NEGAZIONISMO GIAPPONESE - Analisi di "what really happened in Nanking" di Tanaka Masaaki (bachelor graduation thesis)
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Corso di Laurea
in Lingue, culture e società dell’Asia
Orientale (Giappone)
Prova finale di Laurea
Negazionismo giapponese
Analisi di “what really happened in
Nanking” di Tanaka Masaaki
Relatore
Ch. Prof. Rosa Caroli
Laureando
Federico Tombari
Matricola 827367
Anno Accademico
2011 / 2012
要旨
この論文は日本歴史否認主義について書かれている。
中でも南京大虐殺について詳しく取り上げた。はじめに、
1937年の南京事件(南京大虐殺)について説 明する。
また、歴史修正主義と歴史否認主義の違いを書き、ピサン
チというベルガモ大学の先生の本を要約するつもりである。
次に、日本否認主義の独自性を明 らかにし、否認主義の田
中正明という作家の「南京虐殺の虚構」を分析する。この
分析では田中正明の本をショアーの否認主義の本と比較す
る。ピサンチ教授の二つの本を用い、ショアーの否認主義
を分析した。
最後に二つの結論を出す。一つ目はショアーの否認主
義の本と日本否認主義の本との共通点が多くあること、二
つ目は日本否認主義には強い独自性があり、そのような否
認主義は日本国のおかげで生まれるということである。
Introduzione: problemi semantici - gli avvenimenti di Nanchino del 1937
Innanzitutto mi trovo a riportare avvenimenti che non hanno ancora (?) una terminologia precisa e canonica,
mi trovo nell’imbarazzo dello studioso che rimane senza parole perché scegliendo l’una o l’altra definizione
rischia di scontentare sempre qualcuno.
Se il negazionismo di cui parlo fosse quello dell’olocausto la redazione di questo testo sarebbe molto
semplificata in quanto esistono sì due punti di vista ma uno è quello ortodosso e universalmente accettato,
l’altro è quello di uno sparuto gruppo di persone in un certo senso “emarginate” dal pensiero storiografico
corrente.
Il negare oppure no gli avvenimenti avvenuti tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938 nella ex capitale cinese
Nanchino è un inevitabile specchio politico/politicizzato che porta a porsi dalla parte della vittima cinese
(con le sue centinaia di migliaia di vittime) o dalla parte della vittima giapponese (demonizzata
ingiustamente per crimini mai commessi). Esiste una terza via, quella che ritiene che i crimini siano stati
commessi ma in minor numero rispetto a quelli teorizzati dalla “propaganda cinese”.
David Askew1 liquida la questione definendo gli avvenimenti come “Nanking jiken” (incidente di Nanchino)
perché economico dal punto di vista del numero dei caratteri seppure Takashi Yoshida2 lo definisce “NM”
(Nanking Massacre) economizzando ancora di più dal punto di vista testuale ma con una malcelata vena
polemica.
Un aiuto sulla scelta della terminologia mi viene data proprio dalla scelta giapponese: il fatto di
ridimensionare gli avvenimenti definendo il tutto “nankin jiken” (incidente di Nanchino) lo porta a
confondersi potenzialmente con il vero (?) “incidente di Nanchino” del 19273, magari poco famoso e passato
in secondo piano nella cronaca documentaria.
Decido quindi di scartare il termine “incidente” per le motivazioni scritte sopra, di evitare il termine
“massacro” perché immotivatamente patetico ai fini della mia narrazione: opto quindi per un neutrale (fino
ad un certo punto) “avvenimenti di Nanchino del 1937”.
Gli avvenimenti di cui parlo sono accaduti nel dicembre del 1937 quando l’esercito imperiale giapponese
giunge a Nanchino, ex capitale della Cina, conquistandola nel contesto della seconda guerra sino-cinese. La
conquista porta alla distruzione della città e alla morte di un numero non precisato di cinesi (militari e non).
Su questo avvenimento si fondano una serie di questione mai risolte.
Mentre dal punto di vista giapponese i fatti accaduti sono trascurabili se non mai avvenuti, le fonti cinesi
(propagandistiche secondo i nipponici) narrano di stupri a decine di migliaia, violenze indicibili, case
bruciate, corpi seppelliti o bruciati vivi, gare di uccisioni di civili cinesi fra soldati giapponesi e altre crudeltà
indicibili.
Come riportato magistralmente dal già citato Askew una caratteristica importante nel definire gli
avvenimenti di Nanchino è proprio la semantica e non mi resta che citare la sua interessantissima e arguta
lista ove viene messa al primo posto proprio la differenza di definizione degli avvenimenti: “incidente”
secondo i giapponesi (perché il numero dei morti non è suscettibile del termine “massacro”) e “massacro” o
“stupro” secondo i cinesi (i quali asseriscono che le vittime siano state almeno 250.000).
