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Luiss Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli CERADI Centro di ricerca per il diritto d’impresa I redditi di lavoro dipendente e il diritto comunitario Giuseppe Melis [Marzo 2006] © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione
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Feb 15, 2019

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Luiss Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli

CERADI Centro di ricerca per il diritto d’impresa I redditi di lavoro dipendente e il diritto comunitario

Giuseppe Melis

[Marzo 2006]

© Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione

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(∗) Sommario: 1. Introduzione. 2. Nozione di “discriminazione”. 3. Libera circolazione dei lavoratori, principio di non discriminazione ed altri principi del Trattato: loro interrelazioni. 4. Limiti all’operare del principio di non discriminazione. 5. Alcune considerazioni sulla normativa italiana in tema di redditi di lavoro dipendente. 6. Conclusioni.

1. Introduzione.

L’esame della tassazione dei redditi di lavoro dipendente si articola su tre livelli normativi.

A un primo livello si situa, come è ovvio, la disciplina relativa alla tassazione di tali redditi contenuta nel diritto interno: essa è finalizzata, in particolare, a stabilire la nozione di reddito di lavoro dipendente, le regole relative all’imputazione temporale di tali redditi e le specifiche modalità di determinazione del reddito di categoria.

Tale disciplina può tuttavia doversi confrontare, ad un secondo livello normativo, con le disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, in particolare ove la fattispecie impositiva sia articolata su base transnazionale e coinvolga Stati con i quali siano in vigore dette convenzioni. La funzione di tali convenzioni, come è noto, consiste non già nel sostituirsi agli ordinamenti interni, bensì nel ripartire la pretesa impositiva tra Stato della residenza e Stato della fonte in relazione a ciascuna fattispecie reddituale, rimettendo la misurazione del presupposto e la determinazione del quantum debeatur all'ordinamento tributario degli Stati contraenti.

Esiste tuttavia anche un terzo livello normativo, quello comunitario, al quale sono dedicate le riflessioni che seguono.

Come è noto, il Trattato di Roma è privo di una specifica regolamentazione del fenomeno dell’imposizione diretta, sia con riferimento alla sua armonizzazione, sia con riferimento al rispetto del principio di non discriminazione.

(∗) Il presente lavoro è già stato pubblicato in AA.VV. (a cura di E. Della Valle, L. Perrone, C. Sacchetto e V. Uckmar), La mobilità transnazionale del lavoratore dipendente: profili tributari, Padova, Cedam, 2006, p. 1 ss.

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Tuttavia, per quanto attiene all’armonizzazione, pur in assenza della disciplina prevista ad hoc per le imposte indirette dall’art. 93 del Trattato UE, l’appiglio giuridico per un intervento dell’Unione Europea in tale materia è stato rinvenuto in norme di carattere più generale, come l’art. 3 lett. h) del Trattato, che prevede “il ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura necessaria al funzionamento del Mercato comune”, e l’art. 94 del Trattato, che prevede la competenza del Consiglio a deliberare all’unanimità sulle direttive volte al riavvicinamento delle legislazioni nazionali aventi un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune.

Sennonché, i provvedimenti di armonizzazione sinora adottati a livello comunitario hanno riguardato soltanto aspetti relativi a flussi di reddito intracomunitari (dividendi, interessi intragruppo, transfer price, operazioni societarie intracomunitarie, interessi corrisposti a persone fisiche non residenti), mentre tutti i tentativi di porre mano agli ordinamenti tributari interni, ad esempio con riferimento all’armonizzazione delle basi imponibili e dei sistemi di tassazione di società ed azionisti, sono stati abbandonati, essendo forte, per ovvie ragioni, la resistenza degli Stati membri ad abdicare in materia di imposizione diretta a favore degli organi comunitari (1).

La stessa sorte è toccata alla tassazione dei redditi di lavoro dipendente, dove la proposta presentata dalla Commissione nel 1979 relativa all’armonizzazione delle disposizioni relative alla tassazione sui redditi (comprese le pensioni) dei lavoratori dipendenti circolanti all’interno della Comunità, è stata ritirata nel 1992, a motivo sia dell’opposizione avanzata da taluni Stati membri all’applicazione del principio della tassazione nel paese di residenza del reddito dei lavoratori transfrontalieri, sia della maggiore imposizione che tale principio avrebbe comportato nelle relazioni tra taluni Stati membri.

(1) Sul punto, C. SACCHETTO, Armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, in Enc. giur.,

II, Roma, 1988; F. TESAURO, Profili della fiscalità comunitaria, in Boll. trib., 1988, p. 1751 ss.; A. FANTOZZI, Il sistema tributario italiano verso il mercato unico europeo, in Rass. trib., 1988, p. 551 ss.; P. RUSSO - R. CORDEIRO GUERRA, L’armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, in Rass. trib., 1990, p. 629 ss.; G. CROXATTO, Armonizzazione fiscale e mercato unico europeo, in Le Società, 1990, p. 105 ss.; F. GALLO - G. MELIS, L’elusione fiscale internazionale nei processi di integrazione tra Stati: l’esperienza della Comunità Europea, in Justiça tributaria: direitos do fisco e garantias dos contribuintes nos atos da administraçao e no proceso tributario, Max Limonad, San Paolo, 1998, p. 165 ss.; F. AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 1998, p. 117 ss.

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A seguito di tale ritiro, la Commissione ha proceduto ad emanare la Raccomandazione n. 94/79/CE (2) relativa alla “tassazione di taluni redditi percepiti in uno Stato membro da soggetti residenti in un altro Stato membro”, il cui ambito è stato esteso, rispetto alla proposta del 1979, alle libere professioni e alle attività agricole, forestali, industriali e commerciali. L’elemento di maggior rilievo di tale raccomandazione consiste nell’enunciazione della c.d. “regola dei tre quarti”, in base alla quale un soggetto non residente che produce in un determinato Stato almeno il 75% del proprio reddito deve essere tassato alla stregua di un soggetto residente, anche per ciò che attiene alla concessione delle agevolazioni (es. quoziente familiare, tassazione separata) e delle detrazioni d’imposta.

Se sul versante dell’armonizzazione della tassazione dei redditi di lavoro dipendente non sussistono dunque provvedimenti normativi vincolanti, diversa è la situazione sul piano del principio di “non discriminazione”, dove la Corte ha delineato con grande precisione, come vedremo, i contorni di tale principio, che deve informare la legislazione tributaria dei singoli Stati membri – ivi compresa l’area della tassazione dei redditi di lavoro dipendente – onde renderla “compatibile” con le disposizioni del Trattato.

Il profilo della non discriminazione presenta peraltro importanti affinità strutturali con quello dell’armonizzazione, con il quale condivide innanzitutto la rilevanza ai fini del raggiungimento degli obiettivi del Trattato (3). Manca inoltre, anche qui, una disposizione (analoga, questa volta, all’art. 90 del Trattato) che vieti le discriminazioni in materia di imposizione diretta e, ciò nonostante, anche in questo caso è stato rinvenuto un appiglio giuridico in norme più generali, rappresentate, con riferimento ai redditi di lavoro dipendente, dal principio della libertà di circolazione delle persone ex art. 39 del Trattato (4), ma soprattutto, con un ambito applicativo straordinariamente esteso, dal principio di libertà di stabilimento ex artt. 43 (5) e 48 (6) del Trattato

(2) In GUCE, 10 febbraio 1994, n. L 039.

(3) P. ADONNINO, Il principio di non discriminazione nei rapporti tributari fra Paesi membri secondo le norme della CEE e la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1993, p. 63 ss.

(4) Art. 39 Trattato UE: “La libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità è assicurata. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro”.

(5) Art. 43 Trattato UE: “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato

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(7): tutte espressioni, queste, del più generale principio di non discriminazione sulla base della cittadinanza sancito dall’art. 12 (8) del Trattato stesso.

Nel primo caso, della libera circolazione di persone, trova tutela proprio l’accesso e lo svolgimento di un’attività a carattere subordinato, vale a dire, nella definizione di fonte comunitaria, lo svolgimento da parte di una persona per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, di prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione (9): viene prevista all’uopo l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro (10).

membro vengono gradatamente soppresse durante il periodo transitorio. Tale graduale soppressione si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’art. 48 comma 2, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali”.

(6) Art. 48 Trattato UE: “Le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità, sono equiparate, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente capo, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri”.

(7) Corte di giustizia, 20 maggio 1992, C-106/91, Ramrath, in Raccolta, 1992, p. 3351, punto 17.

(8) Art. 12 Trattato UE: “Nel campo di applicazione del presente Trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.

