcn=popolazione residente nel Centro Nord. La stessa espressione può essere riscritta come: D=(Rc/Rcn).(Oc/Ocn).(Pcn/Pc), dove: Rc=produttività media del lavoro in Calabria Rcn=produttività media del lavoro nel Centro Nord 4 La figura 2.6 è stata tracciata considerando le medie biennali in modo da smorzare gli effetti della ciclicità di alcune produzioni
regionali e, in particolare, di alcune specializzazioni agricole .
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Fonte: Elaborazioni su dati Istat
Sul piano della disaggregazione settoriale della produzione di reddito, dunque, la struttura
economica calabrese mostra bassa densità industriale e sottodimensionamento delle unità
produttive esistenti, ipertrofia del settore terziario, con peso accentuato del comparto pubblico,
e un settore primario che, seppure negli ultimi quarant’anni ha sperimentato una accentuata
riduzione del suo peso relativo sulla formazione di reddito regionale, si rivela
sovradimensionato rispetto al peso che esso assume in media nella struttura produttiva
meridionale e nazionale.
Sotto il profilo occupazionale la disaggregazione settoriale degli andamenti mostra per tutti gli
anni novanta un drastico ridimensionamento, che soltanto all’inizio del 1998, come evidenziato
nel rapporto congiunturale, ha lievemente invertito la sua rotta. Dal 1993 al 1998, infatti, si
contano ben 27 mila occupati industriali in meno (-22,3%). Come dire che la Calabria sta
sperimenatndo un processo di deindustrializzazione senza essere mai stata dotata di un vero e
proprio apparato industriale: nessuna impresa supera in Calabria le 500 unità lavorative,
mentre quelle che oltrepassano la soglia dei 100 dipendenti si contano sulle dita di una mano
soltanto. Le donne addette ai processi di trasformazione industriale stanno diventando una
presenza rara: solo 6 mila unità nel 1997.
In netta flessione anche l’occupazione agricola: 36 mila addetti in meno nell’ultimo quadriennio
(-33%), (cfr. Fig. 2.7).
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Fonte: Elaborazioni su dati Istat
Nonostante la sostenuta intensità con cui si manifesta questo processo di ridimensionamento
occupazionale, esso si rivela meno preoccupante di quello industriale. La deagrarizzazione
calabrese segue infatti un processo di restringimento fisiologico del ruolo occupazionale e
produttivo del settore primario comune a tutti i Paesi sviluppati. I confronti con la media
nazionale danno conto tuttavia di un attuale tasso di agrarizzazione dell’economia regionale
(3,7 addetti ogni 100 abitanti) di gran lunga più pronunciato di quello italiano (2,4 addetti ogni
100 abitanti), a conferma dell’importanza che il settore riveste a tutt’oggi nel contesto
economico e produttivo regionale, sebbene più in termini di percentuale della popolazione
coinvolta che in termini di contributo alla produzione di reddito (Anania e Pupo D’andrea,
1996).
Tendenzialmente stabile è, infine, il settore terziario: gli occupati nel comparto dei servizi si
sono ridotti di mille mila unità negli ultimi cinque anni (-0,2%). Nonostante il forte peso che il
terziario ha ancora oggi in termini di percentuale di forza lavoro occupata, sembrerebbe che il
ruolo del terziario come “settore spugna” dell’economia, capace di assorbire la forza lavoro in
eccesso nei mercati del lavoro agricolo e industriale, si stia progressivamente smorzando. Fino
ai primi anni novanta il terziario e, in misura maggiormente significativa, la Pubblica
Amministrazione e la distribuzione al dettaglio hanno rappresentato vere e proprie valvole di
sfogo per i disoccupati regionali. Da qualche anno, tuttavia, non è più così. Da un lato, la
Pubblica Amministrazione, dato il blocco del turnover, tende a espellere lavoratori anziché
assorbirne; dall’altro, il ridimensionamento dei consumi privati legati alla contrazione dei
redditi reali connessa alle politiche di contenimento dei trasferimenti pubblici e della spesa
statale, e la radicale ristrutturazione del settore distributivo conseguente alla pervasiva
penetrazione della grande distribuzione nel settore, hanno significativamente ridotto le
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possibilità di “inventarsi” un lavoro diventando piccoli imprenditori commerciali.
Nel complesso, la Calabria ha perduto dal 1993 al 1998 ben 64 mila occupati, una riduzione
relativa (-13%) doppia rispetto a quella, gia imponente, del Mezzogiorno e circa sette volte più
ampia di quella media nazionale.