1 David Askew – New research on the Nanjing incident (http://japanfocus.org/-David-Askew/1729) 2 Takashi Yoshida – The Nanjing massacre. Changing contours of history and memory in Japan, China, and the U.S.
(http://japanfocus.org/-Takashi-YOSHIDA/2297) 3 Durante il marzo 1927 l’Esercito Rivoluzionario Nazionale cinese prende Nanchino e la città viene bombardata da navi da guerra straniere; moltissime imbarcazioni furono coinvolte tra cui alcune battenti bandiera inglese o americana.
Un’altra definizione controversa è nella seconda parte, cioè nel termine “Nanchino”. Taluni scelgono di
considerare la Nanking Safety Zone, ove si erano rifugiati e cinesi fuggiti dalla città, altri si riferiscono a
Nanchino e dintorni (scontato dire che i primi minimizzano il numero di morti mentre i secondi lo
massimizzano).
La durata degli avvenimenti è pure sotto questione: c’è chi afferma che il tutto sia durato poche settimane e
chi dice sia durato svariati mesi.
La parola “massacro” risulta faziosa secondo i primi perché indicherebbe sia un numero indicibile di morti
sia che i cadaveri erano di persone civili; per i secondi è l’unico aggettivo consono alla strage indiscriminata
perpetrata dai giapponesi.
Infine, naturalmente, c’è discordanza sul numero dei morti che va dai 20.000 dei primi fino ai 300.000 dei
secondi.
In parole povere le visioni ortodosse degli avvenimenti di Nanchino sono ben delineate in due filoni: i
negazionisti o riduzionisti e chi denuncia veementemente il massacro.
Il presente elaborato non vuole essere giudice parziale o analisi degli avvenimenti ma una comparazione
semiotico-storiografica fra scritti negazionisti degli avvenimenti di Nanchino del ’37 e scritti negazionisti
dell’olocausto secondo lo schema semiotico proposto nel libro “L’irritante questione delle camere a gas”
dalla professoressa Valentina Pisanty.
Mi si voglia perdonare la lunghezza (troppo ampia essendo un’introduzione, troppo corta essendo riassunti
dei fatti fondanti della Cina moderna secondo Askew) della premessa ma era necessario partire da una
narrazione sommaria degli eventi per arrivare ad un’analisi semiotica del come viene raccontato
l’avvenimento dal punto di vista giapponese.
01. Revisionismo e negazionismo
Il termine “revisionismo” benché sia oramai scaduto entro un’accezione pseudo-negativa non identifica
nient’altro che la naturale voglia di confrontarsi e di saperne di più rispetto al passato: così come si revisiona
una teoria fisica, astronomica (Galileo) o evoluzionista (Darwin) si può revisionare la storia, il che non vuol
dire escludere sistematicamente teorie precedenti ma costruttivamente migliorarle alla luce di nuove scoperte,
testimonianze, prove. La pratica revisionista in ambito storiografico è anzi auspicabile, credo. Il già citato
Galileo è emblematico: “Anziché arroccarsi ostinatamente su posizioni ereditate dalla tradizione precedente,
è disposto a mettere in gioco tali acquisizioni nel caso in cui si dimostri necessario4”, siccome la visione
astronomica aristotelica era oramai superata con l’avvento del cannocchiale Galileo ha revisionato la teoria
canonica del tempo. “Eppur si muove” diceva della Terra, io dico che è il revisionismo dotato della forza
della curiosità che fa muovere l’uomo sempre un passo più vicino alla verità (mai assoluta, purtroppo).
Se revisionare catalizza l’arrivo alla verità, il negare lo soffoca in un imbuto che se usato maldestramente
non setaccia le informazioni ma le interpreta unilateralmente secondo l’ideologia dello studioso. È questo il
caso della negazione tout court della shoah da parte di studiosi quali Bardèche, Rassinier, Faurisson,
Mattogno (per citare i più noti). Leggere la storia da un altro punto di vista è giusto, negare totalmente
l’esistenza di un avvenimento ben ed esaurientemente documentato è perverso.
Dice bene il professor Losurdo in una sua conferenza del 26 febbraio 1998 riguardo il revisionismo storico
quando lo definisce esaurientemente rispondendo alla domanda di una arguta studentessa:
Studentessa
Senta, ma se esiste una oggettività assoluta delle fonti come è possibile che possano coesistere
insieme due interpretazioni totalmente opposte riguardo ad un evento storico?