(9) Corte di giustizia, 3 luglio 1986, C-66/85, punto 17, Lawrie-Blum, in Raccolta, 1986, p. 2121, che precisa come gli Stati non possano derogare a tale nozione. La Corte ha successivamente esteso la nozione, comprendendovi anche le persone all’effettiva ricerca di un lavoro: Corte di giustizia, 12 maggio 1998, C-85/96, in Raccolta, 1998, p. 2691 ss. Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia al riguardo, vedi G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2003, p. 469 ss. e K. LENAERTS – P. VAN NUFFEL, Constitutional Law of the European Union, 2a ed., London, Sweet & Maxwell Limited, 2005, p. 171 ss.

(10) La libera circolazione dei lavoratori è stata ulteriormente disciplinata in talune direttive e regolamenti, adottati per controllare le condizioni di entrata, residenza e regime dei lavoratori e delle loro famiglie. Si vedano i seguenti documenti normativi: direttiva n. 64/221 (deroghe alla libertà di circolazione); direttiva n. 68/360 (formalità e condizioni di entrata e di residenza dei lavoratori e d’impiego); regolamento n. 1612/68 (principio di eguale trattamento e diritti sostanziali e prerogative dei lavoratori e delle loro famiglie); regolamento n. 1251/70 (diritto del lavoratore e dei membri della famiglia a rimanere nel territorio di uno Stato membro in talune ipotesi); direttiva n. 90/366 (diritto di residenza per gli studenti); direttiva n. 90/365 (diritto di residenza per i pensionati); direttiva n. 90/364 (diritto di residenza per altri soggetti). Lo stesso art. 18 del Trattato, come modificato dal Trattato di Maastricht, riconosce che “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli

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Nel secondo caso, oggetto di tutela è l’accesso e lo svolgimento, con le stesse modalità stabilite dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini, di un’attività a carattere “economico” di tipo non subordinato, e quindi da parte di imprese e lavoratori autonomi (libertà di stabilimento primaria). Essa si estende alla costituzione di agenzie, di succursali o di affiliate da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti nel territorio di un altro Stato membro (libertà di stabilimento secondaria) (11).

Trattasi, in ambedue i casi, non solo di disposizioni direttamente applicabili a seguito della scadenza del periodo transitorio (12), ma il cui operare non può essere subordinato ad un principio di reciprocità, come accadrebbe ove si volesse rimettere ad una convenzione bilaterale contro la doppia imposizione la disciplina della fattispecie discriminata, onde ottenere vantaggi corrispondenti in altri Stati membri (13).

Ma alle indicate affinità per punto di partenza e di arrivo si aggiunge un elemento ulteriore, e a mio avviso fondamentale, rappresentato dalle conseguenze che le conclusioni raggiunte dalla Corte riguardo alla non discriminazione e alla libertà di circolazione (e di stabilimento) sono in grado di determinare sul problema dell’armonizzazione dei sistemi tributari interni degli Stati membri. Tali conseguenze, i cui tratti qualificanti delineeremo appresso,

Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso”. La legislazione secondaria riconosce dunque ormai il diritto di residenza in un altro Stato membro indipendentemente dall’esercizio della libera circolazione dei lavoratori o della libertà di stabilimento: sul punto, P. FARMER, Il divieto di discriminazione in base alla nazionalità e le libertà fondamentali della Comunità, relazione al Convegno di studio su “Libertà economiche del Trattato UE ed imposizione diretta degli Stati”, Bologna, 27-28 settembre 2002, pag. 9 del dattiloscritto; G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., p. 453, che sottolinea come le direttive del 1990 abbiano stabilito un diritto di soggiorno di durata indeterminata pur in assenza del requisito dell’esercizio di un’attività economica, all’unica condizione di disporre di risorse sufficienti, così superandosi la “concezione mercantilistica del diritto di circolazione”.

(11) Non si estende, invece, al trasferimento della sede di direzione effettiva o amministrativa di un società in un altro Stato membro conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione essa è stata costituita: Corte di giustizia, 27 settembre 1988, C-81/98, Daily Mail, in Raccolta, 1988, p. 5483 ss. Sui complessi problemi relativi all’esatta determinazione del significato della sentenza in esame, sia consentito rinviare a G. MELIS, Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale delle società, in Dir. e prat. trib. int., 2004, p. 13 ss.

(12) In questo senso, ad esempio, Corte di giustizia, 12 aprile 1994, C-1/93, Halliburton, p. 1156.

(13) Corte di giustizia, 27 gennaio 1986, C-270/83, Avoir fiscal, in Raccolta, 1986, p. 302, punto 13.

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sembrano infatti poter apportare un impulso determinante a quel processo di armonizzazione appena ricordato, evidentemente più orientato a disciplinare, come visto, profili di carattere intracomunitario che a “intromettersi” nelle questioni fiscali interne ai singoli Stati membri.

2. Nozione di “discriminazione”.

In generale, si ha discriminazione di trattamento di una fattispecie rispetto ad un’altra, quando la prima, pur analoga alla seconda, riceve una regolamentazione normativa diversa; oppure quando, pur diversa da essa, riceve la medesima disciplina (14).

Specificamente, le nozioni di discriminazione che vengono in rilievo nella giurisprudenza della Corte di giustizia sono tre: la discriminazione diretta, la discriminazione indiretta e la discriminazione a rovescio.

Si ha discriminazione diretta (overt discrimination), quando la norma nazionale stabilisce un trattamento discriminatorio basato direttamente sull’elemento che la norma che vieta la discriminazione assume a proprio oggetto di tutela. In questo caso, per le persone fisiche, è la nazionalità o la cittadinanza di uno Stato membro a fungere da oggetto di tutela diretta, mentre per le persone giuridiche è la sede in uno di essi.

Tale discriminazione non trova tuttavia applicazione in ambito comunitario per le persone fisiche, in quanto i sistemi fiscali non sono imperniati direttamente sul concetto di cittadinanza, bensì, come noto, su quello di residenza fiscale. Non altrettanto accade per le persone giuridiche, per le quali talvolta la regola discriminatoria si fonda direttamente sulla sede, e altre volte – a differenza di quanto accade per la residenza fiscale delle persone fisiche che prescinde in ambito comunitario dalla cittadinanza – la sede viene assunta come uno dei possibili elementi qualificanti la residenza fiscale.

In tale contesto diventa dunque determinante il concetto di discriminazione indiretta (covert discrimination). Si ha discriminazione indiretta, quando le disposizioni interne disciplinano in modo discriminatorio due situazioni sulla base di un elemento diverso da quello oggetto di tutela diretta.

(14) Da ultimo, Corte di giustizia, 13 dicembre 1984, C-106/83, Sermide, in Raccolta, 1984, p.

4209: “il principio di non discriminazione (…omissis…) impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera differenziata e situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato”.

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Ciò nonostante, la discriminazione basata su tale diverso elemento si risolve indirettamente in una discriminazione basata sull’elemento direttamente tutelato.

La rilevanza di tale forma di discriminazione è stata affermata dalla Corte in una risalente sentenza (15), nella quale essa ha chiarito che il principio della parità di trattamento vieta non solo le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, o in base alla sede per quanto riguarda le società, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di distinzione, pervenga in effetti al medesimo risultato (16).

Tale diverso elemento, in ambito fiscale, è normalmente costituito dalla residenza fiscale. Si pensi al caso Zurstrassen (17), relativo alla legislazione lussemburghese che subordinava l’imposizione congiunta, per le coppie sposate, alla condizione che entrambi i coniugi fossero fiscalmente residenti in Lussemburgo e che la Corte ha ritenuto incompatibile con l’art. 39 del Trattato, potendo tale condizione “essere soddisfatta più facilmente dai connazionali, piuttosto che dai cittadini di altri Stati membri stabilitisi nel Granducato per svolgervi un’attività economica e i cui familiari risiedono con maggiore frequenza fuori dal Lussemburgo”.

Ma non solo. Se è infatti vero che i non residenti sono il più delle volte cittadini “non nazionali”(18), è anche vero che il trattamento discriminatorio può avere ad oggetto qualsiasi disposizione che, secondo l’id quod plerumque accidit, si presti di fatto a discriminare i cittadini di un altro Stato membro.

Nel caso Bachmann (19), ad esempio – nel quale la Corte, pur avendo ravvisato una discriminazione, la ha ritenuta poi “giustificata” per le ragioni che si esporranno successivamente – una disposizione della legislazione belga consentiva la deduzione dei contributi di assicurazione non obbligatoria contro la malattia e l’invalidità, solo se corrisposti ad un ente mutualistico riconosciuto

(15) Corte di giustizia, 12 febbraio 1974, C-152/73, Sotgiu, in Raccolta, 1974, p. 153, punto

11.

