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Page 1: Incipit di "Come un'eclissi solare"

Come un’eclissi solare

David Valentini

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Prologo

Quando l’immagine di Alberto mi si para davanti, il mio braccio – inconsapevole prolungamento di un atavico istinto di conversazione – colpisce la tazzina di caffè abbandonata sul tavolo. Devo bloccarla, o si frantumerà a terra e spargerà cristalli di porcellana e onde sonore in giro per la strada umida e cosparsa di cicche. Volevo mantenere l’anonimato ma questo gesto sta per tradirmi. Osservo con occhi allucinati il lento scorrere della tazzina e dentro di me lancio un urlo silenzioso. Lui se ne accorgerà di sicuro. Non era così che doveva andare,

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con il caos provocato da una tazzina frantumata. Sospesa nel tempo, mi osserva beffarda. Ma lei non era prevista quando ho messo piede fuori dalla stazione Tiburtina in questo affollato mattino di dicembre. Non era prevista, ovviamente, neanche quando ho preso il treno da Fiumicino, quella carcassa mobile fatta di sedili consumati, di scritte sulle pareti, di controllori svogliati. E men che mai ne pregustavo la maledetta presenza mentre fissavo il mondo fuori dagli oblò, sull’aereo da Heathrow.

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Capitolo 1

Stamattina ero a Londra, nel letto di piume, abbracciato a Rachel. Elisabeth fra noi, una testolina bionda nell’azzurro delle lenzuola.

Appena giunto alla stazione, prima di prendere il treno per Roma, avevo sentito i nervi dello stomaco contrarsi e tutti i miei vecchi tic e nervosismi tornare a galla come una pallina da golf finita nello stagno. Ci avevo provato, davvero, a combatterli, a ricacciarli nel fondo della coscienza. Avevo ceduto subito, però, quando il mio sguardo si era posato sui cantieri in costruzione, sui

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fumi verdi e grigi, sulle folle rumorose del piazzale della stazione Tiburtina.

Ogni volta che torno a Roma riprendo a farmi del male con quegli orribili vizi. Ogni volta che torno a casa, poi, mi ritrovo qualche chilo addosso e dei cerchi neri intorno agli occhi che devo eliminare facendo yoga o portando le mie due ragazze all’inSpiral Cafè di Camdem Lock o in un Pret a Manger.

Ancora una volta avrei dovuto purificarmi dalle secrezioni venefiche di quella città. Dai suoi miasmi, dal suo fetore. E dire che, come si fa con un’amante perduta, un tempo ne sopportavo i difetti. Era per me così debole e indifesa dinnanzi al tempo implacabile che provava in tutti i modi a deturparla! Oggi invece non tollero il suo fiato: ogni sua voce è una pugnalata che vorrei rispedirle contro, la forza moltiplicata dal potere dell’odio represso e accumulato.

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Due ore di aereo, un ritardo all’arrivo per problemi di pista e quasi un’ora a bordo di un treno vecchio quanto il mondo – i sedili malconci e spesso impregnati di materiale non ben definito – avevano fatto sì che il mal di testa, mio compagno perenne, tornasse a bussare alle tempie, accogliendomi con un caloroso benvenuto all’uscita della stazione. Insieme a lui, suoni e odori mai scordati avevano subito urlato: “Bentornato!”, con tanto di striscione: “Ti siamo mancati?”.

“No”.Così, già con l’astio nelle vene, mi ero

ritrovato catapultato sul grande stradone consolare, immerso nel traffico quotidiano. Una valigia e un cappotto di finta pelle mi avevano fatto compagnia, mentre il reflusso gastrico della stazione sputava sul grigio il verde delle facce colleriche della gente. Avevo aperto il pacchetto di Chesterfield

