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Page 1: Geografia Lazio

ALLA SCOPERTA DEL LAZIO

LA GEOGRAFIA Il Lazio è una regione amministrativa dell'Italia centrale di oltre 5 milioni di abitanti, con ca-poluogo Roma. Confina a nord con la Toscana e l'Umbria, ad est con le Marche, l'Abruzzo ed il Molise, a sud con la Campania ed ad ovest con il Mar Tirreno. Il nome della regione richiama l'antico nome dato alla regione dai Latini, progenitori degli antichi romani ed a lo-ro volta così chiamati perché stabilitisi su di un territorio largo ("latus" in latino). Il toponimo Lazio proviene dal latino Latium, il nome dato alla regione dai Latini, che da essa presero il nome, che a sua volta deriva da latus "largo", inteso anche come "paese pianeggiante". Secondo le discusse tesi di Giovanni Semerano il termine deriverebbe invece per aferesi della voce accadica illatum, ellatum (che significa confederati), che avrebbe dato origine anche al termine greco Έλλάς-Έλλάδος ("Ellade"). L'etimologia farebbe pertanto riferimen-to non tanto alla pianura laziale, ma alla confederazione albana dei popoli latini.

Gli aspetti geologici Antichi vulcani e ampie pianure; coste di sabbia e di roccia e mon-tagne innevate; isole dall’impronta squisitamente mediterranea e al-topiani carsici; lagune salmastre costiere e grandi laghi vulcanici; fiumi e torrenti che scorrono in su-perficie oppure nel buio di grotte e tunnel sotterranei. Il Lazio è senza dubbio una delle regioni italiane con maggiore varietà di paesaggi naturali, da cui deriva un comples-so insieme di situazioni climatiche e microclimatiche e di ecosistemi. Elemento fondamentale nel defini-re le diverse morfologie del pae-saggio laziale è, come sempre, la

natura geologica del paesaggio stesso, a sua volta definita da una lunga e affascinante storia di trasformazioni e mutamenti avvenuti nel corso delle ere passate. Vicende geolo-giche che attraverso processi violenti e improvvisi, come le manifestazioni vulcaniche, op-pure lentissimi come l’accumulo di sedimenti di varia natura sul fondo di antichi mari, han-no fornito calcari, tufi, dolomie e arenarie, rocce di ogni tipo che costituiscono la "materia prima" per l’edificazione del territorio laziale. "Materia prima" che venne poi rimaneggiata da immani forze della crosta terrestre e modellata, in modo diverso a seconda della natura e composizione delle rocce, dai mari e dai venti, dalle acque continentali e dai ghiacci, fino a trasformarsi in quel mosaico di paesaggi di notevole bellezza che oggi caratterizzano il Lazio.

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IL TERRITORIO LAZIALE

1 Geologia del Lazio La geologia del territorio della Regione Lazio risulta di indubbio interesse soprattutto per la innegabile e notevole variabilità, litologica e cronostratigrafica delle Formazioni presenti in affioramento: spostandosi da sud a nord o da ovest ad est è possibile passare dagli aspri rilievi montuosi costituiti da calcari bianco-avana compatti e a giacitura massiva alle dolci acclività degli complessi vulcanici costituite da alternanze di prodotti piroclastici e colate laviche; oppure, lasciati alle spalle i sedimenti delle pianure alluvionali costiere, attraversa-re imponenti edifici vulcanici per addentrarsi nel cuore dell’Appennino, caratterizzato da al-ternanze di calcari e marne, sottilmente stratificati, e profondamente incisi - quasi sempre al loro contatto - da profonde valli fluviali. Come è naturale, partendo da un “prodotto grezzo” così differenziato, le forze esogene - che provvedono al rimodellamento ed all’evoluzione della superficie terrestre - hanno potu-to contribuire a produrre forme e morfostrutture altrettanto varie ed affascinanti, tali da de-finire veri e propri “paesaggi geologici e geomorfologici”: dagli altipiani carsici ai laghi vul-canici; dalle profonde valli fluviali intraappenniniche alla ampia valle del Tevere; dalle dolci ondulazioni delle dune costiere (antiche ed attuali) all’improvviso torreggiare di coni di sco-rie all’interno o nella periferia degli apparati vulcanici. Tutto ciò spesso accompagnato dalla presenza diffusa e multiforme dell’elemento vitale per eccellenza - l’acqua - visibile, nei grandi bacini naturali di raccolta (i laghi) e nelle sue vie di comunicazione (i fiumi), o nascosta, all’interno degli immensi serbatoi carbonatici. Una tale eterogeneità geologica, una sorta di “geodiversità”, sicuramente tra le più spinte dell’intera penisola, può essere affrontata in questa sede solo introducendo evidenti e marcate schematizzazioni e semplificazioni.

I caratteri geologici Ad un primo esame dello schema geologico riportato nella figura1, appare evidente come le formazioni deposte durante l’attività vulcanica costituiscano il dominio geologico relati-vamente più rappresentato, coprendo circa il 33% del territorio regionale e sviluppandosi lungo l’asse longitudinale della regione, in direzione NW-SE, dai confini con la Toscana si-no alle porzioni nordoccidentali della provincia di Latina. IL VULCANISMO DEL LAZIO che, è parte della più ampia Provincia vulcanica tosco-laziale, si sviluppa a partire dalla fine del Pliocene dando luogo dapprima ad una attività dal chimismo da acido ad intermedio; successivamente si sviluppano quattro distretti vul-canici caratterizzati da rocce petrograficamente appartenenti alla serie potassica, o ad alto contenuto in potassio, allineati da NW a SE e seriati dal punto di vista cronologico.