(16) La discriminazione indiretta non trova invece tutela nell’ambito del principio di non discriminazione di natura fiscale contenuto nelle convenzioni contro le doppie imposizioni: vedi F. AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, cit., p. 170.

(17) Corte di giustizia, 16 maggio 2000, C-87/99, Zurstrassen, in Raccolta, 2000, p. 1412 ss.

(18) Corte di giustizia, 14 febbraio 1995, C-279/93, Schumacker, in Raccolta, 1995, p. 225 ss. Per un commento, vedi P. PISTONE, La non discriminazione anche nel settore dell’imposizione diretta: intervento della Corte di Giustizia, in Dir. prat. trib., 1995, p. 1471 ss.

(19) Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90, Bachmann, in Raccolta, 1992, p. 249 ss.

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dal Belgio, e dei contributi d’assicurazione contro la vecchiaia e la morte prematura purché versati in Belgio. Tale disposizione veniva applicata senza distinzione di nazionalità. Tuttavia, osserva la Corte, di regola i lavoratori che hanno esercitato una attività in uno Stato membro e che successivamente si impiegano in un altro Stato membro, hanno concluso i loro contratti di assicurazione contro la vecchiaia e la morte o contro la malattia con assicuratori stabiliti nel primo Stato: di qui il rischio di discriminazione nei confronti soprattutto di cittadini di altri Stati membri.

Ancora, si guardi al caso Biehl (20), dove una disposizione della legislazione lussemburghese non consentiva, nel caso di trasferimento della residenza dal Lussemburgo, il rimborso delle ritenute alla fonte prelevate sui redditi di lavoro dipendente in eccesso rispetto all’imposta dovuta: ipotesi dunque soprattutto applicabile ai contribuenti cittadini di altri Stati, “giacché saranno spesso questi ultimi a lasciare il paese o a stabilirvisi durante l’anno”.

Con particolare riferimento alla discriminazione indiretta basata sulla residenza, occorre peraltro sottolineare che il binomio “residente - non residente” non costituisce di per sé, almeno per le persone fisiche, una situazione immediatamente comparabile in termini di discriminazione.

Tra residenti e non residenti sussistono infatti situazioni obiettive di regola differenti, prima tra tutte la personalità dell’imposizione che caratterizza i residenti che, a fronte dell’imponibilità dei redditi prodotti su base mondiale, consente la deduzione di determinati oneri, al fine di ricostruirne quella capacità contributiva complessiva che, nel caso del soggetto non residente rileverà nel rispettivo Stato di residenza, nel quale si terrà dunque conto di tali oneri (21). Il problema diventa allora, per le persone fisiche, di stabilire in quali circostanze la posizione del non residente diventi assimilabile a quella del soggetto residente nello Stato che applica la disposizione che si assume discriminatoria; posizione a fronte della quale è lecito attendersi che mancherà quel reddito necessario per potere usufruire, nel proprio Stato di residenza, delle deduzioni e detrazioni personali (o addirittura, al limite, che la legislazione

(20) Corte di giustizia, 8 maggio 1990, C-175/88, Biehl, in Raccolta, 1990, p. 1779 ss. Si veda

anche Corte di giustizia, 26 novembre 1995, C-151/94, Biehl II, in Raccolta, 1995, p. 3685 ss., che chiarisce che la discriminazione non può sussistere neanche sul piano procedimentale. Vedi P. MARCHESSOU - S. ANIBARRO PEREZ, Tax Law Implications for the Eastern EU Enlargement: the Case of Hungary, in Dir. prat. trib. int., 2004, p. 428.

(21) Da ultimo, Corte di giustizia, 1 luglio 2004, C-169/03, Wallentin, in Il Fisco, 2004, 2, p. 5554 ss., punto 15.

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dello Stato di “residenza” del contribuente finisca per tassare tale contribuente alla stregua di un “non residente”). Solo in tale ipotesi sarà quindi ravvisabile quella identità di situazione che consente una valutazione in termini di discriminazione del diverso trattamento normativo.

Della crisi del tradizionale concetto di residenza sono espressione il caso Schumacker (22), cittadino belga che produceva in Germania la totalità del proprio reddito di lavoro dipendente, ma che in Germania veniva trattato alla stregua di un soggetto non residente – senza poter beneficiare delle deduzioni personali e dello splitting – mentre in Belgio, non avendo redditi imponibili, veniva sì considerato soggetto residente ma, essendo privo di redditi imponibili, non poteva neanche lì beneficiare delle deduzioni personali (23); il caso Wielockx, cittadino belga ed ivi residente, che produceva la quasi totalità del proprio reddito di lavoro autonomo nei Paesi Bassi, ma al quale non spettava il diritto di costituire una riserva di vecchiaia fiscalmente detraibile alle stesse condizioni previste per i contribuenti residenti; infine, il caso Zurstrassen (24), in cui un cittadino belga residente in Lussemburgo, che percepiva la quasi totalità dei propri redditi di lavoro dipendente in Lussemburgo, non aveva diritto a beneficiare in tale Stato dello splitting, risiedendo il proprio coniuge in Belgio. In tali casi, la Corte, verificata l’identità sostanziale tra la situazione di tali soggetti e quella propria dei residenti, ne ha equiparato appunto il trattamento a quello riservato ai soggetti residenti.

Tale principio è stato confermato nella recente sentenza Wallentin (25), cittadino tedesco che aveva ricevuto, quale unico reddito imponibile, una retribuzione in qualità di praticante presso la chiesa svedese, assoggettata in Svezia a ritenuta a titolo di imposta nella misura del 25%, senza poter altresì beneficiare della deduzione alla base concessa ai contribuenti residenti in Svezia. Ebbene, la Corte di giustizia ha ritenuto tale legislazione incompatibile con l’art. 39 del Trattato, poiché da un lato, per quanto riguarda un non

(22) Corte di giustizia, 14 febbraio 1995, C-279/93, Schumacker, cit., p. 225 ss.

(23) Sui complessi problemi relativi alla mancata concessione degli oneri deducibili e per carichi di famiglia, vedi N. MATTSSON, Does the European Court of Justice Understand the Policy behind Tax Benefits Based on Personal and Family Circumstances?, in European Taxation, 2003, p. 186 ss. e P. WATTEL, Progressive Taxation of Non-Residents and Intra-EC Allocation of Personal Tax Allowances: Why Schumacker, Asscher, Gilly and Gschwind Do not Suffice, in European Taxation, 2000, p. 210 ss.

(24) Corte di giustizia, 16 maggio 2000, C-87/99, Zurstrassen, cit.

(25) Corte di giustizia, 1 luglio 2004, C-169/03, Wallentin, cit.

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residente che percepisce in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede la parte essenziale dei propri redditi, la discriminazione consiste nel fatto che la situazione personale e familiare non è presa in considerazione né nello Stato di residenza, né in quello dell’occupazione e, dall’altro, poiché l’abbattimento alla base persegue una “finalità sociale”, in quanto consente di garantire al contribuente un minimo vitale esente da qualunque imposta sul reddito.

Va peraltro sottolineato che la discriminazione non deve necessariamente trovare la propria fonte in una disposizione della legislazione interna, ma può anche derivare da una disposizione contenuta in accordi internazionali stipulati con Stati terzi. La Corte di giustizia ha esaminato tale problema nel caso Saint Gobain (26), nel quale una società francese avente una stabile organizzazione in Germania aveva chiesto l’applicazione di alcuni benefici sui dividendi previsti da Convenzioni stipulate con Stati terzi e limitati a Società residenti in Germania soggette a tassazione illimitata (Unbeschränkte Steuerpflicht). In tale ipotesi non solo non ha trovato applicazione il principio del pacta tertiis nec nocent nec prosunt, in quanto la stabile organizzazione deve essere equiparata, ai fini dell’applicazione del principio di non discriminazione, ad una società residente, ma non si sono posti neanche problemi di carattere internazionale, in quanto l’estensione dei benefici alla stabile organizzazione di una società comunitaria non pregiudicava i diritti dello Stato terzo.

Ciò non significa, tuttavia, che il principio di non discriminazione possa provocare una ingerenza nel disposto convenzionale sino a rimettere in discussione finanche i criteri di collegamento previsti dai trattati internazionali. Come la Corte ha infatti chiarito nel caso Gilly (27), le differenziazioni eventualmente rinvenibili nel corpo delle convenzioni contro le doppie imposizioni non possono considerarsi discriminazioni vietate dall’art. 48 del Trattato: esse discendono infatti, in mancanza di misure di unificazione o di armonizzazione nell’ambito comunitario, dalla competenza che le parti contraenti hanno di stabilire i criteri di ripartizione fra esse del potere impositivo.