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appena comprato e ne avevo accesa una per riempire i polmoni di quel sapore morbido e avvolgente. Un colpo di tosse mi aveva sorpreso, disabituato al fumo. Avevo percepito il volto contrarsi, farsi duro, spigoloso. Tra tutti i giorni che avrei potuto scegliere per tornare a trovare la mia famiglia, avevo beccato proprio un venerdì di sciopero dei mezzi pubblici: l’eterno dramma per i pendolari romani, un cubo di Rubik a milioni di facce da risolvere a occhi chiusi e mani legate. Se avessi aspettato qualche stakanovista dell’ATAC per arrivare a casa dai miei, a pochissimi chilometri da qui, avrei impiegato ore, immerso tra gli insulti e le bestemmie. Già lo sentivo l’ingorgo vicino, la cacofonia del concerto meccanico. Centinaia di pazzi chiusi nei loro cubicoli con il riscaldamento al massimo, ferventi come gelatine molli, intenti a scrivere al mondo che

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oggi era un’altra giornata di merda, a chiedersi che motivo avessero gli autisti per scioperare, a ribadire che c’era troppa gente in macchina e a ripensare che la guida non era sportiva come nelle pubblicità: una scogliera vuota, un’autostrada solitaria e solo un unico, fiammante bolide sparato a centocinquanta all’ora. Già la sentivo la preghiera di milioni di voci che chiedevano solo di poter tornare a casa per lanciarsi davanti alla TV e disattivare la batteria cerebrale, almeno per un pochino. Almeno per una vita intera.

La nausea.La Chesterfield, bruciata quasi fino al filtro,

scottava fra le mie labbra. Dimentico subito delle abitudini acquisite da nordeuropeo, l’avevo lasciata cadere a terra, osservando la scia leggera di fumo compiere acrobazie voluttuose nell’aria, finché l’ultimo bagliore

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rossastro aveva incontrato l’umido piastrellato della stazione esterna. Mi ero accorto dopo un istante del secchio vicino a me ma ormai il danno era fatto. Avevo calpestato la cicca, percependo il sibilo frizzante della sua morte.

“Welcome back home, Italian man”.Alzato lo sguardo, i miei occhi erano stati

stuprati dalla macabra scena di quattro carcasse rosse di autobus incastrate tra le lamiere congelate. Quando una di queste si era aperta per accogliere gli animali da salvare dal diluvio universale, gli starnazzi incendiari della gente avevano iniziato a scotennare l’autista, chiedendogli perché l’autobus ci avesse messo un’ora per arrivare e dove fossero quelli che avrebbero dovuto controllare gli zingari che si fregano i cellulari. Perché non avevano mai voglia di lavorare, come facevano loro quand’erano

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giovani, quando il pane si faceva a casa e tutto era più bello. Era colpa di quegli autisti sfaticati se avrebbero fatto tardi per pranzo, e dire che c’era tanta gente che aveva voglia di lavorare!

Non ce la potevo fare. Avevo voltato le spalle alla disperazione e a passi svelti mi ero allontanato. Avevo torturato il Nokia, pigiando con forza sui tasti e sperando in una benedizione divina.

«Che palle!» mi aveva accolto Natalia nella bufera di suoni. «Dai, sono appena arrivata a casa, mamma e papà sono di là con Sergio e i bambini. Dove sei? Non puoi tornare per conto tuo?».

«Hi sweet sister, I’m pretty good today, thanks for asking. What about you?».

«Sto bene ma non fare lo stronzo e parla italiano!».

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«Stavo giocando, datti una calmata, scema. Sono alla stazione ma qui è il delirio. E non posso tornare per conto mio perché oggi c’è sciopero».

«Ah, giusto. E come sei arrivato alla stazione dall’aeroporto?».

«Dio ascolta le nostre preghiere: il bellissimo treno dall’aeroporto funzionava, con quello che costa! Il problema sono le metro e i bus. Dovresti saperlo che bastano due gocce d’acqua e uno sciopero per bloccare tutto».

«Okay, okay, vengo. Che rottura però! Devo portarti un ombrello? Ha piovuto all’aeroporto?».

«No, tranquilla. Basta che mi eviti questo caos, ti prego. Non ci sono più abituato».