Losurdo
Io credo che noi dobbiamo ridefinire la categoria di revisionismo storico. In fondo ogni opera
storica non fa che reinterpretare il passato. E quindi, da questo punto di vista, tutti gli storici
sono revisionisti. In realtà noi per revisionismo storico dobbiamo intendere qualcosa di più
preciso, cioè una corrente che, ai giorni nostri, cerca di riscrivere la storia contemporanea e
soprattutto di relativizzare l'orrore del nazismo, della soluzione finale e anche del fascismo.
Questo è il problema che noi oggi dobbiamo affrontare.
La Pisanty nelle conclusioni generali ci dice anche che: “[...] la vicinanza temporale rispetto agli eventi della
seconda guerra mondiale rendeva inimmaginabile la loro negazione, laddove a distanza di decenni il senso di
sgomento che circondava la ricezione collettiva della Shoah si è attenuato, lasciando un certo margine di
manovra a chi avesse interesse a riabilitare il regime nazista.”5 Il che mi porta alla mente l’ormai celebre
capitolo di Daniele Luttazzi “Mentana a Elm street6” in cui viene citato un comico statunitense, Lenny Bruce,
il quale definisce la comicità come equazione di “tragedia più tempo”. L’intento parodistico negazionista
sarebbe perfetto dal punto di vista comico, il fatto che questi autori si prendano così sul serio fa crollare la
catarsi umoristica.
4 Citando la Pisanty la quale parla in generale dei revisionisti. Ho reputato calzasse a pennello questa definizione per il grande astronomo (V.Pisanty "L'irritante questione delle camere a gas"). 5 Pisanty, V. (1998) L’irritante questione delle camere a gas – logica del negazionismo, Milano, Bompiani, p. 135 6 In “La guerra civile fredda”, 2009.
La Pisanty li definisce “uno sparuto gruppuscolo”7 e benché retoricamente interessanti risultano oltremodo
faziosi e sterili. Ma come possono poche persone dalla mentalità in tal modo deviata ottenere tanta attenzione
dall’opinione pubblica e dal dibattito scientifico ufficiale? Solo il fatto di parlarne sembra quasi sanzionare la
validità della materia, perlomeno secondo i negazionisti. Rubo il titolo di Limes, nota rivista di geopolitica,
dell’edizione uscita a fine aprile 2012 “Media come armi” proprio perché l’arma su cui si basa
principalmente lo storico negazionista sono i media: un quotidiano, un telegiornale o solo un dibattito
televisivo ma anche internet, twitter, facebook... ma se mentre i primi vanno intortati secondo astute logiche
negazioniste per attuare polemiche sterili che avranno un’audience notevole i nuovi media internettiani sono
liberi e, teoricamente, incensurabili benché le idee balzane (diversi sono stati i tentativi tutti vani di oscurare
siti o opere negazioniste sul web).
Se invece il revisionismo così come il negazionismo proviene non da un gruppo di singoli studiosi ma da una
visione ortodossa della storia di una nazione abbiamo la diversa esperienza del negazionismo giapponese che
descrivo nel terzo paragrafo.
02. Valentina Pisanty e la sua opera sul negazionismo
Valentina Pisanty nasce a Milano nel 1969, accademica e semiologa italiana, insegna semiologia presso
l’Università di Bergamo. Studiosa di negazionismo e razzismo è comparsa più volte in televisione per parlare
dei negazionisti della shoah e su questo argomento ha pubblicato due libri (utilizzati in questo elaborato per
analizzare lo scritto di Tanaka Masaaki): “L’irritante questione delle camere a gas, 1998” e “Abusi di
memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la shoah, 2012”. Celebre tra gli studiosi dell’argomento il libro di
Carlo Mattogno “Da Cappuccetto Rosso ad Auschwitz” in cui analizza riga per riga e confuta dal punto di
vista negazionista ogni frase della Pisanty presente nel suo primo libro citato.
Le due opere della Pisanty uscite a distanza di 14 anni riflettono una riflessione non discontinua
sull’argomento negazionista, la differenza la spiega bene nella nota a pagina 13 de “Abusi di memoria”:
del negazionismo mi sono già occupata in Pisanty 1998. In quello studio analizzavo le strategie
interpretative e retoriche impiegate dai negazionisti per smontare i documenti storici che
attestano l’avvenuto sterminio. L’obiettivo che mi ponevo allora era, insomma, di portare alla
luce la natura paralogistica delle loro argomentazioni: “c’è del metodo nella loro follia?”, era la
domanda di partenza (la risposta era affermativa). In questo saggio, invece, mi interessa
considerare l’aberrazione negazionista come il sintomo più vistoso di una diffusa “ossessione
della memoria”
Come detto un metodo esiste eccome e si diffonde, a quanto pare, pure nel mondo nipponico come vedremo
in dettaglio nei prossimi paragrafi.