I dati confermano, dunque, la specificità meridionale del problema della disoccupazione: il
sistema produttivo non riesce ad attivare una domanda di lavoro adeguata ad assorbire la
forza lavoro in cerca di occupazione. Al contrario, il Centro Nord ha mantenuto livelli della
domanda molto vicini a quelli di equilibrio e con tassi di disoccupazione che in alcune subaree
territoriali raggiungono soglie tipicamente frizionali, mediamente pari al 2 o al 3% delle forze
di lavoro. La fig. 2.8 illustra chiaramente le divergenze sia in termini di livelli di occupazione,
sia in termini di dinamiche relative delle due aree.
Fonte: Istat
In Calabria il conteggio anno per anno dei lavoratori occupati segue un ordine decrescente:
erano 582 mila nel 1993, e sono passati a 562 mila nel 1994, per affievolirsi nuovamente nel
1995 a livello di 549 mila, poi 530 mila nel 1996, 520 mila nel 1997 e 518 mila nel 1998. Il
lavoro sembra dunque essere un privilegio di pochi: solo un quarto dei calabresi ha
attualmente un’occupazione stabile. Nei primi due trimestri del 1998 questo trend sembrava
essersi smorzato, ma si è ristabilito nel corso del 1998.
2.4 La persistenza della disoccupazione
Nell'ultimo decennio l'economia regionale è stata significativamente segnata dal
raggiungimento dei picchi di disoccupazione più elevati tra quelli delle regioni italiane e da una
continua e persistente perdita di posti di lavoro.
Il tasso di disoccupazione si è ripetutamente accresciuto, toccando nell'ultimo anno il suo
massimo storico: 28%. A dispetto dell'ampio portafoglio degli strumenti di intervento che
hanno esordito di recente nel panorama delle politiche del lavoro e dell'occupazione a favore
delle aree depresse, a tutt'oggi in Calabria più di un lavoratore su quattro è disoccupato.
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Dal 1993 il tasso di disoccupazione regionale, come evidenziato nel rapporto congiunturale, si
è accresciuto di sette punti percentuali. Oggi, nonostante un'economia nazionale in ripresa,
una nuova legge di incentivazione degli investimenti, l'insieme degli strumenti di
programmazione negoziata a favore dello sviluppo locale, la Calabria si trova di fronte allo
scoglio della debilitante persistenza di ampie sacche di disoccupazione.
La durata e l'intensità del fenomeno sottolineano la specificità regionale del malessere della
disoccupazione e segnano le differenze con le altre aree del Paese.
Questa esasperante persistenza di carenza di posti di lavoro in Calabria disegna una situazione
allarmante che attenua la credibilità degli assetti istituzionali e deprime sempre di più le
potenzialità di crescita endogena, nonché le aspettative di una inversione di tendenza nelle
dinamiche regionali. Il tasso di disoccupazione è in Calabria pari a oltre il doppio di quello
medio italiano (12%) - quest'ultimo in linea con quello comunitario- e ben cinque volte più alto
del tasso di disoccupazione delle regioni italiane del Nord-Est, dove si registra solo una
disoccupazione frizionale, dovuta principalmente agli spostamenti dei lavoratori da
un'occupazione a un'altra e, pertanto, fisiologica anche per i sistemi economici vicini al pieno
impiego delle risorse produttive. Le dimensioni e la struttura della disoccupazione, peraltro,
segnalano l'esistenza di un divario significativo non solo con le aree ricche del Paese, ma anche
in riferimento al complesso delle regioni meridionali, che, pur sperimentando un tasso di
disoccupazione rilevantissimo, si attestano a un livello di inoccupazione di due punti
percentuali più basso.
Nel 1998 le persone in cerca di occupazione hanno raggiunto la soglia delle 190 mila unità, 27
mila in più della media 1997, 34 mila in più del 1994 e ben 42 mila in più rispetto alla media
del 1993.
La disoccupazione calabrese attualmente spiega da sola l’11% della disoccupazione
meridionale e il 7% dell'intera disoccupazione nazionale, sebbene il suo peso demografico sia
rispettivamente il 9,8 e il 3,6% della popolazione meridionale e nazionale.