(26) Corte di giustizia, 21 settembre 1999, C-307/97, Saint Gobain, in Il Fisco, 1999, p. 13000

ss.

(27) Corte di giustizia, 12 maggio 1998, C-336/96, Gilly, in Il Fisco, 1999, p. 8875 ss. e in Riv. dir. trib., 2000, III, p. 62 ss.

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E’ peraltro interessante notare che con una recente sentenza, resa nel caso Gerritse (28), la Corte di giustizia ha reso ancor più problematico il raffronto tra soggetti residenti e soggetti non residenti (29). Nei confronti di questi ultimi, infatti, la rilevanza impositiva solo parziale, per lo Stato della fonte, del reddito da essi prodotto, non può giustificare, ad avviso della Corte, né la tassazione su una base imponibile lorda, né l’applicazione di una ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ove tali modalità non siano applicate anche ai soggetti residenti.

Nella specie, un batterista residente in Olanda aveva percepito dei compensi per una prestazione artistica resa in Germania, ivi assoggettata a ritenuta a titolo di imposta del 25%, applicata sull’ammontare lordo dei compensi percepiti. La Corte di giustizia ha ritenuto che il mancato riconoscimento della deducibilità, in capo al soggetto non residente, delle spese direttamente connesse all’attività svolta nello Stato della fonte, si risolvesse in una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalità, e che fosse altresì incompatibile con il Trattato l’applicazione di una ritenuta alla fonte tale da determinare un carico fiscale superiore a quello che sarebbe derivato dall’applicazione della tabella progressiva prevista per i soggetti residenti (30). Viene dunque messa in discussione dalla Corte l’equazione tra residente / principio del reddito mondiale / tassazione progressiva, da un lato, e non residente / principio della fonte / tassazione alla fonte a titolo di imposta, dall’altro (31).

Va da ultima esaminata la discriminazione “a rovescio” (“reversed discrimination”).

(28) Corte di giustizia, 12 giugno 2003, C-234/01, Gerritse, in Riv. dir. trib., 2004, III, p. 187

ss., con nota di B.E. PIZZONI, Ancora in tema di trattamento impositivo differenziato tra soggetti residenti e non residenti: Gerritse (e Wallentin).

(29) Si esprime in termini di “further step in its case law overruling internationally accepted principles and practices” e di “erosion of the principle of fiscal territoriality”, L. HINNEKENS, European Court challenges flat rate withholding taxation of non-resident artist: comment on the Gerritse decision, in EC Tax Review, 2003, p. 207.

(30) In realtà, il calcolo da effettuare è più complesso, in quanto ad avviso della Corte il reddito netto deve essere sommato alla quota non imponibile. Su tale totale devono essere applicate le aliquote progressive, ottenendo una imposta da confrontare con il reddito netto. Il rapporto tra l’imposta e il reddito netto fornisce una aliquota media da confrontare con l’ammontare della ritenuta a titolo di imposta.

(31) Vedi, sul punto, le considerazioni critiche di G. BIZIOLI, Sull’incompatibilità col principio comunitario di non discriminazione del trattamento impositivo tedesco sui redditi di artisti non residenti, in Dialoghi di diritto tributario, 2004, p. 92 ss.

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Caratteristica fondamentale di tale discriminazione è che la controversia viene instaurata nei confronti dello Stato membro del quale il ricorrente è cittadino. Norma che si assume discriminatoria è quella che, ovviamente, non distingue tra cittadini e stranieri, ma quella che distingue tra residenti e non residenti: il contribuente è dunque cittadino dello Stato discriminante, ma residente in un altro Stato membro.

Tre sono i casi esaminati dalla Corte.

Nel caso Werner (32), un cittadino tedesco residente nei Paesi Bassi, che produceva oltre il 90% del proprio reddito di lavoro autonomo in Germania, chiedeva l’applicazione della disposizione sullo splitting riservata ai residenti in Germania. In tale ipotesi la Corte, muovendo dalla constatazione che al trasferimento in Olanda non corrispondeva l’intenzione di esercitarvi un’attività economica (bensì una finalità meramente residenziale), ha statuito che l’art. 43 non osta a che uno Stato membro assoggetti i propri cittadini che esercitano l’attività professionale sul territorio nazionale e che vi percepiscono la totalità o la quasi totalità dei loro redditi, ad oneri fiscali più gravosi qualora non risiedano in detto Stato rispetto all’ipotesi in cui vi risiedano.

Nel successivo caso Asscher (33), la Corte è tuttavia pervenuta a conclusioni diverse. Un cittadino olandese fiscalmente residente in Belgio, prestava attività di lavoro autonomo in Olanda. Il reddito prodotto nei Paesi Bassi da tale contribuente veniva ivi assoggettato, quale non residente, a tassazione con una aliquota maggiore di quella applicata sui redditi prodotti da un cittadino olandese residente in Olanda. La Corte ha ritenuto che la posizione del cittadino non residente fosse analoga a quella del cittadino (e del non cittadino) residente e che la differenza di aliquote applicabili, diversamente dalle deduzioni collegate alla considerazione della situazione personale del contribuente, non potesse essere obiettivamente giustificata. L’art. 43 può quindi essere invocato dal contribuente anche nei confronti del proprio Stato di origine, purché la discriminazione basata sulla residenza non si fondi sulla mancata applicazione di deduzioni personali (salvo, naturalmente, quanto affermato nel caso Schumacker).

(32) Corte di giustizia, 26 gennaio 1993, C-112/91, Werner, in Raccolta, 1993, p. 429 ss.

(33) Corte di giustizia, 27 giugno 1996, C-107/94, Asscher, in Raccolta, 1996, p. 3091 ss.

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Infine, nel caso Terhoeve (34), relativo alla riscossione in capo a un cittadino non residente di contributi previdenziali superiori a quelli riscossi in capo ai cittadini residenti, la Corte ha ritenuto che l’art. 39 del Trattato e l’art. 7 del Regolamento (CEE) n. 1612/68 (35), possano essere fatti valere da un lavoratore nei confronti dello Stato membro di cui è cittadino qualora abbia risieduto e svolto attività lavorativa subordinata in un altro Stato membro.

Il problema della discriminazione “a rovescio” trova dunque nell’ambito dell’imposizione diretta quel minimo di tutela sinora costantemente negato per l’imposizione indiretta con riferimento all’art. 90 del Trattato (36).

3. Libera circolazione dei lavoratori, principio di non discriminazione ed altri principi del Trattato: loro interrelazioni.

La casistica esaminata dalla Corte di giustizia con riferimento ai quattro principi fondamentali enunciati dal Trattato (libertà di circolazione dei lavoratori, di stabilimento, di prestazione di servizi e di movimento di capitali) offre numerose combinazioni tra di essi.

Con riferimento al solo principio di libertà di circolazione dei lavoratori, qui di interesse, va detto innanzitutto che si è recentemente proposta la scissione del binomio “libertà di circolazione dei lavoratori – principio di non discriminazione” che aveva caratterizzato, sin dal caso ICI, la giurisprudenza della Corte in tema di libertà di stabilimento.

A tale riguardo, è infatti noto che mentre in alcune sentenze il thema decidendum si ricollega all’affermazione del principio di non discriminazione quale conseguenza del principio di libera circolazione dei lavoratori o di libertà di stabilimento (37), in altre pronunzie della Corte il principio di libertà di

(34) Corte di giustizia, 26 gennaio 1999, C-18/95, Terhoeve, in Raccolta, 1999, p. 345 ss.

(35) Ai sensi del quale il lavoratore cittadino di uno Stato membro gode, nel territorio degli altri Stati membri, “degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali”.

(36) Si ricorda ad esempio la sentenza 13 marzo 1979, C-86-78, in Raccolta, 1979, p. 1123 dove la Corte non ha ritenuto essere in contrasto con l’art. 90 del Trattato la minore imposizione in Francia dell’alcool importato rispetto a quello di produzione nazionale. Per un’apertura alla discriminazione “a rovescio” nel sistema IVA, vedi Corte di giustizia, 26 settembre 1996, C-302/93, sulla quale S. CONFALONIERI, Brevi appunti sul diritto al rimborso IVA di un non residente, in Riv. dir. trib., 1997, II, p. 519 ss.

(37) Ad esempio, nel caso Avoir fiscal la società che gode in forza dell’art. 48 del Trattato UE del diritto di stabilimento nel territorio di un altro Stato membro può accedervi, ai sensi dell’art. 43, in forma di agenzia, di succursale o di filiale. Discriminando la stabile

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stabilimento ha assunto una posizione autonoma rispetto al principio di non discriminazione (38). Quindi il principio di libertà di stabilimento non ha soltanto come conseguenza l’illegittimità delle disposizioni interne che discriminano, direttamente o indirettamente, tra cittadini e stranieri, ma anche quella di vietare quelle disposizioni di uno Stato membro che abbiano l’effetto di ostacolare l’esercizio del diritto di stabilimento in un altro Stato membro. In questo senso la non discriminazione costituisce species rispetto al genus libertà di stabilimento, rappresenta cioè una forma di quelle restrizioni cui l’art. 43 opera riferimento.