03. Negazionismo giapponese
Il Giappone ha perso la guerra, per questo motivo ha molto da farsi perdonare dalle nazioni che hanno subito
il suo imperialistico e sfrenato espansionismo. Sebbene le relazioni commerciali con la Corea e la Cina siano
fiorenti restano insanabili motivi d’attrito nell’ambito diplomatico delle relazioni internazionali (nonostante
l’ufficiale normalizzazione delle relazioni diplomatiche) che forse non troveranno mai una soluzione.
Il periodo coloniale ha fatto inimicare la Corea, l’espansionismo nel sud-est asiatico ha indispettito gli Stati
Uniti e gli stessi stati interessati e la penetrazione violenta in Cina ha portato ad un’avversione duratura.
7 Pisanty, V. (1998), p. 119
Il Giappone, come detto, deve farsi perdonare molte cose commesse durante la Guerra del Pacifico tra
espansionismo violento, massacri, esperimenti su esseri umani, crimini di guerra e traffico di prostitute8 (mi
sembra scontato far notare come questi avvenimenti siano negati o minimizzati dai giapponesi). In questo
elaborato vedremo in dettaglio gli avvenimenti di Nanchino del 1937, dal alcuni definito come “massacro”.
Il punto è che secondo la storiografia giapponese a Nanchino non è successo nulla per cui il Giappone
dovrebbe scusarsi né vergognarsi in alcun modo e questa opinione viene esemplarmente (secondo i canoni
negazionisti) spiegata da Tanaka Masaaki nel suo più famoso “What Really Happened in Nanking”. La Cina
non può perdonare una simile presa di posizione e le scuse di Murayama Tomiichi9 non bastano se ogni volta
che sale al governo un liberal democratico (da Nakasone a Koizumi sino a Ishihara Shintaro) viene negata a
livello istituzionale ogni responsabilità criminosa nel secondo conflitto mondiale o in particolare il massacro
di Nanchino10
.
L’opera di cui parlo esce negli anni ‘80 in pieno fermento nazionalista: il Giappone attraversa un periodo
sfrenato di crescita economica e la volontà di scrollarsi di dosso il “complesso della resa e dell’occupazione
militare” porta ad una “rivisitazione e rivalutazione di talune caratteristiche reputate sino ad allora come
limiti dei giapponesi11
”.
Ed è la storia passata che dice chi siamo nel presente, una macchia così scura datata solo 40 anni prima non
va via certo con un colpo di spugna, ci vuole una lavatrice (il movimento sociale-politico del nihonjinron)
che può, almeno agli occhi dei giapponesi, lenire o cancellare la macchia vergognosa.
Inoltre mi sembra necessario se non indispensabile riportare anche un fatto che ha fatto scalpore all’epoca,
non tanto in Giappone ma nei paesi oppressi durante la sua espansione coloniale. L’avvenimento viene ben
spiegato negli articoli della professoressa Rosa Caroli di due diversi convegni AISTUGIA: il primo “Recenti
sviluppi del revisionismo storiografico in Giappone – la nazione e l’altro” (atti aistugia XXVII) e “Le
tendenze revisionistiche nella produzione culturale giapponese” (atti aistugia XXII). Ciò di cui parlaoè la
controversia riguardante i testi di storia utilizzati nelle scuole superiori giapponesi approvati fortemente dal
governo in cui si omettono deliberatamente fatti criminosi antecedenti la Guerra del Pacifico per negare ogni
responsabilità dell’esercito imperiale nella seconda guerra mondiale. Questo emblematicamente fa capire
come la negazione giapponese non sia della singola persona o del singolo movimento ma dell’istituzione
nazionale nipponica tutta.
Ora vediamo in dettaglio l’autore dell’opera negazionista che prenderò in esame.
04. Tanaka Masaaki
Tanaka Masaaki nasce nella prefettura di Nagano nel 1911. Si laurea nel 1933 all’Accademia degli studi
asiatici. In età giovanile prende parte a varie associazioni per l’indipendenza delle nazioni asiatiche. Nel
8 Il famoso problema delle “comfort women”. 9 Murayama fu primo ministro del Giappone tra il giugno ’94 e il gennaio ’96, primo socialista a salire come capo del governo da 55 anni. Le scuse in questione si ebbero in tre date principali: 31 agosto 1994, 9 giugno 1995 e 15 agosto 1995 10 Maggio 1994, il ministro della giustizia Shigeto Nagano definisce il massacro di Nanchino come una “fabbricazione” (http://www.japantimes.co.jp/text/nn20120223a5.html); 19 giugno 2007, un gruppo di 100 liberal-democratici denunciano il massacro di Nanchino come falso senza prove di sorta; 20 febbraio 2012, Takashi Kawamura sindaco di Nagoya definisce il massacro di Nanchino come “probabilmente mai avvenuto” (http://online.wsj.com/article/SB10001424052970203960804577238802680649914.html); 24 febbraio 2012, Ishihara Shintaro governatore di Tokyo afferma di credere fermamente che il massacro di Nanchino non sia mai avvenuto (http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5gqqzO2hCm4p_W9kawUJsV85RS1RA?docId=CNG.55872017a52d4f3c1e40d17a3ebe2909.561). 11 Caroli R., lezione 12 di “storia del Giappone contemporaneo”, 2011.