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Il vulcanismo acido, è rappresentato, in ordine cronologico, dai complessi vulcanici di Tol-fa, Cerite e Manziate, costituiti prevalentemente da unità ignimbritiche seguite da domi la-vici a composizione da riolitico a quarzolatitica. Questi complessi si sviluppano tra il mar-gine occidentale del distretto sabatino e le unità alloctone liguridi, in corrispondenza del settore tirrenico settentrionale della provincia di Roma. In parziale contemporaneità del vulcanismo tolfetano-cerite (tra 2 e 1 M.A.) si verifica l’attività delle Isole Ponziane nordoc-cidentali, Ponza, Palmarola e Zannone: per le prime due evidenze geofisiche indicano una evoluzione della attività da sottomarina a subaerea, mentre per Zannone può essere indi-cata una attività esclusivamente subaerea. I prodotti più recenti del vulcanismo acido sono rappresentati dai Monti Cimini, la cui attività è compresa tra 1.35 e 0.8 M.A., periodo du-rante il quale si registrò la risalita lungo strutture tettoniche regionali di magmi viscosi ed acidi che hanno formato in superficie domi e cupole di ristagno. Il Vulcanismo potassico è rappresentato - a partire dal confine con la Toscana - dal Di-stretto Vulsino. Attivo a partire da circa 0.8 M.A., esso è caratterizzato dalla presenza in posizione baricentrale di una ampia depressione vulcano-tettonica, attualmente occupata dal Lago di Bolsena. L’attività del distretto vulsino, si sviluppa attraverso quattro centri principali (denominati Paleobolsena, Bolsena, Montefiscone e Latera), dislocati - proba-bilmente - lungo i principali sistemi di fratture. Tra questi l’ultimo rappresenta l’edificio cen-trale più importante, il cui svuotamento della camera magmatica ha prodotto il collasso calderico ben visibile dalla morfologia di superficie attuale. L’attività è mista e porta alla messa in posto di lave, colate piroclastiche e prodotti idromagmatici. Immediatamente a sud dei Vulsini, si sviluppa l’attività del Distretto Vicano, in un arco temporale compreso tra 800.000 e 90.000 anni dal presente. Dal punto di vista vulcanolo-gico siamo di fronte ad un edificio centrale, morfologicamente tipico (stratovulcano), con la parte terminale dell’edificio troncata dalla caldera. L’attività si manifesta attraverso l’alternanza di quattro fasi di emissione, caratterizzate – nell’ordine dalla più antica alla più recente – da ingenti quantità di piroclastiti da ricaduta, da imponenti colate laviche, da atti-vità esplosiva e grandi colate piroclastiche sino, nell’attività terminale, alla messa in posto di prodotti idromagmatici la cui genesi è fortemente condizionata dalla presenza del bacino lacustre generatosi al centro della cinta calderica. Spostandosi ulteriormente verso SE, l’ambientazione geologica del Pleistocene medio si arricchisce di un nuovo Distretto vulcanico, quello Sabatino, che interessa una porzione di territorio ben più ampia del Vulcano di Vico, e manifesta la sua attività pressoché in con-temporanea (da oltre 600.000 a circa 40.000 anni fa). Il vulcanismo mostra sin dall’inizio forti caratteri esplosivi, e – dopo aver esordito nel settore orientale dell’area (edificio di Morlupo-Castelnuovo di Porto) – si sposta verso ovest edificando l’imponente struttura di Sacrofano, forse la più importante dei Sabatini, per durata dell’attività e volumi di materiali eruttati (le colate piroclastiche sono presenti sino a più di 40 km dal centro di emissione, e le rinveniamo tuttora in affioramento nel settore nord della città di Roma). Placatosi il cen-tro di Sacrofano, l’attività dei Sabatini si riposiziona nel settore orientale, con i tuff-ring di Monte Razzano e Monte Sant’Angelo ed, infine, con, il centro di Baccano, la cui attività cessa intorno ai 40.000 anni fa. Il più meridionale dei distretti vulcanici a struttura centrale presenti nella nostra Regione è rappresentato dal Vulcano Laziale o Complesso vulcanico dei Colli Albani. Questo occupa una posizione particolarmente significativa nell’ambito dell’assetto strutturale della Catena Appenninica: «confina» a nordovest con le Unità Meso-cenozoiche alloctone dei Monti del-la Tolfa, a sud con i terreni di piattaforma carbonatica dei Monti Lepini, ad est con le suc-