Ebbene, nelle sentenze della Corte di giustizia che hanno esaminato il principio di libertà di circolazione dei lavoratori in materia tributaria, tale principio è sempre stato correlato al principio di non discriminazione (indiretta). Sennonché, il ragionamento seguito dalla Corte di giustizia con riferimento al principio di libertà di stabilimento ben poteva essere seguito anche nel caso del principio della libera circolazione dei lavoratori, come il caso Bosman (39) e Terhoeve (40) chiaramente lasciavano intendere (41). Ed infatti, con

organizzazione appartenente a una società situata in altro Stato membro nella concessione del credito di imposta si disincentiva la localizzazione in Francia tramite una stabile organizzazione, obbligando le società straniere a costituirvi società figlie e svuotando così di contenuto l’art. 43 del Trattato.

(38) E’ il caso della vicenda ICI (Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, in Rass. trib., 1999, p. 1805 ss., con nota di E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali e in Dir. prat. trib., 1999, II, p. 313 ss., con nota di G. BIZIOLI, Il rapporto tra libertà di stabilimento e principio di non discriminazione in materia fiscale: una applicazione nel recente caso Imperial Chemical Industries), avente ad oggetto la compatibilità con l’art. 43 della disposizione contenuta nella legislazione inglese che subordinava il beneficio della tassazione di gruppo, con il conseguente consolidamento delle perdite, alla condizione che l’attività della holding consistesse esclusivamente o principalmente nel detenere partecipazioni in società aventi sede nel Regno Unito. La Corte ha ritenuto che una tale normativa costituisse un ostacolo alla libertà della ICI di costituire proprie consociate in altri Stati membri, poiché in tale ipotesi essa avrebbe perso il beneficio della tassazione consolidata accordato dalla legislazione interna.

(39) Corte di giustizia, 15 dicembre 1995, C-415/93, Bosman, in Raccolta, 1993, p. 4921 ss.

(40) Corte di giustizia, 26 gennaio 1999, C-18/95, Terhoeve, cit., ove si legge (punti 40 e 41): “Ora, il cittadino di uno Stato membro potrebbe essere dissuaso dal lasciare lo Stato membro in cui risiede per svolgere una attività lavorativa subordinata, ai sensi del Trattato, nel territorio di un altro Stato membro se gli venisse imposto il pagamento di contributi previdenziali più onerosi di quelli che avrebbe dovuto pagare qualora mantenesse la residenza nello stesso Stato membro durante tutto l’anno, senza per questo fruire di prestazioni previdenziali supplementari a compensazione di tale maggiorazione. Ne deriva che una disciplina nazionale come quella di cui trattasi nel processo a quo costituisce un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori vietato, in linea di principio, dall’art. 39 del Trattato. Di conseguenza non è necessario interrogarsi sull’esistenza di una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza (corsivo nostro)”.

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una sentenza del 2002, nel caso De Groot, la Corte ha finalmente chiarito l’incompatibilità con la libertà di circolazione dei lavoratori di quelle disposizioni che abbiano l’effetto di dissuadere i propri cittadini (residenti) dal prestare attività di lavoro dipendente all’estero (42).

E’ interessante anche notare come, in alcuni casi, al principio di libertà di circolazione dei lavoratori si siano affiancate altre libertà tutelate dal Trattato.

Si prenda, ad esempio, il già richiamato caso Bachmann, relativo alla disposizione della legislazione belga che consentiva la deduzione dei contributi di assicurazione non obbligatoria contro la malattia e l’invalidità, solo se corrisposti ad un ente mutualistico riconosciuto dal Belgio e dei contributi d’assicurazione contro la vecchiaia e la morte prematura purché versati in Belgio. In tale fattispecie, infatti, alla violazione della libertà di circolazione dei lavoratori, derivante dalla circostanza che i cittadini di un altro Stato che avevano lavorato in Belgio e pagato i contributi necessariamente alle imprese belghe sarebbero stati penalizzati una volta cessata la loro attività lavorativa in Belgio, si aggiungeva il profilo della violazione della libertà di prestazione di servizi dal punto di vista delle compagnie di assicurazione, certamente penalizzate nella vendita di prodotti assicurativi in Belgio. Naturalmente il principio di prestare liberamente un servizio nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale il prestatore dello stesso è stabilito, può anche essere a sua volta svincolato dal principio di libertà di circolazione dei lavoratori o di stabilimento. Ad esempio, nel caso Svensson-Gustavsson (43) due coniugi, residenti in Lussemburgo, richiedevano l’abbuono degli interessi pagati ad una banca con sede in Belgio relativamente ad un prestito contratto per la costruzione di un appartamento in Lussemburgo. Tale rimborso veniva tuttavia

(41) Vedi P. BATER, Setting the Scene: The Legal Framework, in European Taxation, 2000, p. 8

ss.

(42) Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-385/00, De Groot, punto 79: “Così, anche se, secondo il loro tenore letterale, le disposizioni relative alla libera circolazione dei lavoratori sono dirette, in particolare, a garantire il beneficio del trattamento nazionale nello Stato di accoglienza, esse ostano altresì a che lo Stato d’origine ostacoli la libera circolazione e lo svolgimento di un lavoro da parte di uno dei suoi cittadini in un altro Stato membro” e punto 84: “Tale svantaggio, causato dall’applicazione operata nello Stato membro di residenza della sua normativa di prevenzione della doppia imposizione, è tale da dissuadere un cittadino di tale Stato dal lasciarlo per svolgere un’attività remunerata, ai sensi del Trattato, sul territorio di un altro Stato membro”.

(43) Corte di giustizia, 14 novembre 1995, C-484/93, Svensson-Gustavsson, in Raccolta, 1995, p. 3955 ss.

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negato, in quanto la legislazione lussemburghese consentiva l’abbuono se e in quanto il prestito fosse stato contratto con un istituto di credito autorizzato dalla legislazione del Lussemburgo. Di qui la violazione della libertà di prestazione dei servizi, poiché le istituzioni creditizie residenti in altri Stati membri si sarebbero trovate svantaggiate nell’erogazione di mutui a residenti lussemburghesi (44).

Non mancano inoltre i richiami ai principi generali, ed in particolare all’art. 12 del Trattato: in questo caso non sussistono particolari problemi, in quanto gli artt. 39, 43 e 49 costituiscono un’applicazione specifica del principio generale di cui all’art. 12. Conseguentemente, l’art. 12 del Trattato può applicarsi autonomamente solo nelle situazioni disciplinate dal diritto comunitario per le quali il Trattato non stabilisce norme specifiche di non discriminazione (45).

Va infine rilevato che la Commissione, nell’avviare la procedura di infrazione contro la exit tax tedesca a seguito del noto caso Hughes de Laysterie du Saillant (46), ha ritenuto tale imposta contraria non soltanto agli artt. 39 e 43, ma anche all’art. 18 del Trattato, facendo emergere la possibilità di una tutela del diritto di residenza in un altro Stato membro indipendentemente dall’esercizio della libera circolazione dei lavoratori o della libertà di stabilimento, sancendo il definitivo superamento – attuatosi con il Trattato di Maastricht – della concezione mercantilistica del diritto di circolazione (47).

4. Limiti all’operare del principio di non discriminazione.

Non tutte le pronunzie della Corte di Giustizia hanno ravvisato nelle questioni oggetto di remissione ex art. 234 motivo di censura, talvolta

(44) Vedi anche Corte di giustizia, 28 aprile 1998, C-118/96, Safir, in Raccolta, 1998, p. 1897

ss. e Corte di giustizia, 28 ottobre 1999, C-55/98, Vestergaard.

(45) Werner, cit., p. 471; Halliburton, cit., p. 1155; Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, in Raccolta, 2000, p. 1211 ss., punto 23.

(46) Corte di giustizia, 11 marzo 2004, C-09/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant c. Ministère de l’Economie, des Finances et de l’Industrie. Su di essa, sia consentito rinviare a G. MELIS, Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale delle società, in Diritto e pratica tributaria internazionale, 2004, p. 13 ss.

(47) L’espressione è di G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., p. 84 ss.: vedi, supra, nota 9. Sul punto, vedi anche J. SCHWARZ, Personal Taxation under the European Court of Justice Microscope, in Bulletin of IBFD, 2004, p. 550. Vedi anche Corte di giustizia, 29 aprile 2004, C-224/02, Pusa.