1936 accompagna il Generale dell’esercito giapponese Matsui Iwane in un tour in Cina ove incontra Chang
Kai-shek in persona e altre personalità cinesi del tempo. Nel 1942 entra nell’esercito giapponese e diventa
crittografo di stanza a Shanghai. Nel 1946 torna in Giappone e diventare editore capo del quotidiano
“Nanshin Jiji Shinbun”. Allontanato dall’incarico per effetto delle purghe decise dall’occupazione americana
si trasferisce a Tokyo e comincia a lavorare per la “Nippon Seisan Kyōiku Kyōkai” (associazione per
incrementare la produttività attraverso l’educazione). Nel 1952 scrive un libro riguardante un giurista indiano,
Radhabinod Pal, il quale rappresentante dell’India nel Processo di Tokyo difese a spada tratta le persone
incriminate durante la sentenza (c’è un suo monumento nel Santuario Yasukuni a Tokyo). Tanaka lo
considerava come un padre. In seguito diventa lettore per l’Università Takushoku a Tokyo.
Attraverso il suo lavoro di critico lavorò per diffondere il giudizio di Pal in favore del Giappone,
propagandando la sua verità riguardo il conflitto e la successiva occupazione di Nanchino per raggiungere
l’indipendenza delle nazioni asiatiche e dissipare la percezione masochistica prevalente nel Giappone del
tempo12
.
La sua opera è unilateralmente rivolta a svelare verità sul Processo di Tokyo, su Nanchino e
sull’indipendenza delle nazioni asiatiche.
05. Analisi di “what really happened in Nanking” di Tanaka Masaaki comparandolo con scritti
negazionisti della shoah secondo schemi proposti dalla Pisanty
Quello che si prefigge l’elaborato è una comparazione testuale/semiotica di un testo storiografico
negazionista degli avvenimenti di Nanchino del ’37 con gli schemi dei testi negazionisti della Shoah proposti
dalla professoressa Valentina Pisanty nel suo “L’irritante questione delle camere a gas”.
Il terzo capitolo del libro della professoressa si intitola “le strategie discorsive13
” (p.111), in tale ambito viene
analizzato il modo in cui lo studioso negazionista “espone le proprie argomentazioni, cercando di renderle il
più convincenti possibile, magari occultando a fini retorici tutto il lavoro investigativo che ha preceduto la
formulazione dell’ipotesi finale” (p.111). Il paragrafo che m’interessa è il 2.2 il quale titolato “il paratesto” ci
descrive esaurientemente la modalità di esposizione delle argomentazioni negazioniste; il paratesto viene
definito dalla Pisanty come “l’insieme delle informazioni che contornano e accompagnano il testo vero e
proprio”. Proprio questo è interessante in quanto anche lo scritto giapponese ha molteplici punti in comune
con gli scritti negazionisti della Shoah benché ovviamente cambi il soggetto del discorso.
Vediamo ora di riassumere i vari punti proposti dalla professoressa Pisanty, spiegarli ed infine compararli
con lo scritto di Tanaka Masaaki.
05.1 - Autore e casa editrice
L’appartenenza di un testo ad un certo tipo di discorso, nonché il suo contenuto ideologico, trova un primo
riscontro nella casa editrice che pubblica l’opera e, ovviamente, nel nome dell’autore che lo pubblica.
Benché il tipo di casa editrice, nel caso delle pubblicazioni negazioniste francesi, attraversi trasversalmente
l’ideologia politica (dalla destra estrema alla sinistra radicale) il nome dell’autore non mente sul tipo di
discorso che si sta per apprezzare. Portando un esempio negazionista, se troviamo il nome di Faurisson
sappiamo già che si parlerà in maniera negazionista della Shoah, esulando dalla storiografia, se troviamo il
nome di Pratchett o Tolkien sappiamo che si tratta di un’opera di finzione di genere fantasy, se leggiamo
Gianni Rodari sarà quasi certamente un racconto per bambini.
12 La biografia è principalmente tratta dalla pagina finale del libro di Tanaka Masaaki, le ultime frasi che potrebbero risultare faziose sono di chi ha compilato la biografia nella versione inglese. 13 Tutte le citazioni sono tratte da questo capitolo (se non segnalato diversamente).