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cessioni Meso-cenozoiche dei Monti Prenestini e Tiburtini, oltre che, sempre verso nord, con l’altro importante sistema vulcanico dei Sabatini. La formazione dell’apparato ha avuto inizio tra i 500.000 e i 600.000 anni fa, mentre i prodotti più recenti sono stati datati a circa 20.000 anni fa; in questo periodo sono state emesse coltri di depositi vulcanici estesi su una superficie di circa 1500 Km2 (da poco a sud della Bassa Valle del Tevere, sino alla Pianura Pontina): all’interno della «provincia magmatica romana», i Colli Albani sono l’apparato vulcanico caratterizzato dalle maggiori dimensioni e - tra i vulcani centrali - dal maggior volume di lava e di prodotti piroclastici eruttati (circa 290 Km3). Come per gli altri vulcani, anche per i Colli Albani si possono individuare varie fasi di attività principali inter-vallate da periodi di stasi: il vulcano esordisce con la Fase Del Tuscolano – Artemisio che occupa quasi metà dell’intera vita del vulcano (da circa 600.000 a circa 300.000 anni fa) e ha dato luogo alla messa in posto di 200 Km3 (circa il 70% del totale) durante quattro cicli che prendono il nome di I, II, III e IV Colata Piroclastica del Tuscolano-Artemisio; l’attività è caratterizzata da eruzioni esplosive parossistiche con messa in posto, principalmente, di ignimbriti, con effusioni laviche e depositi di ricaduta intercalati tra i principali eventi erutti-vi. A seguire, tra i 300.000 ed i 200.000 anni fa, l’attività procede col la Fase Dei Campi Di Annibale (o delle Faete): caratterizzata da attività mista all’interno dell’area calderica del Tuscolano-Artemisio, risulta sicuramente meno importante della prima, soprattutto se si considera la quantità totale di materiale eruttato (poco più di 2 Km3 ). L’attività del com-plesso vulcanico del Colli Albani si conclude con una fase legata principalmente alle inte-razioni tra il magma residuo e l’acqua (Attivita’ Idromagmatica Finale): esplosioni caratte-rizzate da energie veramente notevoli, provocano la formazione di tutta una serie di crateri eccentrici, più o meno allineati in direzione nord - sud, i più importanti dei quali (anche sot-to il profilo paesaggistico) sono quelli di Ariccia, Nemi ed Albano, ai quali si aggiungono quelli di Prata Porci, Castiglione, Pantano Secco, Valle Marciana e Giuturna. Le ultime da-tazioni disponibili indicano che i prodotti più recenti di questa ultima fase sono rappresen-tati dai materiali eruttati dal cratere di Albano, e risalgono a circa 20.000 anni fa. Passando in visione – attraverso un criterio cronostratigrafico - gli altri domini geologici rappresentati nel territorio del Lazio, va dapprima evidenziata la presenza di un limitato af-fioramento del “BASAMENTO METAMORFICO” di età Paleozoico superiore – Triassico, in corrispondenza del medio tratto del F.Fiora al confine con la Toscana (Monti Romani). Si tratta di rocce a basso grado di metamorfismo (filladi, quarziti micacee e metaconglomera-ti) fortemente alterate dall’attività tettonica. Unico altro sito in cui il basamento affiora nel Lazio è l’isola di Zannone, con un piccolo lembo di terreni triassici (quarziti). LA DORSALE APPENNINICA. Altro grande dominio geografico-geologico che caratte-rizza il territorio della Regione Lazio è costituito dalla dorsale appenninica, che - nel suo insieme – copre un altro 30% circa della superficie della regione. Tale “macrosistema” è prevalentemente rappresentato da sedimenti carbonatici di età mesozoica deposti in diffe-renti ambienti di sedimentazione. Alla scala del presente lavoro, è sufficiente individuare due grandi domini sedimentari, che hanno dato luogo alla formazione di serie stratigrafiche differenziate ed oggi nettamente individuabili sul terreno: una appartenente al Dominio di Piattaforma Carbonatica ed una afferente al Dominio di Transizione verso il bacino Pelagi-co. La prima è nota in letteratura geologica con il nome di Serie Laziale – Abruzzese, ed è geograficamente individuata da due allineamenti montuosi: uno più interno, rappresentato dai Monti Simbruini – Monti Ernici – Monte Cairo, e l’altro prossimo alla linea di costa tirre-nica e rappresentato dalla struttura dei Monti Lepini – Monti Ausoni – Monti Aurunci. Le due dorsali, sviluppate in direzione NW-SE, sono separate da una fascia morfologicamen-te e strutturalmente ribassata costituita dalla Valle Latina dove il basamento calcareo risul-ta coperto da coltri di varia potenza di depositi terrigeni sintettonici (Formazione di Frosi-

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none), da depositi marini e continentali Plio-Pleistocenici ed, infine, da depositi alluvionali recenti (Olocene – Pleistocene). Dal punto di vista litostratigrafico questa serie di piatta-forma persistente è costituita da una potente e monotona pila di sedimenti calcarei e cal-careo-dolomitici, che vanno dai più antichi calcari e dolomie del Triassico superiore (“For-mazione di Filettino”), attraverso potenti spessori (migliaia di metri) di calcari, calcareniti e calciruditi depostisi lungo tutto il Giurassico e Cretacico sino alla prima Epoca cenozoica (Paleocene) per finire con i calcari organogeni di mare poco profondo del Miocene medio. Dal punto di vista strutturale e tettonico l’azione orogenetica che ha prodotto l’attuale as-setto e posizionamento delle due dorsali carbonatiche di piattaforma citate si è svolta pre-valentemente nel periodo Neogenico (Tortoniano – Messiniano); come in altre aree dell’Appennino, probabilmente anche in questo settore la tettonica compressiva si è svi-luppata in diverse fasi, a partire dal settore lepino-ausono-aurunco per arrivare, nella fase messiniana, a quello ernico-simbruino. In sostanza, l’attuale assetto strutturale si è venuto a determinare per “la migrazione nel tempo del sistema orogenico (catena-avanfossa-avampaese) dai settori occidentali verso quelli orientali1”. L’altro grande domino appenninico presente nella nostra regione è costituito dal Dominio di transizione, ossia da quella serie di sedimenti che si sono deposti in una fascia di tran-sizione, dal punto di vista paleogeografico ed ambientale, tra le aree di piattaforma carbo-natica (mare sottile) e le aree pelagiche, ossia caratterizzate da mare aperto e profondo. Il carattere “transizionale” di questi depositi sedimentari è determinato dal fatto che il mate-riale proveniente dalla piattaforma si mescola con il materiale del bacino pelagico in corri-spondenza di una scarpata morfologica sottomarina. Ad una scala geologica più ampia, che prenda in considerazione anche porzioni di territorio fuori dalla regione, il Dominio pe-lagico è rappresentato dalla Serie Umbro-Marchigiana; ciò che affiora all’interno del Lazio è invece la Serie di transizione, ben rappresentata nei Monti Prenestini e nei Monti Sabini. Dal punto di vista litostratigrafico, la “colonna tipo” delle Unità di Transizione risulta meno uniforme e monotona di quella delle Unità di piattaforma cabonatica: al di sopra delle eva-poriti triassiche, infatti, troviamo dapprima la formazione del “Calcare massiccio” del Giu-rassico inferiore, seguito stratigraficamente dalle formazioni giurassiche lacunose dovute agli alti morfostrutturali e costituite da calcari nodulari, marne calcaree e micriti; in facies eteropica rispetto ai precedenti, ma con una età che si estende sino al Cretacico inferiore troviamo i calcari, calcari marnosi, marne e marne argillose – spesso selciferi – contenenti depositi calcareo-clastici provenienti dalla Piattaforma Laziale-Abruzzese; il periodo com-preso tra il Cretacico inferiore ed il Miocene inferiore è rappresentato sempre da rocce calcareo-marnose o schiettamente marnose, a luoghi selcifere, conosciute nella letteratura geologica con i nomi di Formazioni del “Bisciaro”, della “Scaglia cinerea”, della “Scaglia” e delle “Marne a Fucoidi”; la serie di transizione si chiude al tetto con argille marnose (“Mar-ne a Pteropodi” Auct.) e marne calcaree emipelagiche con intercalazioni di calcari risedi-mentati (“Marne con Cerrogna” e “Formazione di Guadagnolo” Auct.) che arrivano sino al Miocene superiore. Dal punto di vista della strutturazione della Catena Appenninica, anche il Dominio Sabino può essere divise in unità interne ed esterne, in funzione della fase tem-porale in cui è avvenuta la loro deformazione: mentre il settore dei Monti Prenestini-Monti Tiburtini-Monti Lucretili- Monti Cornicolani ha, infatti, subito le spinte orogenetiche nel Tor-toniano, la restante porzione (Monti Ruffi-Monti Sabini orientali-Monti Reatini) ha preso parte alla formazione della Catena Appenninica solo nel Messiniano. Una fase tettonica compressiva successiva a quella messiniana si è avuta, poi, nel Pliocene inferiore interes-sando queste porzioni di crosta già coinvolte nella catena appenninica; le superfici di so-vrascorrimento di questa ultima fase non possono essere inseriti nella dinamica spazio-temporale con cui si sono sviluppati i fronti di accavallamento della catena, e sono pertan-to indicati come “sovrascorrimenti fuori sequenza”. L’elemento principale di questi è rap-