«Sì, va bene. Mi devi un favore, e ti costerà caro! Fra una quarantina di minuti sarò da te, spero».

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«A dopo, scema».Non era per niente entusiasta di uscire di

casa con questo freddo soprattutto perché, ne ero convinto, la casa doveva essere piena di profumi invitanti. Mamma mi aveva promesso cannelloni ricotta e spinaci e timballo di patate. Un ottimo benvenuto, decisamente più accogliente.

Per colpa di quei pensieri la fame aveva iniziato a farsi sentire, e oltretutto avevo una quarantina minuti da buttare. Mi ero guardato intorno, trovando la stazione addobbata con stelle e scritte di auguri. Perché loro desideravano veramente che tu – proprio tu, e nessun altro! – passassi un buon natale e un felice capodanno. Avevo cercato un bar, per prendere qualcosa di caldo prima di morire assiderato. Avevo scansato masse isteriche che, senza guardare, correvano ovunque in preda al tempo che se le portava

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via. Cercavano di evitare le pozzanghere melmose, in bilico tra pacchi di regali incartati e nastri colorati e luccicanti. Offerte tre per due, sconti eccezionali e promozioni imperdibili affollavano i negozi vuoti. Aromi di kebab appesi e cibi tandoori bruciati completavano lo strano quadro, che rendeva questa parte di città molto simile a decine di altre che avevo visitato negli anni. Roma, la città eterna e che non dorme mai, si era svegliata di malumore stamane. Ne avevo osservato lo sguardo vacuo, ne avevo annusato il profumo da due soldi, da puttana d’alto bordo. Era in depressione cronica: gli psicofarmaci dai mille colori non bastavano a tirarla su, e le crepe delle strade non si sarebbero riempite col botulino. Sembrava destinata a una lenta e agonizzante vecchiaia.

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Avevo ordinato un caffè e una cioccolata calda nel bar meno squallido della zona, gettandomi sulla sedia mezza arrugginita.

«Con panna, per favore».Due margherite e qualche altra pianta

azzurra mi osservavano da un vaso di terracotta lungo e sbeccato. Avevo seguito il percorso di una goccia scendere sinuosa da un petalo, lenta come il tempo, portando con sé uno strato di fumo incrostato. Dopo qualche minuto il caffè e la cioccolata erano arrivati in una bella tazza Eraclea dal colore caldo, insieme allo scontrino. Avevo sperato che quei cinque euro fossero ben spesi, avendo convertito poche sterline che sarebbero dovute bastare per i prossimi quattro o cinque giorni. Avevo buttato giù il caffè in un solo colpo, e subito il sapore amaro e il profumo confortante mi avevano avvolto come un abbraccio estivo, facendomi

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scordare il fastidio che mi avvinghiava da dietro. Le mie labbra si erano incurvate appena. Avevo sentito il desiderio di abbracciare papà, parlargli dei miei studi sui centri emotivi dell’encefalo; baciare mamma, dirle che le volevo bene, mostrarle le foto di Elisabeth addormentata nel mio letto col pigiama verde con le orecchie da rana. Avrei rivisto mia sorella e i miei nipoti, che non vedevo da sei mesi. Loro sì che mi erano mancati, l’ansia di rivederli mi divorava.

E lui era lì dietro di me, a un tavolo di distanza: Alberto e il suo regalo dal passato mi aspettavano a pochi passi ma non ne avevo ancora coscienza.

Avevo alzato lo sguardo dalla tazza di caffè, lasciando quella di cioccolata a intiepidirsi appena. Intorno a me un sommozzatore urbano era per metà infilato dentro un cassonetto, ne tirava fuori stracci e un gioco

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da tavola ancora buono. Magari un regalo per il figlio, per fargli vivere un Natale fantasma.