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escludendo semplicemente carattere discriminatorio alle disposizioni censurate, talvolta ravvisando, in presenza di una situazione discriminatoria, quegli elementi di giustificazione contemplati dall’art. 46 del Trattato (48).

A tale ultimo riguardo, la c.d. “rule of reason” affermata nei casi Kraus (49) e Gebhard (50) richiede infatti di verificare: a) se le misure discriminatorie adottate siano giustificate da ragioni imperative di interesse generale; b) e c) se siano “adeguate” e “proporzionate” allo scopo stabilito.

Per quanto attiene alle ragioni imperative di interesse generale, e in particolare al principio di “coerenza” dei sistemi impositivi, che di tali ragioni costituisce quella principale, la giurisprudenza della Corte di giustizia è orientata in senso piuttosto restrittivo.

Invero, in un primo momento e con riferimento al caso Bachmann (51), la giustificazione alla deduzione limitata ai contributi corrisposti a imprese belghe era stata ravvisata dalla Corte nel legame tra la deducibilità dei contributi e l’imponibilità delle somme dovute dagli assicuratori in esecuzione di contratti d’assicurazione contro la vecchiaia e la morte. La perdita di gettito fiscale dovuta alla deduzione dei contributi d’assicurazione dal reddito totale veniva quindi ad essere compensata dall’imposta applicata sulle pensioni, rendite e capitali dovuti dagli assicuratori. Analoga era stata la giustificazione adottata dalla Corte ai fini della violazione della libera prestazione di servizi, costituendo la coerenza fiscale quell’obiettivo d’interesse generale per il cui perseguimento la disposizione belga rappresentava condizione indispensabile.

Tale impostazione è stata tuttavia superata nel caso Wielockx (52). Dinanzi al richiamo difensivo al principio di coerenza enunciato nel caso Bachmann operato dal governo olandese e volto ad affermare la mancata correlazione tra le somme dedotte dalla base imponibile e quelle soggette ad

(48) Art. 46 Trattato UE: “Le prescrizioni del presente capo e le misure adottate in virtù di

queste ultime lasciano impregiudicata l’applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare per i cittadini stranieri e che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica”.

(49) Corte di giustizia, 31 marzo 1993, C-19/92, Kraus, in Raccolta, 1993, p. 1663, punto 32.

(50) Corte di giustizia, 30 novembre 1995, C-55/94, Gebhard, in Raccolta, 1995, p. 4165, punto 37.

(51) Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90, Bachmann, cit. Sul punto, vedi R. LYAL, Non discrimination and direct tax in Community Law, in EC Tax Review, 2003, p. 73.

(52) Corte di giustizia, 11 agosto 1995, C-80/94, Wielockx, in Raccolta, 1995, p. 2493 ss.

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imposta – atteso che la costituzione di una riserva di vecchiaia nei Paesi Bassi non avrebbe consentito la successiva tassazione della pensione, essendo tale reddito tassabile in Belgio in virtù della convenzione in vigore tra i due Stati – la Corte ha rivisto la propria posizione, inquadrando tale principio nell’ambito degli accordi internazionali, la cui reciprocità consente di superare l’argomentazione fondata sulla specifica correlazione tra deduzione e tassazione per guardare al fenomeno complessivamente considerato. L’esistenza della convenzione bilaterale consente quindi di assicurare quella coerenza fiscale altrimenti pregiudicata da una visione operata da una prospettiva meramente interna (53) (54).

Per quanto riguarda la giustificazione della misura discriminatoria in chiave “antielusiva”, va detto che finalità antielusive o comunque dettate da esigenze di controlli fiscali della normativa interna, pur essendo astrattamente riconosciute come ragioni imperative idonee a giustificare una restrizione (55),

(53) Sull’importanza di una considerazione della coerenza anche sulla base dei trattati

contro la doppia imposizione stipulati dallo Stato cui appartiene la norma controversa, vedi anche Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, in Raccolta, 2002, p. 10829 ss. (punti 53-56) e Corte di giustizia, 3 ottobre 2002, C-136/00, Danner.

(54) L’argomento della coerenza fiscale risulta anche invocato nei casi Svensson-Gustavvson (Corte di giustizia, 14 novembre 1995, C-484/93, cit.), Asscher (Corte di giustizia, 27 giugno 1996, C-107/94, cit.), ICI (Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, cit.), Baars (Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, cit.), Verkooijen (Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, in Raccolta, 2000, p. 1605 ss.), Metallgesellschaft (Corte di giustizia, 8 marzo 2001, C-397/98 e 410/98, in Impresa, 2001, p. 805 ss.) e De Groot (Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-385/00, cit.). In tutti i casi citati, tuttavia, la Corte ha respinto tale argomento, ravvisando la mancanza di un collegamento rispettivamente tra: 1) il rimborso al contribuente degli interessi pagati ad istituzioni creditizie lussemburghesi e la tassazione degli utili in capo a tali istituzioni; 2) l’applicazione di un’aliquota d’imposta maggiorata al reddito di taluni non residenti che percepiscono meno del 90% del loro reddito globale nei Paesi Bassi e la mancata riscossione di contributi sociali di cui beneficia la parte del reddito di questi non residenti prodotta nei Paesi Bassi; 3) il consolidamento delle perdite delle consociate estere da un lato e la tassazione degli utili realizzati da queste ultime dall’altro; 4) l’esenzione da imposizione patrimoniale delle partecipazioni e la doppia imposizione economica dei redditi delle società partecipate; 5) la concessione agli azionisti residenti nei Paesi Bassi di un’esenzione in materia di imposta sul reddito per i dividendi riscossi e l’assoggettamento ad imposta degli utili delle società aventi sede in altri Stati membri; 6) l’esenzione dall’imposta sulle società di cui gode la società capogruppo sui dividendi ricevuti dalla sua controllata e l’assoggettamento all’ACT di tale controllata al momento del versamento degli stessi dividendi; 7) il metodo di esenzione con riserva di progressività e l’imputazione delle deduzioni personali per la parte dei redditi percepiti nello Stato di residenza.

(55) Si veda, per i controlli fiscali, la sentenza Corte di giustizia, 15 maggio 1997, C-250/95, Futura Participations SA – Singer, in Raccolta, 1997, p. 2492 ss. (punto 31) e in Riv. dir. trib., 1998, II, p. 15 ss., con nota di chi scrive (Stabili organizzazioni, obblighi contabili e riporto delle perdite: un’occasione perduta). Per l’evasione fiscale, Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-324/00,

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non hanno mai prevalso sulle libertà tutelate dal Trattato nella giurisprudenza della Corte.

Talvolta infatti tali giustificazioni non sono state accolte in quanto, in relazione al generale principio di proporzionalità, la misura prevista è stata ritenuta eccessiva rispetto allo scopo che si proponeva di raggiungere: questo è quanto ad esempio accaduto nel caso Futura e Singer, dove si è ritenuto che l’ammontare effettivo delle perdite subite avrebbe potuto essere dimostrato anche mediante mezzi diversi da quella regolare contabilità alla cui tenuta la legislazione lussemburghese subordinava il riporto; oppure quanto accaduto nel caso Leur-Bloem, in cui la norma nazionale è stata censurata per aver di fatto determinato una “presunzione inconfutabile di frode fiscale”, dovendosi invece valutare i comportamenti “abusivi” del contribuente “caso per caso” (56).

Altre volte, le eccezioni sollevate dai Governi chiamati in causa e argomentate sulla presunta finalità antielusiva delle disposizioni incriminate, non sono state ritenute fondate a motivo della relativa inidoneità a perseguire detta finalità. Nel caso ICI, ad esempio, il rischio di elusione insito in una normativa che avesse accordato il consolidamento delle perdite delle consociate estere anche ove residenti al di fuori del Regno Unito, non avrebbe potuto essere escluso neanche dalla vigente formulazione legislativa la quale, richiedendo soltanto che la maggioranza (e non la totalità) delle controllate fosse residente nel Regno Unito, non escludeva comunque il rischio paventato dal Fisco inglese (57).

Non costituiscono infine motivo di giustificazione ai sensi dell’art. 46 del Trattato né le perdite di gettito fiscale che si determinerebbero a seguito dell’eliminazione della clausola discriminatoria (58), né obiettivi di natura

Lankhorst-Hohorst, in Il Fisco, 2003, 1, p. 911 (punto 37). Si noti che la Corte di giustizia raramente utilizza l’espressione “elusione fiscale”, avvalendosi quasi esclusivamente di quella di “evasione fiscale” o di “abuso del diritto”. Si tratta tuttavia in ambedue i casi di espressioni inadatte alle fattispecie che è stata chiamata ad esaminare, le quali configurano tipici casi di “elusione fiscale”.