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presentato dal fronte Olevano – Antrodoco, il più esterno della Falda Sabina, che rappre-senta pertanto il lineamento di separazione tra il Dominio di transizione ed il Dominio di Piattaforma. Successivamente alla fase orogenica durante la quale si è venuto a costruire l’edificio a falde sovrapposte dell’Appennino (due delle quali sono per l'appunto la Serie di Transizio-ne e la Serie Laziale Abruzzese) si è attivata una tettonica distensiva, connessa con lo svi-luppo del Bacino Tirrenico, durante la quale all’interno delle falde impilate si sono create fasce ribassate (“Fosse tettoniche” o “Graben”) invase dal Mare Tirreno nel Plio-Pleistocene. In tali bassi strutturali si imposta, quindi, una fase di sedimentazione, con complete sequenze trasgressive (argille-sabbie-conglomerati) note in letteratura scientifica come CICLO NEOGENICO (in relazione all’età) o Ciclo Sedimentario Postorogenico (in relazione alla causa che ha prodotto le aree ribassate su cui è ingredito il mare). I sedi-menti terrigeni di questo ciclo sono diffusamente presenti nei Bacini intramontani, in parti-colare nella porzione terminale del Bacino Tiberino (Graben del Tevere), del Bacino reati-no-cigolano e nella parte terminale della Valle Latina (limiti SE della Regione). I sedimenti più recenti in affioramento nella Regione Lazio sono rappresentati dai DEPOSITI QUATERNARI che costituiscono le Pianure Costiere ed i fondi alluvionali delle valli fluviali. Tra i depositi recenti, maggiore interesse dal punto di vista geologico-geografico rivestono le Pianure costiere, ed in particolare l’Agro Pontino; queste sono co-stituite in affioramento da una fascia di depositi eolici (sabbie con orizzonti argillificati di paleosuoli) che rappresentano i cordoni dunari antichi e recenti; con una larghezza sino a qualche chilometro, separano dalla costa i depositi più interni, di origine fluvio-palustre e di natura limo-argillosa. Una collocazione autonoma trovano i terreni flyschiodi a forte alloctonia delle UNITA’ LIGURIDI E SICILIDI. Le formazioni appartenenti a tali Unità, costituite da marne, argilliti, calcari marnosi ed arenarie, sono di età compresa tra il Cretacico superiore e l’Oligocene, e si tratta di flysch legati alla messa in posto di una precedente e precoce catena al termi-ne della chiusura del bacino ligure-piemontese. Nel territorio della Regione Lazio queste unità sono significativamente rappresentate in affioramento in tutto il settore dei Monti del-la Tolfa, in particolare con una successione argillitica con intercalazioni silicee, calcaree, marnose ed arenacee.

2 Geomorfologia del Lazio Una breve descrizione del paesaggio fisico del Lazio può partire dalle grandi Unità o Do-mini geologici sopra descritti: i caratteri geologici comuni all’interno di ciascuno di loro o – al contrario – le differenze reciproche, hanno infatti chiaramente influenzato l’azione degli agenti esogeni, modellatori della superficie terrestre (gli agenti atmosferici, le acque cor-renti, il mare, i ghiacci). Le grandi strutture geomorfologiche sono, pertanto, praticamente coincidenti con le Unità o Domini geologici individuati: i grandi distretti vulcanici, le pianure costiere, le dorsali appenniniche carbonatiche Lepino-ausono-aurunca e Simbruino-ernica e la relativa valle di separazione (la Valle Latina), le dorsali calcareo-marnose più disarti-colate delle precedenti della Sabina, la porzione terminale dalla Valle Tiberina. All’interno di queste grandi strutture geomorfologiche si raggiungono situazioni di uniformità e tipicità tali da poter definire, in alcuni casi, veri e propri morfotipi caratteristici, tra i quali si posso-no elencare:

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• I distretti vulcanici acidi: caratterizzati da ampi ripiani ignimbritici dai quali si innal-zano con fianchi relativamente ripidi i rilievi lavici cupoliformi (domi).

• I distretti vulcanici alcalino-potassici caratterizzati da attività centrale (Vico e Colli Albani): si individuano edifici centrali ben sviluppati, di dimensioni notevoli nei Colli Albani, con la tipica forma conica troncata nella porzione superiore e fianchi a debo-le pendenza. In corrispondenza delle aree sommitali si individuano le ampie de-pressioni dovute a collassi calderici.