Per quanto non amassi tutto ciò, era lì che, quando avevo mollato tutto per i cieli bassi di Londra e le aule dorate del dottorato, avevo lasciato un frammento di me – tanti frammenti di me, a dire il vero. Un microscopico pezzo di pelle, di capelli o di ossa per ogni volto familiare che non vedevo più nella quotidianità, che non mi salutava la mattina quando mi alzavo e non beveva con me una birra fredda a San Lorenzo, tra le centinaia di commenti su una partita andata male e gli insulti verso il governo che alzava le tasse. La mia vita era continuata altrove, in altri lidi mai visti e ora conosciuti; altri volti e altri nomi mi riscaldavano nel quotidiano, come quella dannata tazzina. Altrove avevo conosciuto, amato e odiato persone che come me avevano lasciato pezzi di loro stessi a

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casa, in luoghi lontani e dai nomi esotici – Istanbul, Hanoi, Laos. Come puzzle incompleti, avevamo cercato di incastrarci a vicenda, martellando le facce nuove su quelle vecchie, tentando di comporre un collage di emozioni, sentimenti e volti. La fortuna e l’audacia avevano trasformato la prospettiva di un’esistenza part-time in una vita a tempo pieno. Avevo avuto la possibilità di continuare il mio percorso accademico, e questo era molto più di quanto potessi sperare in questa fogna dove al massimo avrei potuto sguazzare fra i liquami del passato e l’olio inquinato di un Mc Donald’s.

Molti dei libri e dei quadri che avevo nella mia stanza da ragazzo ora riempiono le pareti della casa londinese, insieme ad altri arrivati in seguito.

Ma… cosa allora?

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Avevo assaggiato una cucchiaiata di cioccolata. Non male.

I dipinti di Rachel, con cui aveva sfogato il dolore per la morte del padre e l’angoscia per il lavoro perduto – e per fortuna subito ritrovato – costellano i muri altrimenti spogli. Il più bello, My dreadful love, ci osserva dal soffitto ogni volta che ci svegliamo. Due chiazze di colore – lei giallo, io nero – avvolte e disciolte l’uno nell’altra. Il suo regalo per il nostro quarto anniversario. Il mio era stato un banale anello. Che pena.

Però… Ecco, sono le anime vaganti che s’incontrano nei primi venti anni di vita che restano attaccate dentro come un nuovo strato di pelle. Non si staccano, neanche quando appassisce il ricordo e lo si gratta via per il prurito. Ancora oggi faccio fatica a comprendere alcune battute troppo sofisticate, dette in una lingua che non ha

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sentito pronunciare le mie prime parole. Persino l’insulto biascicato dal poveraccio emerso dai rifiuti è per me più comprensibile di certe sciorinate irlandesi o scozzesi.

Il bar era affollato. La combinazione di sciopero dei mezzi pubblici e spese natalizie aveva portato la gente ad ammucchiarsi in posti caldi, come criceti. Il freddo aveva dato corpo all’inquinamento e ai malumori in quel grumo di catrame sopra di me, che sovrastava tutto e tutti. Se avesse dovuto piovere di nuovo, sarebbero cadute giù bestemmie. Infossato in questi pensieri, la cioccolata era diventata prima tiepida e poi fredda, e quel che ne restava era coperto di una patina molliccia e “budinosa”. Mi aveva disgustato. La panna, raggrumata qua e là come nuvole di vomito, era un orrore indescrivibile. Lo stomaco mi si era serrato come un castello e, ne ero sicuro, si sarebbe riaperto solo con i

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cannelloni di mia madre. Avevo spinto via la tazza lontano e buttato giù mezzo bicchiere d’acqua gelata. Dalla valigia avevo tirato fuori The Solitude of Prime Numbers, Edizione Penguin, acquistato all’aeroporto di Heathrow. Leggerlo in inglese mi aveva fatto sentire uno straniero, e la traduzione sembrava perdersi parecchio delle sfumature originali. Restava comunque un gran bel libro, adatto al mio umore.

Uno sputo di vento aveva fatto volare via lo scontrino usato come segnalibro, che era andato a perdersi in una pozzanghera verde e stantia per poi mescolarsi in un gruppo di foglie che, come piccole pecorelle vermiglie, si accoccolavano ai lati delle strade. Lo avevo guardato allontanarsi.