(56) Corte di giustizia, 17 luglio 1997, C-28/95, Leur-Bloem, in Raccolta, 1997, p. 4161 ss. Vedi anche Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit. (punti 42 e 62); Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst, cit., p. 911 (punto 37) dove si legge che “la normativa controversa non ha l’obiettivo specifico di escludere da un vantaggio fiscale le costruzioni puramente artificiose il cui scopo sia quello di eludere la normativa fiscale tedesca (…). Ora, tale situazione non comporta, di per sé, un rischio di evasione fiscale (…)”.

(57) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, cit., p. 1812, punto 27.

(58) Verkooijen, cit., punto 59 e Saint Gobain, cit., p. 13004, punto 50. In precedenza ICI, cit., p. 1812, punto 28.

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puramente economica derivanti ad esempio dalla volontà di incentivare l’investimento dei singoli in società aventi sede nello Stato che applica la disposizione discriminatoria (59).

5. Alcune considerazioni sulla normativa italiana in tema di redditi di lavoro dipendente.

Alla luce dei casi esaminati dalla Corte, e naturalmente nella consapevolezza che le pronunzie della Corte vanno sempre lette sia con riferimento allo specifico ordinamento al quale esse si riferiscono, sia alle modalità con le quali il giudice remittente prospetta le questioni, proviamo ad effettuare una breve verifica su alcune disposizioni del nostro ordinamento tributario.

Iniziando dal profilo della nozione di residenza fiscale, non si pongono problemi in relazione all’ipotesi, oggetto della sentenza Schumacker, dei soggetti non residenti i quali producano la quasi totalità del proprio reddito in Italia. L’ampia nozione di residenza accolta nell’art. 2 co. 2 t.u.i.r. appare invero sufficiente ad attrarre a sé tali fattispecie, dal momento che un soggetto che dovesse produrre la totalità (o quasi) del proprio reddito in Italia, potrebbe facilmente invocare l’esistenza del centro principale dei suoi affari ed interessi nel nostro paese.

Per quanto attiene, più specificamente, alla tassazione dei redditi di lavoro dipendente e dei redditi ad essi assimilati, l’art. 23, co. 1, lett. c) t.u.i.r., considera prodotti in Italia i “redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato”, mentre il successivo co. 2, lett. b) considera prodotti nel territorio italiano, se “corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti”, i “redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui alle lettere c), c-bis), f), h), h-bis), i) e l) del comma 1 dell’art. 50”.

Ora, la tassazione dei redditi di lavoro dipendente non presenta differenze tra soggetti residenti e soggetti non residenti, sia per quanto riguarda la determinazione della base imponibile, sia per quanto riguarda l’applicazione della ritenuta a titolo di acconto prevista dall’art. 24, co. 1 d.p.r. n. 600/73 e del conseguente regime della dichiarazione cui tali redditi sono sottoposti,

(59) Verkooijen, cit., punto 48.

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compresa l’applicazione della no tax area di cui all’art. 11, co. 1 t.u.i.r. e l’ulteriore deduzione prevista dal comma successivo.

Sussiste, invece, una discriminazione tra lavoratori dipendenti residenti e non residenti dal punto di vista degli oneri deducibili e delle detrazioni, dal momento che l’art. 24 t.u.i.r. riconosce ai non residenti soltanto alcune tra le fattispecie previste agli artt. 10 e 15 t.u.i.r., escludendo altresì le detrazioni per carichi di famiglia. Tale discriminazione deve tuttavia ritenersi giustificata, a motivo del diverso rilievo – sopra evidenziato – che la personalità dell’imposizione assume con riferimento ai soggetti residenti in Italia.

Più problematica è la situazione dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente previsti dall’art. 50, co. 1, lett. c-bis), t.u.i.r. (compensi per attività di collaborazione coordinata e continuativa, compreso l’esercizio dell’attività di sindaco, amministratore, ecc.), sui quali l’art. 24, co. 1-ter d.p.r. n. 600/73 prevede l’applicazione, ove percepiti da soggetti non residenti, di una ritenuta alla fonte a titolo di imposta nella misura del 30%. In tal caso, infatti, il non residente non può beneficiare della deduzione alla base prevista dall’art. 11, co. 1 t.u.i.r., né delle più favorevoli aliquote di imposta progressive, che sino all’importo di € 26.000 sono pari al 23%, con una discriminazione che si pone in evidente contrasto con i principi enunciati dalla Corte nel richiamato caso Gerritse. Sarebbe dunque necessario prevedere una opzione, per il soggetto non residente, per la tassazione in dichiarazione (60).

A qualche perplessità dà luogo anche la disciplina in tema di tassazione dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero. A tale riguardo, infatti, è noto che l’art. 3, co. 3. lett. c), che prevedeva l’esenzione per i redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero “in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto”, è stato abrogato per effetto dell’art. 5, co. 1, d. lgs. n. 314/1997, ritenendo il legislatore che anche i lavoratori dipendenti dovessero sottostare al principio del reddito mondiale previsto per tutti i soggetti residenti. Al fine di non penalizzare in modo eccessivo i lavoratori italiani all’estero, esso è stato peraltro sostituito con un nuovo regime impositivo che prevede, nei confronti dei soggetti che soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni e che prestano un’attività di lavoro dipendente all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, la tassazione sulla base di

(60) Vedi M. GRANDINETTI, La tassazione di artisti e sportivi dopo il caso Gerritse, in Dialoghi

di diritto tributario, 2004, p. 92; B.E. PIZZONI, Ancora in tema di trattamento impositivo differenziato tra soggetti residenti e non residenti: Gerritse (e Wallentin), cit., p. 208.

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retribuzioni convenzionali definite annualmente con decreto del Ministro del lavoro (art. 51, co. 8-bis t.u.i.r.).

Ebbene, tale imposizione su base convenzionale dovrebbe rivelarsi, in linea generale, più favorevole rispetto all’imposizione basata sui criteri ordinari. Tuttavia, ove ciò non dovesse accadere, il lavoratore potrebbe lamentare la violazione dell’art. 39 del Trattato, costituendo tale normativa una “restrizione” all’esercizio di una attività lavorativa subordinata in un altro Stato membro dell’Unione europea. Non va peraltro dimenticato che ad analoga conclusione potrebbe condurre la tassazione “standardizzata”, introdotta da tale regime, nell’ipotesi in cui si dovesse ritenere il lavoratore dipendente operante all’estero obbligato a dichiarare i redditi convenzionali anche nel caso di mancata percezione della retribuzione, tenuto conto della circostanza che non è previsto alcun correttivo per l’ipotesi in cui il reddito effettivamente percepito sia inferiore a quello convenzionale (61). L’esistenza di convenzioni internazionali nei rapporti con gli Stati membri, peraltro, non supera il problema, poiché tali convenzioni prevedono di regola il criterio di tassazione “concorrente” nel caso in cui vengano superati i 183 giorni lavorativi nello Stato della fonte, né esse pongono alcun rimedio al possibile effetto, derivante dalla combinazione di un imponibile interno convenzionale con un imponibile estero effettivo, del non pieno recupero della imposta pagata all’estero (62).

Infine, con riferimento ai redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero da soggetti residenti, al di fuori delle condizioni previste per l’applicabilità dell’art. 51, co. 8-bis t.u.i.r., la limitazione del credito di imposta (art. 23 co. 3 d.p.r. n. 600/73 e art. 165 t.u.i.r.) alla sola quota di imposta italiana corrispondente al rapporto tra redditi esteri e redditi complessivi, pur risolvendosi di fatto nell’applicazione della maggiore tra le aliquote dello Stato di residenza e della fonte (63), appare per il momento giustificata dalla giurisprudenza della Corte, che nel caso Gilly ha affermato che la maggiore imposizione “giuridica” che usualmente si determina a seguito dell’applicazione del metodo del credito di imposta deve ritenersi compatibile con gli artt. 39 e 43 del Trattato, in quanto naturale effetto della mancata armonizzazione dei

(61) Vedi Circolare Assonime, 16 marzo 2001, n. 17, in Guida al lavoro, 2001, n. 16, p. 50,

che si esprime in termini di “deroga” al principio di cassa; Circolare ABI, 24 aprile 2001, n. 16, par. 3 C; infra, le osservazioni di N. FORTUNATO, Il trattamento di fine rapporto, par. 7.5.

(62) Vedi Circolare Assonime, 16 marzo 2001, n. 17, cit., p. 52.

(63) Vedi, infra, P.L. CARDELLA, Il foreign tax credit.