La casa editrice del testo tradotto è la Sekai Shuppan la quale viene ringraziata di cuore nell’introduzione
dell’autore. In realtà non è indicativa di alcun genere di opera, curioso però che cercandola su google
compare soprattutto il saggio di Tanaka Masaaki.
L’autore è Tanaka Masaaki che, come si può apprezzare dalla biografia, è un dichiarato negazionista al
tempo della pubblicazione del libro (1987).
05.2 - Titolo
L’identificazione di un’opera è affidata al titolo, soprattutto se si tratta di un saggio scientifico. Dando una
scorsa ai principali testi negazionisti possiamo notare che i titoli “giocano molto sull’opposizione tra verità e
falsità e sulle dimensioni complementari del segreto e della menzogna” (p. 121): “sono morti realmente sei
milioni di ebrei?”, “il mito dei sei milioni”, “la menzogna del XX secolo”14
.
La Pisanty ci fa notare l’intento polemico nell’uso di termini quali verità, falsità, segreto e menzogna. Un
normale saggio scientifico, storico o di altro genere, non ha bisogno di sanzionare l’autenticità delle
informazioni riportate nel testo, la cosa dovrebbe essere scontata. Da ciò si deduce una caratteristica
importante dei testi negazionisti cioè che tendono a definirsi in negativo, in contrasto con la canonica
storiografia normalmente accettata: “senza l’elemento antagonistico la loro identità di gruppo finirebbe per
essere sgretolata” (p.121).
Il testo giapponese non fa eccezione e ci presenta un titolo (e sottotitolo) perfettamente in linea con le
previsioni della Pisanty.
Il titolo è: “What really happened in Nanking” (cosa accadde realmente a Nanchino); il sottotitolo: “the
refutation of a common myth” (la confutazione di un mito comune).
Come possiamo notare il titolo vuole essere di per sé affermazione dell’autenticità dello scritto, il sottotitolo
in perfetto stile negazionista ci fa notare che non si parla degli avvenimenti di Nanchino e basta ma sarà
presente una comparazione con l’idea corrente, una confutazione della teoria normalmente accettata su
Nanchino. Dubbio e negazione, il titolo è perfetto per uno scritto negazionista che vuole attirare l’attenzione
e polemizzare aspramente contro l’ideologia corrente.
05.3 - Prefazione
“L’affiancamento del loro nome (gli autori della prefazione) a quello dell’autore del testo verrà inteso come
un’ammissione di complicità, di consenso o di comunanza di vedute”.
Gli scritti negazionisti hanno bisogno come il pane di legittimazione nell’ambito della cultura ufficiale, per
questo motivo spesso si cercano autori tradizionalmente accettati dalla comunità scientifica per avere una
conferma della veridicità del contenuto del testo che si va a leggere. La Pisanty propone in modo azzeccato
l’esempio della prefazione di Noam Chomsky ad un testo di Faurisson in cui il professore del MIT difende a
spada tratta la rousseauniana libertà di espressione negata a Faurisson, benché Chomsky non conoscesse a
fondo il lavoro del negazionista.
Nel testo giapponese il problema di Chomsky non si pone, l’autore della prefazione si definisce apertamente
a favore della tesi negazionista. In due paginette scarse Kobori Keiichiro, Ph.D. e professore emerito
all’Università di Tokyo (Tanaka Masaaki non è un professore, Kobori invece sì, da qui la possibile
accettazione della tesi nella comunità scientifica) si dilunga in un commento su quale sia il lavoro dello
storiografo e cosa dovrebbe o non dovrebbe fare per poi passare ad un’accanita difesa dello scritto
negazionista di Tanaka screditando il celeberrimo Processo di Tokyo (1946-’48) che aveva accusato e
condannato vertici giapponesi per gli avvenimenti di Nanchino del 1937 e definendo a chiare lettere il
massacro di Nanchino come un’invenzione15
senza troppi giri di parole. Inoltre definisce come colpevoli
della menzogna non solo i cinesi della propaganda ma anche gli alleati che hanno messo in piedi il Processo
14 Ho preferito per comodità tradurre i titoli che la Pisanty elenca come esempio. 15 [...] they manufactered the “Nanking Massacre” (p.II); […] the creation of the “Nankin Massacre” (p.III);
di Tokyo. Nomina l’aprile 1952 (fine dell’occupazione alleata) come punto di partenza della ristorazione
della libertà di parola e quindi nomina una “naturale” ondata di dibattiti riguardanti l’incidente di Nanchino.
Infine afferma di aver apprezzato fra tutti lo scritto di Tanaka Masaaki16
, definito come pioniere della ricerca
della verità sui fatti di Nanchino.