La gravità della recessione che interessa la Calabria salta agli occhi quando osserviamo il dato
della disoccupazione in senso stretto. Dal 1993 al 1998 le persone precedentemente occupate
che non riescono a reinserirsi nel mondo del lavoro passano da 46 mila a 57 mila,
sperimentando così un incremento di 11 mila unità (+21%). Cosicché, contrariamente a
quanto avveniva nel passato, in questi ultimi anni il disagio della disoccupazione non si
polarizza prevalentemente nelle fasce più deboli della forza lavoro, ovvero i giovani o le donne
prive di una precedente esperienza lavorativa, ma interessa in misura cospicua anche le
componenti “forti”, ovvero la forza lavoro appartenente alle classi centrali di età, con
esperienze lavorative precedenti e in possesso di curricula professionali. Il fenomeno della
disoccupazione in senso stretto è peraltro in forte ascesa, in una escalation che conta 52 mila
lavoratori allontanati in maniera permanente dal precedente posto di lavoro nel corso del 1994,
56 mila nel 1995 (+7,7%), 61 mila nel 1996 (+8,9%), 52 mila nel 1997 (-14,7%), 57 mila nel
1998 (+9,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente).
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La difficoltà di trovare un posto di lavoro sembra essersi accentuata nel corso dell'ultimo anno
anche per le “persone in cerca di prima occupazione” e per le “altre persone in cerca di lavoro”,
come evidenziato nelle pagine precedenti di questo rapporto.
La situazione è ormai tale da non consentire di rimandare oltre l'intervento delle forze
politiche, sociali e istituzionali per invertire in maniera repentina e duratura la rotta delle
dinamiche del mercato del lavoro regionale.
2.5 Il lavoro irregolare
Scarse capacità di produzione, dilagante disoccupazione, ridotti livelli occupazionali, elevati
standard di consumo convivono in un apparentemente contraddittorio equilibrio simbiotico
ormai da qualche decennio. L’individuazione dei fattori che determinano e sorreggono questo
equilibrio è molto difficile da definire, almeno attraverso i tradizionali indicatori statistici.
Bisogna considerare, ad esempio, che se da un lato le statistiche sulla disoccupazione
descrivono ripetutamente da diversi anni l’aggravarsi del fenomeno nella regione, i dati
sull’incidenza dell’occupazione irregolare sul totale degli occupati collocano la Calabria al primo
posto tra le regioni italiane. Le stime Istat sulle unità di lavoro non regolari al netto del
secondo lavoro includono lavoratori non iscritti nei libri paga e occupati non dichiarati che
risultano, di converso, inoccupati nelle statistiche ufficiali5.
Ciò implica che una fetta di persone che attualmente consideriamo disoccupate sta, di fatto,
svolgendo un’attività lavorativa che consente loro di conseguire un livello di reddito, seppure al
di sotto degli standard contrattuali, e di mantenere livelli di consumo altrimenti incompatibili
con la dimensione di disoccupati. Su valutazioni Svimez, nel 1998 in Calabria su un totale di
596 mila unità di lavoro, il 44,2% sarebbe costituito da lavoro irregolare. Nel Mezzogiorno le
unità non regolari risultano un terzo delle unità di lavoro complessive e in Italia meno di un
quarto (22,6%) (cfr. tab. 2.3).
5 “Le unità di lavoro classificate come non regolari nell’indagine Istat di contabilità nazionale comprendono dunque gli irregolari
costituiti da dipendenti non iscritti nei libri paga delle imprese o indipendenti che svolgono la loro attività nei luoghi di lavoro non identificabili come tali; gli occupati non dichiarati che, pur dichiarandosi non occupati nell’indagine sulle forze di lavoro, in altro quesito sullo stesso questionario dichiarano di aver effettuato almeno un’ora di lavoro nel periuodo di riferimento; gli stranieri non residenti come ad esempio lavoratori con permesso di soggiorno scaduto o clandestini; i secondi lavori facenti capo a persone che svolgono un’attività lavorativa, definita principale, che è già stata considerata ai fini della stima delle altre categorie di unità di lavoro” (Svimez, 1998, p.43). Nel commento nel teso, abbiamo considerato la percentuale di unità di lavoro irregholari sul totale delle unità di lavoro al netto della seconda attività lavorativa e ad esclusione dei servizi non vendibili, costituito per il 90% dalla Pubblica Amministrazione e pertanto non interessato dal fenomeno dell’irregolarità.