• I distretti vulcanici alcalino-potassici caratterizzati da attività areale (Vulsini e Saba-tini): sono morfologicamente più tabulari dei precedenti e caratterizzati dalla pre-senza di molti centri di emissione sparsi nell’area. Entrambi sono caratterizzati dalla presenza di una depressione vulcano-tettonica occupata da un bacino lacustre, da depressioni calderiche eccentriche (Latera per i Vulsini; Sacrofano e Baccano per i Sabatini) e da numerosi centri di emissione diffusi e morfologicamente ben indivi-duabili (coni di scorie).

• Il reticolo idrografico di tutti i distretti vulcanici laziali risulta fortemente caratterizzan-te, oltre che per il pattern di drenaggio (per lo più centrifugo) soprattutto per le pareti vallive fortemente acclivi (spesso subverticali) e gradonate, per l’alternanza fitta di litologie a diversa competenza (lave e piroclastiti); i fondi vallivi sono spesso appiat-titi da fenomeni di sovralluvionamento conseguenti al sollevamento eustatico del li-vello marino e al ritiro dei ghiacci.

• Il carsismo di superficie. Nel Lazio il modellamento legato a fenomeni carsici è mol-to spinto, e sono diffusi tutti i tipi di strutture di superficie dalla scala macroscopica a quella microscopica. Tra le prime sono molto diffusi i “bacini carsici”, ampie depres-sioni dalle dimensioni dell’ordine del km2 con tipiche forme a conca o allungate, a volte costituiti dalla coalescenza di diversi bacini minori (es.: Bacino di Pastena nei Monti Ausoni). Tra i bacini più importanti – per dimensioni e forma – si ricordano quelli dei Monti Ausoni-Aurunci (Pantano di Lenola, Campo Soriano, Piano delle Saure, Piano del Campo, Conca di Campodimele) e gli Altipiani di Arcinazzo nei Monti Ernici. All’interno di questi bacini si sviluppano tutte le mesoforme carsiche caratteristiche: doline, lapiez, campi carreggiati, etc.

• Il carsismo ipogeo. Altrettanto sviluppato e studiato è il carsismo ipogeo della Re-gione Lazio, con circuiti carsici di inghiottitoi, pozzi e gallerie lunghi anche alcuni chilometri. Si ricordano a tal proposito le cavità presenti nel settore dei Monti Pre-nestini – Monti Affilani; le Grotte di Pastena negli Ausoni; l’inghiottitoio di Pietrasec-ca nei Monti Carseolani ed i circuiti della dorsale dei Lepini.

Assetto idrografico La rete idrografica del territorio laziale è sostanzialmente rappresentata da due sistemi principali: quello del F. Tevere, per l’area settentrionale e quello del F. Liri – Garigliano, per l’area meridionale. Il F. Tevere, con una superficie totale del bacino di circa 17.200 km2 (di cui circa il 60% ri-cade nel Lazio), rappresenta la principale via d’acqua della regione. In questo ambito terri-toriale, il tratto iniziale ha un andamento appenninico (NW-SE) lungo il quale, in riva de-stra, il fiume raccoglie le acque dei versanti orientali degli apparati vulcanici vulsino, cimi-no, vicano e sabatino. In riva sinistra, attraverso il F. Nera riceve il contributo consistente di alcune importanti strutture carbonatiche appenniniche (Monti Sabini, Monti Reatini, Monti Cicolani). Approssimativamente all’altezza della confluenza con il F. Farfa, il F. Te-vere muta direzione ed assume un andamento quasi trasversale al precedente (NNE-SSW); in questo tratto in destra idrografica riceve il drenaggio del reticolo dei versanti me-

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ridionali dell’apparato sabatino mentre in riva sinistra è rilevante il contributo del F. Aniene che drena, oltre all’intera struttura simbruina, i versanti settentrionali dei Monti Prenestini e dei Colli Albani. Come risulta anche dallo schema idrogeologico riportato in Figura 8.2 (per quanto di estrema sintesi), si osserva una profonda differenza dell’assetto idrografico dei territori in riva destra ed in riva sinistra; questa differenza è dovuta alle differenti modalità di scorrimento degli apparati vulcanici, caratterizzati da un fitto reticolo idrografico svilup-pato con andamenti centrifughi, rispetto a quelle delle strutture carbonatiche, a loro volta caratterizzate da una densità di drenaggio inferiore e con andamenti direttamente collegati ai lineamenti geologico-strutturali. Il bacino del F. Liri – Garigliano ha una superficie complessiva di circa 4.900 km2 dei quali circa 3.750 km2 interessano il Lazio. Il maggior affluente di sinistra è il F. Sacco che scor-re nell’ampia Valle Latina, a prevalente andamento NW-SE; il F. Liri in riva destra riceve dapprima il contributo del F. Melfa e successivamente quello del F. Gari, dopo la cui con-fluenza muta drasticamente direzione e prende il nome di Garigliano. Nell’insieme il retico-lo di questa porzione di territorio ha uno schema di tipo rettangolare, sostanzialmente con-trollato da lineamenti tettonici ad andamento appenninico (NW-SE) ed antiappenninico (NE-SW). Anche in termini di deflusso idrico superficiale il F. Tevere ed il F. Liri-Garigliano fornisco-no alla regione il contributo maggiore, infatti più dell’80% del deflusso totale medio di ac-que continentali raggiunge le coste del Lazio e si riversa a mare attraverso questi due fiu-mi. Il regime di portata del F. Tevere si differenzia nettamente tra la porzione settentrionale del bacino, che può essere considerata schematicamente esterna al territorio regionale, posta a monte della confluenza con il F. Nera, e la porzione meridionale posta a valle della stessa confluenza. Nel porzione settentrionale del bacino prevalgono affioramenti di litolo-gie poco permeabili che determinano un regime fortemente legato al ruscellamento e quindi alla distribuzione ed all’entità delle precipitazioni. Nel settore meridionale, lungo il confine regionale, il regime di portata del fiume muta drasticamente per effetto dei contri-buti del sistema Nera-Velino che, drenando gli acquiferi delle strutture carbonatiche ap-penniniche, determina il notevole incremento e la sensibile stabilizzazione della portata. Più a valle la confluenza con il F. Aniene contribuisce ulteriormente all’aumento ed alla stabilizzazione del deflusso. Nell’ambito del bacino idrografico del F. Liri – Garigliano le caratteristiche di permeabilità e gli andamenti morfo-topografici, prevalentemente rappresentati da depositi di piattaforma carbonatica, determinano un’elevata infiltrazione efficace e conseguentemente lo scarso sviluppo del reticolo idrografico e basso ruscellamento (Fig.8.2). Il regime di deflusso del F. Liri Garigliano, alimentato da grandi sorgenti degli acquiferi carbonatici risulta quindi particolarmente stabile, ad eccezione del F. Sacco, privo di emergenze particolarmente si-gnificative. I bacini minori del Lazio assommano ad una superficie dell’ordine di 6.300 km2; in termini di deflusso medio verso mare essi non superano il 20% circa del totale con un contributo stimato di circa 75 mc/sec, comprensivo delle perdite verso mare delle sorgenti sottomari-ne. Partendo dal limite settentrionale e scendendo lungo costa i corsi d’acqua principali sono: F. Fiora (sup. totale del bacino pari a 826 km2 solo parzialmente compreso nel territorio regionale), F. Marta (1071 km2), F. Mignone (496 km2), F. Badino (708 km2). Il bacino