La lettura risultava storta e forzata. Qualcosa nell’aria sembrava distorcere le parole e una risata femminile mi aveva

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distratto per l’ennesima volta. Dietro di me due ragazze stavano vedendo un video su un iPhone, qualcosa che aveva a che fare con una capra che belava. Vicino a me era passato un signore che urlava al telefono – non riusciva a trovare quel maledetto videogioco del cazzo, quello in cui bisogna sparare ai nazisti – e mi ero ricordato d’improvviso che sì, in Italia si urla sempre al telefono. È un’abitudine che non muore mai, e che mi aveva fatto vincere più di un’occhiataccia nei primi mesi abroad.

Rammento quando, in un ristorante in Croazia con degli amici ormai una vita fa, ci guardammo intorno per constatare che, nonostante il locale straboccasse di turisti, nell’aria troneggiava un totale silenzio. Le persone parlavano a voce così bassa da sembrare sordomute.

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Dietro di me la capra belava e la ragazza rideva, fra le due notavo una certa somiglianza. Mi ero voltato, sentendo ancora nell’aria una distorsione magnetica e rumorosa. Un distinto signore vicino a me leggeva il Corriere, altrove una giovanissima coppia si scambiava sguardi languidi cibandosi vicendevolmente.

Anni fa, tra le pile di libri per la tesi, lessi che esiste un’intima connessione tra lo scambio di baci fra innamorati e quello di cibo che avviene tra madri e figli nelle altre specie animali. Baciarsi sarebbe dunque una regressione infantile verso l’alba della specie.

Avevo ripensato a Rachel ed Elisabeth, che mi avrebbero raggiunto neanche ventiquattr’ore dopo col volo del pomeriggio. Bambini. Avevo sorriso pensando alla mia ranocchia.

Mi ero girato verso un altro tavolo.

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E il mio cuore aveva perso un battito.Subitaneo come il big bang, il sangue era

sparito dalle mani ed era corso giù, lontano, verso le gambe. Il braccio aveva fatto uno scatto, colpendo la porcellana della tazzina. Un atavico riflesso accompagnato a uno schizzo cardiaco. Il corpo si era preparato alla fuga, pur in assenza di pericolo.

Non c’erano predatori nell’affollato bar o nei pressi della stazione. Nessun pericolo fra le strade, il traffico congestionato impediva qualsivoglia corsa. La tazzina aveva rumoreggiato sul tavolo argentato, scivolando verso l’orlo. Niente di razionale avrebbe potuto causare quella reazione di terrore; eppure il mio corpo aveva captato qualcosa nell’istante in cui mi ero voltato e aveva pensato di reagire così.

Agitazione. Ansia.

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Terrore.Non la capra o la ragazza che belavano,

non l’uomo al telefono, non la coppia di bambini che si nutriva a vicenda stavano trucidando le parole di Giordano. Il mio udito non corticale aveva percepito la voce di un altro essere umano che io, individuo cosciente dotato di storia e identità personali, non avevo ancora sentito.

La tazzina aveva oltrepassato il bordo appena rialzato, lasciando il piattino sul tavolo mentre lei continuava il suo percorso verso il marciapiede.

Chissà da quanto era lì, seduto vicino a me, col suo laptop aperto a lavorare, concentrato, il volto teso nel suo mondo virtuale. Senza occhiali da vista mi ci era voluto un attimo per riconoscerlo, col volto rasato, i capelli corti e il completo giacca-camicia-cravatta.

Era lui.

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Quella banale consapevolezza era stata quasi sufficiente a farmi cacciare un urlo rivelatore, un urlo che avrebbe portato lui a sapere che io ero lì, al tavolo di fianco. Dopo anni di nulla, qualcosa dal profondo delle budella avrebbe potuto far incontrare i nostri sguardi, le nostre voci. Nella mente, mentre il mio occhio scattava dall’individuo al portatile verso la tazzina, si erano formati un nome e mille immagini.

Alberto.Il mio Alberto.

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