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sistemi fiscali e, in particolare, delle aliquote di imposta (64). Tuttavia, come precisato nel caso De Groot (65), il meccanismo di calcolo deve garantire la piena fruizione delle deduzioni personali riconosciute ai soggetti residenti (66) (67).

6. Conclusioni.

Le considerazioni che precedono consentono a mio avviso di evidenziare un profilo di grande interesse, e in particolare che l’elaborazione della Corte di giustizia relativamente ai principi in tema di libertà di circolazione dei lavoratori, di stabilimento e di non discriminazione si dimostra di grande utilità per dare un nuovo impulso al completamento di quel processo di armonizzazione dell’imposizione diretta che, nonostante le conquiste in punto di legittimazione giuridica, non appare ancora pervenuto ad uno stadio apprezzabile.

E’ certamente vero che armonizzazione e non discriminazione si pongono su piani diversi: uniformità di trattamento di una stessa situazione in qualsiasi Stato membro in corrispondenza di un modello unico di tributo nel primo caso (68); uniformità di trattamento di cittadini e stranieri in ciascuno Stato membro in sé considerato nel secondo. E’ anche vero che il conseguimento della prima non assicura il raggiungimento della seconda, in quanto discriminazioni possono permanere anche dopo l’armonizzazione (69), e che l’eliminazione delle discriminazioni non garantisce l’uniformità delle disposizioni normative a livello comunitario.

(64) Sul punto, P. PISTONE, Il credito per le imposte estere ed il diritto comunitario: la Corte di

giustizia non convince, cit., p. 76 ss.

(65) Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-385/00, De Groot, cit., relativamente agli assegni periodici ed “una tantum” corrisposti al coniuge.

(66) Sul punto, A. VALAT, General Allowances and Home State Obligations under EC Law: Opinion Delivered in the De Groot Case, in European Taxation, 2002, p. 446.

(67) Sulla compatibilità con il diritto comunitario della disciplina italiana in tema di previdenza complementare, vedi infra P. PURI, Il lavoratore transfrontaliero e la previdenza complementare.

(68) Ma anche, come sottolineava C. COSCIANI, Problemi fiscali del mercato comune, Milano, 1958, p. 89 ss., modifica di alcune norme nell’ambito di determinati tributi o soppressione sic et simpliciter di tributi incompatibili con gli obiettivi del Trattato.

(69) Sul punto, P. ADONNINO, Il principio di non discriminazione, cit., p. 68.

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Non può tuttavia sottacersi l’ampio ambito di applicazione assegnato dalla Corte al principio di libertà di circolazione e di stabilimento, che finisce per colpire ogni disposizione che renda meno favorevole sia l’esercizio di un’attività lavorativa da parte di uno straniero (o di un non residente) rispetto al cittadino (o ad un residente) (discriminazione diretta ed indiretta), sia l’esercizio di un’attività lavorativa da parte di un proprio cittadino non residente (discriminazione “a rovescio”), sia infine l’esercizio da parte di un proprio cittadino di un’attività lavorativa in un altro Stato membro a condizioni meno favorevoli di quelle allo stesso accordate in caso di esercizio di detta attività all’interno del proprio Stato (libertà di circolazione dei lavoratori e di stabilimento).

All’oggetto proprio della non discriminazione si aggiunge dunque, assai rinforzata dalle recenti pronunzie della Corte, la parità di trattamento tra i cittadini di uno Stato a seconda che lavorino o investano nel proprio Stato oppure in un altro Stato membro, nella misura in cui tale parità assicuri il pieno esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato. Insomma, una parità tra i cittadini di uno Stato (nella scelta se lavorare o investire nel proprio Stato o in un altro Stato membro) che si aggiunge alla parità tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di un altro Stato membro (nel lavorare o nell’investire nel primo Stato). Resta dunque fuori esclusivamente la parità tra due cittadini ciascuno dei quali lavori o investa nel proprio Stato o i quali esercitino reciprocamente ciascuno nell’altro Stato, ma questo resta esclusivo dominio del processo di armonizzazione (70).

Per raggiungere questi risultati, molti ostacoli hanno dovuto essere abbattuti dalla Corte. Essa ha innanzitutto sistematicamente rigettato l’eccezione degli Stati membri riguardante la relativa competenza esclusiva in tema di imposizione diretta. Pur non mettendo tale assunto in discussione nei suoi fondamenti, la Corte ha infatti sottolineato che tale competenza deve pur

(70) Non può però sottacersi il rischio di una “involuzione” dei sistemi: non è infatti da

escludere che l’applicazione del principio di non discriminazione e del principio di libertà di circolazione o di stabilimento portino gli Stati ad eliminare le disposizioni più favorevoli per i soggetti residenti pur di non concederle ai soggetti non residenti che lavorano o investono nel territorio dello Stato o a quelli residenti che lavorano o investono in un altro Stato membro. Evidenzia, con riferimento a tale secondo profilo, che l’unico modo per evitare erosioni di gettito consiste nell’eliminazione delle disposizioni di favore, E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali, cit., p. 1833.

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sempre esercitarsi nel rispetto del diritto comunitario (71). Dall’altro, la Corte ha ripetutamente chiarito che il mancato completamento dell’opera di armonizzazione non esclude l’obbligo per ciascuno Stato membro di applicare il proprio sistema fiscale in modo non discriminatorio (72). Dall’altro ancora ha infine inciso sulla sovranità degli Stati membri a livello di trattati internazionali, che non possono né giustificare né creare trattamenti discriminatori.

I risultati raggiunti dalla Corte hanno prodotto tuttavia una conseguenza assai importante, consistente nel fornire un impulso alla modificazione delle disposizioni interne ai sistemi tributari dei singoli Stati membri incompatibili con il Trattato, che sta contribuendo a scardinare quella resistenza degli Stati membri che più è stata di ostacolo al completamento del processo di armonizzazione e che pertanto, in questa ottica, rende assai più agevole la possibilità che tale processo riprenda e si consolidi (73).

(71) Cfr. i casi Wielockx (cit., p. 2514, punto 16), Asscher (cit., p. 3124, punto 36), Futura Singer (cit., p. 2499, punto 19), ICI (cit., p. 1810, punto 19).

(72) Bachmann, cit., p. 280, punto 11: “Non bisogna infatti dimenticare che, in genere, sono i cittadini degli altri Stati membri quelli che, dopo aver occupato un impiego in Belgio, fanno ritorno nel loro Stato d’origine, in cui le somme dovute dagli assicuratori sono soggette ad imposta, e che non possono quindi compensare l’impossibilità di detrarre contributi, sul piano fiscale, con l’assenza di somme dovute dagli assicuratori. E’ innegabile che quest’inconveniente è dovuto alla mancanza di armonizzazione delle legislazioni fiscali degli Stati membri, ma l’armonizzazione non può essere eretta a presupposto per l’applicazione dell’art. 48 del Trattato” (corsivo nostro).

(73) Ricordo, a titolo di esempio, le conseguenze derivate dalla sentenza Schumacker, che ha condotto diversi Stati comunitari ad affrontare questa problematica dal punto di vista legislativo. Germania ed Austria, ad esempio, hanno previsto che il contribuente possa scegliere di essere ivi tassato su base mondiale – beneficiando quindi delle deduzioni personali – ove almeno il 90% del reddito sia stato ivi prodotto. La legislazione olandese, a decorrere dal 2001, applica invece un sistema analogo, ma senza una percentuale minima di reddito, eliminando la doppia imposizione attraverso un sistema di crediti d’imposta unilaterali. Sul punto, vedi F. VANISTANDAEL, Tax Revolution in Europe: The Impact of Non-Discrimination, in European Taxation, 2000, p. 3 ss. Anche le misure interne degli Stati per raggiungere gli obiettivi fissati dalle sentenze comunitarie hanno peraltro formato oggetto di sindacato da parte della Corte. Nella sentenza Gschwind (Corte di giustizia, 14 settembre 1998, C-291/97, in Riv. dir. trib., 2000, IV, p. 51 ss., con nota di P. PISTONE, Il credito per le imposte estere ed il diritto comunitario: la Corte di giustizia non convince), un cittadino olandese residente nei Paesi Bassi chiedeva ad esempio l’applicazione in Germania dello splitting, riservato dalla legislazione tedesca anche ai non residenti (in attuazione appunto della sentenza Schumacker), ma alla duplice condizione che almeno il 90% del reddito globale dei coniugi fosse prodotto in Germania e che il reddito prodotto nell’altro Stato non fosse superiore a 24.000 marchi. La Corte di Giustizia non ha accolto il ricorso, poiché la circostanza che il 42% del reddito dei coniugi fosse prodotto nei Paesi Bassi era tale da consentire a tale ultimo Stato di tenere conto della situazione personale e familiare dei contribuenti.