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del F. Fiora è impostato su formazioni geologiche mediamente poco permeabili, rappre-sentate da flysch e da terreni di origine marina argilloso-sabbiosi, presenta un regime idro-logico, coerente con la natura litologica degli affioramenti, caratterizzato da ruscellamento elevato nelle stagioni autunnali-invernali con portate 3- 4 volte superiori a quelle estive. I terreni che costituiscono il bacino imbrifero del F. Marta sono essenzialmente di natura vulcanica e solo verso la costa sono rappresentati da depositi argillosi recenti. Essendo l’emissario del lago di Bolsena, il quale drena la gran parte dell’apparato vulcanico vulsino, nel tratto alto del proprio percorso il F. Marta ha un regime di deflusso confrontabile con quello delle grandi sorgenti lineari e puntuali dell’Italia Centrale. Proseguendo verso mare, nell’attraversare terreni a minore permeabilità, la portata del fiume risente in modo apprez-zabile del ruscellamento specie nei periodi piovosi. Nel bacino del F. Mignone prevalgono affioramenti poco permeabili rappresentati da flysch e depositi marini argilloso-sabbiosi, mentre i prodotti vulcanici sabatini, maggior-mente permeabili, risultano subordinati. Il deflusso idrico è chiaramente influenzato dal ru-scellamento che determina un regime fortemente impulsivo con episodi di piena molto rile-vanti ed a rapido esaurimento. Il F. Badino costituisce il tratto terminale di un sistema idrografico che comprende il F. Amaseno, il F. Ufente ed il Canale Linea Pio. In particolare per l’Ufente ed il Linea Pio, il deflusso è in massima parte originato dal regime delle grandi sorgenti alimentate dalle strutture carbonatiche dei Monti Lepini, poste al contatto tra i rilevi ed i depositi limoso-argillosi della Pianura Pontina. A queste si aggiunge il contributo delle emergenze che ali-mentano il tratto alto del F. Amaseno; queste ultime, a regime nettamente carsico, hanno per questo motivo carattere impulsivo e forniscono un apporto limitato. Alla componente di flusso delle sorgenti puntuali e lineari, poste in prossimità del bordo nord orientale della Pianura Pontina, si sommano i contributi delle acque meteoriche e di drenaggio laterale, raccolte da una fitta rete di canali di bonifica che attraversa terreni limoso-torbosi, topogra-ficamente depressi.

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Fig. 8.1

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Fig. 8.2

3 Lineamenti della flora e vegetazione del Lazio Il paesaggio vegetale laziale è molto variegato ed i fattori che determinano tale variabilità sono, in particolare, il clima e la geomorfologia. Il clima è articolato e si rinvengono, a secondo della distanza dalla costa, caratteri di tipo mediterraneo o temperato. Le varie vicissitudini geologiche hanno contribuito alla forma-zione di diversi tipi litologici. I più diffusi sono rappresentati dalle rocce calcaree della piat-

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taforma carbonatica Laziale-Abruzzese, dalle rocce calcareo-argillose della successione Umbro-Marchigiana-Sabina, dai complessi vulcanici a magmatismo alcalino potassico, dalle arenarie, sabbie, limi e argille. Le attività antropiche, che si espletano soprattutto, a livello basale e collinare, contribui-scono ad aumentare la variabilità della flora e della vegetazione. La flora del Lazio (Anzalone, 1984) conta circa 3000 entità, più del 50% della flora italiana (5599, secondo Pignatti, 1982), distribuite in 898 generi e 161 famiglie. Le famiglie più rappresentate sono Compositae (370), Graminaceae (283), Leguminosae (270), Cruciferae (149), Caryophyllaceae (130), Umbelliferae (128) e Labiatae (103). Il ge-nere più numeroso è Trifolium con 55 entità. Le specie rare e rarissime costituiscono il 29% del patrimonio floristico, quelle molto co-muni il 30% e quelle comuni il 19,2%. Quindi quasi un terzo della flora è costituita da spe-cie a diffusione limitata, a conferma del notevole valore della flora del Lazio. Anche la flora officinale, che raggiunge il 26.2%, è ampiamente rappresentata. Le principali formazioni del paesaggio vegetale laziale