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Tab. 2.3. Tasso di irregolarità nelle unità di lavoro complessive
(quote percentuali sulle unità regolari)
Regioni Media 1990-1994 1998
Industria Servizi vendibili
Totale Industria Servizi vendibili
Totale
Abruzzo 19 22 22 17.6 18.3 23.0
Molise 34 29 30 24.5 18.2 30.7
Campania 40 32 34 44.8 24.0 35.5
Puglia 30 24 30 34.7 19.1 29.7
Basilicata 32 23 31 30.4 16.7 32.9
Calabria 60 30 45 63.4 21.4 44.2
Sicilia 52 30 36 58.4 22.5 36.9
Sardegna 32 24 28 37.4 19.0 28.3
Mezzogiorno 40 28 33 42.8 21.4 33.9
Centro-Nord 11 18 17 11.7 17.2 18.1
Italia 17 22 22 18.2 18.4 22.6
Il differenziale tra la Calabria e il Centro Nord è particolarmente evidente nel settore
industriale, dove le quote raggiungono, rispettivamente, il 63,4 e l’11,7%. Su questa
differenza naturalmente incide la diversa composizione del settore industriale e, in particolare
la maggiore incidenza ad esempio del settore delle costruzioni nell’industria calabrese rispetto
al peso che esso assume al Centro Nord. E’ noto, infatti, come un’ampia fetta delle opere
minori edilizie effettuate da piccole imprese di costruzioni sia di fatto realizzata “in nero” (cfr.
Svimez, 1999). La Calabria è la regione italiana con il maggiore tasso di irregolarità del lavoro,
seguita dalla Sicilia (36,9%) e dalla Campania (35,5%).
2.6 Ricchezza privata e povertà pubblica
La coesistenza di ridotti livelli di produzione e elevati standard di consumo racchiude in sè due
realtà manifeste: il fatto che la Calabria non possa considerarsi un regione “povera” e quello,
ad esso contrapposto, che non rappresenta neanche un'area economicamente avanzata.
La povertà materiale diffusa che interessava ancora agli inizi degli anni cinquanta ampie fette
della popolazione residente, può considerarsi ormai debellata; contemporaneamente, tuttavia,
il modello di crescita sperimentato nella regione risente a tutt'oggi del mancato decollo
industriale e degli effetti di una politica di intervento che se da un lato ha sostenuto i redditi dei
residenti, dall'altro ha contribuito a “spiazzare” l'iniziativa privata in favore di una più allettante
ricerca della sicurezza offerta dal lavoro alle dipendenze dello Stato o dall'intercettazione di
risorse monetarie di natura assistenziale. La “caccia all'incentivo” e alle risorse pubbliche
rappresenta la distorta specializzazione tipica delle economie sussidiate.
Questa canalizzazione delle risorse statali verso la Calabria se ha storicamente e
significativamente finanziato le “ricchezze private”, ovvero le capacità di spesa dei residenti
nella regione, non ha, paradossalmente, inciso significativamente sulla dotazione delle
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“ricchezze collettive”, ovvero sul patrimonio infrastrutturale e sulla dotazione di capitale sociale
orientato allo sviluppo. Il risultato è che, oltre alle preoccupanti differenze nelle capacità di
produrre reddito, la Calabria si trova a misurare ancora oggi un consistente gap in termini di
strutture formative, ricreative e culturali nei confronti delle altre aree del Paese (Di Palma,
Mazziotta e Rosa, 1998). Oltre al forte ritardo in termini di infrastrutture economiche, risulta
assai avvilente la persistenza di un divario dell'ordine, in media, del 35% rispetto all'Italia e
circa dell'80% rispetto al Centro Nord in termini di infrastrutture sociali (cfr. fig. 2.9).
Fonte: Istat
All'interno di quest'ultima categoria di infrastrutture assumono un carattere particolarmente
deficitario le istituzioni relative all'assistenza all'infanzia: posto pari a 100 la dotazione
nazionale, quella calabrese rappresenta solo il 19% e quella meridionale il 48% a fronte di una
rappresentatività del 129% del Centro Nord. Accentuatamente sottodimensionate risultano,
inoltre, le infrastrutture sociali di base, quali le infrastrutture idriche (17% in Calabria contro
131% nel Centro Nord) e di fornitura del servizio di energia elettrica (31% in Calabria contro
una dotazione superiore del 30% a quella media italiana nelle regioni centrosettentrionali) (cfr.
tab. 2.4)
Tab. 2.4. Indici di dotazione infrastrutturale per categoria, 1995 (Italia=100)
Trasporti Comunicazioni Energia Idriche Istruzione