05.4 - Introduzione
Non di rado gli scritti negazionisti hanno introduzioni dell’autore stesso il quale presenta una sorta di
“avventura cognitiva” nel quale l’autore parte da una situazione di ignoranza per poi passare a sospetti verso
la storiografia ufficiale fino ad una conversione alla tesi negazionista della stessa. La Pisanty ci narra le varie
fasi di questa trasformazione che non sto a riportare qua poiché nel testo negazionista di Tanaka Masaaki
questa trasformazione viene meno, la ragione penso sia dovuta al fatto che questo non è stato il primo scritto
su Nanchino dell’autore ma soprattutto, essendo una introduzione alla seconda edizione, egli trova più giusto
spiegare non perché scredita la storiografia ufficiale su Nanchino ma perché è stata pubblicata una seconda
edizione in lingua inglese.
L’avvenimento che ha portato alla decisione di una ri-pubblicazione di questo libro è stata l’uscita de “The
rape of Nanking” (lo stupro di Nanchino) di Iris Chang il quale attesta con foto e documenti la responsabilità
giapponese negli avvenimenti di Nanchino del 1937. Quale occasione migliore per rispolverare un tomo che
afferma il contrario? Vorrei ricordare, come ci fa notare spesso anche la Pisanty nei suoi due libri sul
negazionismo, che i negazionisti sono abilissimi nel cavalcare l’onda della pubblicità mediatica quindi ogni
minima occasione che possa portare un poco di pubblico in più viene colta al volo. Il libro dell’autrice sino-
americana ha fatto sobbalzare una nazione intera, il Giappone, il quale (perlomeno nell’ambito liberal-
democratico) ha rifiutato le accuse proposte dal libro su Nanchino. Il problema però non era coinvolgere un
pubblico giapponese già conscio, in virtù di un’innata tendenza nazionalista dovuta ad un attaccamento alla
bandiera in termini neoconfuciani, ma coinvolgere un pubblico più vasto proprio perché “The rape of
Nanking” era stato pubblicato in lingua inglese grazie al fatto che l’autrice era americana di origini cinesi.
05.5 - Rappresentazione dell’avversario
“Si assiste a una spersonalizzazione dei sostenitori della storiografia ufficiale” proprio perché considerate
pedine di un complotto ordito dall’alto. Talvolta comunque la cancellazione della soggettività degli storici
della cosiddetta storia ufficiale viene lasciata da parte nel momento in cui si vuole polemizzare apertamente
con una persona specifica con ideali contrari a quelli dello scrittore (si veda Mattogno e il suo libro redatto
apposta contro un’opera della Pisanty).
Nello scritto giapponese esiste proprio una spersonalizzazione quando si parla di fatti considerati normali
dalla comunità accademica ma poco consoni alla situazione secondo i negazionisti. È questo il caso del
primo capitolo intitolato “defining ‘massacre’” che parte con un “some refers” (notare che non è una frase
presa a caso ma proprio l’incipit del libro). “Some” indica un non ben precisato gruppo di persone, in questo
caso si fa riferimento ad una comunità di storici ufficiali che “definiscono gli avvenimenti di Nanchino come
‘massacro’”. In seguito Tanaka esporrà la sua teoria per cui nessun massacro è avvenuto a Nanchino proprio
perché nessuno parla di massacro di Iwo Jima (27.000 morti). Tanaka scriverà più avanti che secondo la
storiografia ufficiale i morti di Nanchino furono 300.000 e non poche decine di migliaia come i negazionisti
affermano.
Invece nel capitolo 4 intitolato “the ‘mountains of dead bodies’ that no one saw” Tanaka riporta nomi e
cognomi di persone che secondo lui hanno testimoniato il falso, persone contro cui scagliare il proprio
disdegno negazionista: Xu Chuanyin e Searle Bates, entrambi testimoni al Tokyo Trial. Soprattutto il
secondo viene tacciato di essere doppiogiochista dal momento in cui in un’intervista ad un quotidiano
16 Quella presa in esame e tradotta in inglese è la seconda edizione del libro pubblicata nel 2000 (la prima edizione era del 1987.
giapponese fatta nei giorni degli avvenimenti di Nanchino egli pareva allegro e pacioso mentre durante il
Tokyo Trial espose e contornò immagini violente e raccapriccianti. Tanaka dimentica di nominare la censura
giapponese che esisteva in quel tempo, soprattutto su temi delicati come la guerra.
Nel capitolo 9, invece, un professore americano, tale Lewis S.C. Smythe, viene citato senza problemi
essendo fautore di una ricerca metodologicamente “scientifica e razionale” che arriva ad un totale di morti, a
Nanchino tra il ’37 e il ’38, nettamente inferiore al totale del Tokyo Trial, si parla in totale di circa 10.000
persone tra quelle uccise, ferite e “portate via” e solo l’1% di queste è a causa delle violenze perpetrate dai
soldati dell’esercito imperiale giapponese.