Vegetazione psammofila A causa della forte pressione antropica a cui sono soggetti i nostri litorali, ormai non è più possibile osservare la successione tipica delle fitocenosi psammofile. In generale manca quasi sempre almeno una componente della serie e queste, spesso, si distribuiscono in strutture a mosaico. Il corteggio floristico presenta numerose specie caratteristiche di tali habitat. La comparsa di piante di altri ambienti è subordinata alla presenza di attività antropiche. Gli esempi più belli di tale vegetazione si hanno a Castelporziano ed al Circeo. A partire dalla fascia afitoica, quella più prossima al mare, si sviluppa una associazione pioniera composta prevalentemente di terofite, quali Cakile maritima, Salsola kali e Xan-thium italicum (Salsolo-Cakiletum aegyptiaceae), che costituiscono consorzi effimeri, frammentari ed a scarsa copertura. A seguire è presente sulla duna embrionale una fascia dominata da Agropyron junceum che con i suoi rizomi costituisce il primo tentativo di stabilizzazione della sabbia. Tale ce-nosi è ascrivibile all'associazione Sporobolo arenarii-Agropyretum juncei. Proseguendo verso l'interno, sulle dune mobili, la vegetazione è dominata da Ammophila littoralis, graminacea cespitosa capace di opporsi al seppellimento da parte della sabbia e di favorire l’accumulo della stessa, contribuendo in tal modo a una maggiore stabilità della duna. Le comunità vegetali presenti fanno parte dell'associazione Echinophoro spinosae-Ammophiletum arenariae. Nel versante retrodunale, ove le condizioni ecologiche sono più favorevoli allo sviluppo della vegetazione in quanto la salsedine ed i venti provenienti dal mare trovano una barrie-ra nei cordoni dunali più elevati e consolidati, si sviluppano consorzi caratterizzati da Cru-cianella maritima ascrivibili al Crucianelletum maritimae.

Vegetazione rupestre litoranea Nella parte costiera meridionale della regione (Circeo, Sperlonga, Monte Orlando), sono presenti morfotipi rupestri, ove si rinvengono specie endemiche e/o di limitata distribuzione di particolare interesse tra le quali Centaurea cineraria ssp. circae, Helichrysum litora-neum, Chamaerops humilis (palma nana), Campanula fragilis, Scabiosa holosericea, Li-monium amyncleum e

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L. circaei. Le comunità vegetali più significative legate alle falesie marine rientrano nell'as-sociazione Crithmo-Limonietum. Macchia E' costituita da elementi arbustivi sempreverdi che danno luogo a formazioni per lo più im-penetrabili. In generale costituiscono fitocenosi in relazione seriale di degradazione o di recupero con le foreste sempreverdi mediterranee. Le specie che caratterizzano tali co-munità sono Quercus ilex (leccio) arbustivo, Pistacia lentiscus (lentisco), Myrtus commu-nis, (mirto), Rhamnus alaternus, (alaterno), Daphne gnidium, Juniperus oxycedrus ssp. macrocarpa, (ginepro coccolone) J. phoenicea (ginepro feniceo), Calicotome spinosa (sparzio villoso), Olea europaea var.oleaster (oleastro) Phyllirea angustifolia (fillirea) Ci-stus salvifolius (cisto femmina), C. monspeliensis (cisto di Montpellier) ed Euphorbia den-droides. A seconda delle specie dominanti si distingue:

• macchia a ginepro coccolone e ginepro fenicio (Juniperetum macrocarpae-phoeniceae) diffusa a Sabaudia, Torvaianica e Castelporziano;

• macchia a olivastro e lentisco (Oleo-Lentiscetum) presente al Circeo, nelle isole Ponziane ed ai piedi dei M. Lepini;

• macchia a mirto e calicotome (Calicotomo-Myrtetum) segnalata nel Lazio setten-trionale;

• macchia a oleastro ed euforbia arborescente (Oleo-Euphorbietum dendroides) con-finata sul promontorio del Circeo.

Foresta sempreverde mediterranea Si tratta di fitocenosi quali la lecceta costiera, la lecceta collinare ad orniello e la sughereta tirrenica, tipiche della fascia mediterranea. Le relazioni seriali di tali comunità, in particola-re della lecceta possono essere sintetizzate secondo lo schema: foresta > macchia > gariga Gli agenti che determinano tale dinamismo sono il fuoco, la ceduazione e il pascolo.

Lecceta costiera (Viburno-Quercetum ilicis) La foresta di latifoglie sempreverdi climatogena, diffusa soprattutto nell’ambiente costiero (da Civitavecchia ai M. Aurunci) e sul M. Soratte, costituisce l'aspetto più termofilo delle leccete. Lo strato arboreo è formato esclusivamente da Quercus ilex, quello arbustivo da specie sempreverdi quali Phyllirea latifolia, Pistacia lentiscus, Myrtus communis, Ruscus aculeatus, Erica arborea ( erica arborea) e Arbutus unedo (corbezzolo). Nello strato erbaceo, a scarsa copertura, si rinvengono Cyclamen repandum, Brachypo-dium sylvaticum e Asplenium onopteris. Lo strato lianoso è rappresentato da Rubia pere-grina, Clematis flammula e Asparagus acutifolius. Lecceta collinare ad orniello (Orno-Quercetum ilicis) Si rinviene in situazioni climatiche meno termofile della precedente in collina e bassa mon-tagna. Tale fitocenosi costituisce l'interfaccia tra la foresta sempreverde e quella caducifo-glia. Gli elementi arborei, in generale di piccola statura e costituenti strutture aperte, sono rappresentati da Quercus ilex, che assume sempre un ruolo prevalente, Fraxinus ornus, (Orniello), Ostrya carpinifolia (Carpino nero) Quercus pubescens (Roverella) e, raramente, Pistacia terebinthus (Terebinto).

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Nello strato arbustivo, a densa copertura, sono presenti Crataegus monogyna (Biancospi-no), Phyllirea latifolia, Arbutus unedo, Juniperus communis, (Ginepro comune) Ligustrum vulgare (ligustro) Viburnum tinus ( tino) e Ruscus aculeatus. Lo strato erbaceo è rappre-sentato da Brachypodium sylvaticum, B. rupestre, Cyclamen hederifoium, C. repandum, Aplenium onopetris e Carex distachya, mentre quello lianoso da Rubia peregrina, Tamus communis, Smilax aspera, Hedera helix e Clematis vitalba. Nel Lazio la lecceta collinare ad Orniello è presente nella Tuscia meridionale, sui Colli Albani, sul M. Soratte, lungo il corso del F.Treja e sui M. Lucretili.