05.6 - Fotografie
Ho voluto lasciare l’ultimo paragrafo proprio alla questione delle fotografie perché oltre al libro di Tanaka
Masaaki (che dedica alle fotografie di Nanchino il capitolo 17) volevo citare anche un altro celebre scritto
negazionista su Nanchino, si tratta di “Higashinakano, Kobayashi, Fukunaga - Analyzing the photographing
evidence of the Nanking massacre”: Higashinakano non è nuovo all’argomento fotografico, difatti viene
citato una sua precedente opera proprio nel capitolo di Tanaka.
Nel capitolo di Tanaka Masaaki vi si trovano due tipi di fotografie: quelle false (prese da raccolte
fotografiche di autori singoli) le quali vengono analizzate e viene data la ragione della falsità e quelle vere
(provenienti dall’Asahi Shinbun, uno dei maggiori quotidiani giapponesi, ovviamente soggetto alla censura
del tempo) le quali vengono portate a prova della veridicità dell’argomento trattato nei capitoli precedenti.
Proprio per il fatto che Tanaka non si dilunga più di tanto ma porta l’esempio fotografico solo come prova
immediata del non avvenimento dei fatti di Nanchino, vorrei citare anche l’opera di Higashinakano.
Higashinakano, professore all’Asia University, è anche lui un famoso negazionista del massacro di Nanchino,
celebre soprattutto per le sue veementi critiche al libro di Iris Chang “The rape of Nanking” nella quale opera
riscontra pesanti errori che secondo lui inficiano la veridicità del libro. Lungi dall’analizzare testimonianze o
documenti egli s’interessa soprattutto di analisi di fotografie con comparazioni varie e ricerche.
Il libro è lungo e dettagliato, pieno di immagini dell’epoca con spiegazioni e commenti. Non voglio
analizzare propriamente il libro ma solo citarlo per dovere di completezza e inoltre vorrei qui riproporre il
titolo del capitolo finale: “non photographs can stand as viable historical evidence” (le fotografie non
possono essere usate come valida testimonianza storica) perché manipolabili.
Nella conclusione ci viene spiegato da Higashinakano che non c’è modo per verificare al 100% l’autenticità
delle foto il che dovrebbe presupporre, secondo la logica negazionista, che sono false (falsus in uno falsus in
omnibus, motto latino caro ai negazionisti).
Conclusioni
Il presente elaborato mi ha portato sostanzialmente a due conclusioni: la prima è la comunanza di tratti tra le
opere negazioniste giapponesi e quelle della Shoah; la seconda riguarda invece una curiosa quanto
importante peculiarità del revisionismo nipponico.
Il revisionismo storico ha due accezioni ben delineate in questo saggio: la prima riguarda un ampliamento
della conoscenza di un determinato fenomeno rivoluzionando o solo aggiungendo a teorie precedenti, la
seconda invece è inerente allo scardinamento di una teoria formulata in passato attaccandola dogmaticamente
facendosi portavoce di un’ideologia ben precisa (filonazista nel caso della Shoah, nazionalista in quello
giapponese).
Inoltre, i fatti solitamente in via di revisione dogmatica sono avvenimenti storici molto importanti: in questo
saggio si parla di Shoah e Nanchino ma gli spunti minori sono innumerevoli.
In questo studio ho deciso di prendere in esame un testo negazionista giapponese scritto da uno dei più
famosi autori revisionisti nipponici, Tanaka Masaaki, e l’ho storiograficamente spiegato e semioticamente
comparato ad un felice lavoro della professoressa Pisanty la quale ci dà una traccia utile sui tratti in comune
delle opere negazioniste della Shoah.
Benché il saggio di Tanaka abbia peculiarità inevitabili, trattando di un avvenimento totalmente diverso dalla
Shoah, non ha comunque disatteso la previsione fatta all’inizio di questo percorso: la professoressa Pisanty
ha analizzato e studiato scritti negazionisti della Shoah mentre in questo elaborato ho esteso la sua opera
anche ad uno (in realtà due, contando quello fotografico) appartenente alla corrente nipponica.
Se i punti in comune, come visto, sono molteplici, una differenza è invece importantissima e degna di
attenzione: mentre il negazionismo della Shoah, benché sempre in crescita, è rappresentato da persone
singole, il negazionismo giapponese è supportato da un’intera istituzione, quella nipponica, che tramite il suo
potere (libri di testo, persone di spicco nella politica) tende a cancellare alcuni avvenimenti dalla memoria
storica giapponese, perlomeno nelle generazioni che non hanno più legami diretti con l’espansionismo
giapponese in Asia Orientale. La mia opinione è che il tema della seconda conclusione non sia stato ancora
analizzato a dovere (perlomeno in lingua italiana) e potrà essere spunto di future ricerche e approfondimenti.
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