Sughereta (Cytiso-Quercetum suberis, Quercetum frainetto-suberis) In passato molto probabilmente occupava un areale maggiore dell'attuale. Nel Lazio si di-stribuisce lungo la fascia costiera ed è presente anche presso Roma (Insugherata, Acqua-traversa). In tale consorzio, che predilige i substrati acidofili e ambienti più freschi della lecceta, lo strato arboreo, costituito esclusivamente da Quercus suber (sughera) è aperto ed è formato da esemplari ceduati di notevoli dimensioni. Lo strato arbustivo, a densa co-pertura, come l’erbaceo, è caratterizzato dai Cytisus villosus (Citiso trifloro), Crataegus monogyna, Erica arborea, Rubus ulmifolius (Rovo comune), Cistus monspeliensis, Phylli-rea latifolia, Osyris alba (Ginestrella comune) e Myrtus communis.

Bosco di caducifoglie Si ascrivono a questo tipo di fitocenosi il querceto misto a cerro e farnetto (Echinopo siculi-Quercetum frainetto), il querceto a Rovere (Hieracio-Quercetum petraee, Coronillo emeri-quercetun cerris), il querceto a Roverella (Cytiso-Quercetum pubescentis, Roso sempervi-renti-Quercetum pubescentis), il bosco misto (Melittio-Ostryetum carpinifoliae) e la faggeta (Aquifolio-Fagetum e Polysticho-Fagetum).

Bosco misto caducifoglio a Cerro e Farnetto (Echinopo siculi-Quercetum frainetto) Si tratta di fitocenosi caducifoglie relativamente mesofile a dominanza di Quercus frainetto (farnetto) e Quercus cerris (cerro). Si rinvengono nella fascia collinare e presentano un sottobosco caratterizzato da specie a baricentro balcanico. Costituisce la vegetazione cli-matogena della Campagna romana, per le aree più interne, e della pianura Pontina. Nel Lazio si rinvengono, tra l'altro, nella Tuscia, nel bacino del F.Treja, sul M.te Soratte ed al Circeo. Gli elementi arbustivi più diffusi sono Crataegus monogyna, Carpinus orientalis (Carpino orientale), Fraxinus ornus, Rubus sp., Sorbus domestica (Sorbo domestico), S. torminalis (Ciavardello) e Ruscus aculeatus. Nello strato erbaceo sono presenti Festuca heterophylla, Viola reichembachiana, Lathyrus venetus e Cyclamen repandum.

Querceto a rovere (Hieracio-Quercetum petraee) E’ rappresentato da fitocenosi arboree caducifoglie dominati da rovere e cerro che occu-pano ambienti pianeggianti o collinari e si rinvengono nella Tuscia spesso in condizioni depauperate su depositi vulcanici. Altre specie che concorrono alla formazione dello strato arboreo sono Malus sylvestris (melo selvatico)e Quercus robur (farnia). Lo strato arbustivo

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si presenta denso e le specie più diffuse sono Rosa arvensis (rosa cavallina), Juniperus communis e Genista tinctoria (ginestra minore). Lo strato erbaceo risulta molto ricco di specie e presenta una elevata copertura.

Cerrete con rovere e castagno (Coronillo emeri-Quercetum cerris) Si tratta di fitocenosi con fisionomia di bosco a Quercus cerris (cerro) nelle quali entrano spesso Quercus petraea (rovere) e Castanea sativa (castagno). In molti casi sono state trasformate dall’uomo in castagneti. Sono distribuite su suoli vulcanici fertili e profondi nel-la fascia collinare e montana. Oltre a Quercus cerris, Quercus petraea e Castanea sativa partecipano allo strato arboreo Prunus avium (ciliegio), Sorbus domestica e Sorbus tormi-nalis. In quello arbustivo sono frequenti Mespilus germanica (Nespolo volgare), Coronilla emerus (Dondolino) e Cytisus scoparius (Ginestra dei carbonai). Nell’erbaceo si rinvengo-no, tra le altre, Lathyrus venetus, Lathyrus niger e Potentilla micrantha.

Querceto a roverella (Cytiso-Quercetum pubescentis, Roso sempervirenti-Quercetum pubescentis) Nel settore interno dell’Appennino sono presenti querceti a Quercus pubescens (roverel-la), con strato arboreo piuttosto aperto e sottobosco caratterizzato da Cytisus sessilifolius, Juniperus oxycedrus, Brachypodium pinnatum. I querceti a roverella del settore più prossimo alla costa sono riferibili al Roso-Quercetum pubescentis. Rispetto ai primi si arricchiscono di specie mediterranee: Rosa sempervirens (Rosa di S.Giovanni), Rubia peregrina, Smilax aspera, Lonicera implexa (caprifoglio medi-terraneo), etc.

Bosco misto (Melittio-Ostryetum carpinifoliae) Questa formazione si presenta, in genere, con fisionomia di bosco a dominanza di Ostrya carpinifolia (Carpino nero) e caratterizza ampi settori dell’Appennino distribuendosi preva-lentemente nella fascia collinare e montana. Oltre al Carpino nero partecipa allo strato ar-boreo Acer obtusatum (l’acero d’Ungheria), Tilia platyphyllos (Tiglio ), Querecus pube-scens e Fraxinus ornus. Nello strato arbustivo sono frequenti Laburnum anagyroides (Maggiociondolo) e Cytisus sessilifolius, nell’erbaceo Melittis melyssophyllum, Melica uni-flora e Anemone apennina.

Faggeta (Aquifolio-Fagetum e Polysticho-Fagetum) L’associazione Aquifolio-Fagetum costituisce la vegetazione climacica della fascia monta-na sui M. Simbruini, M.Lepini, e M. Ernici, tra 700-1400 m. su pendii e altopiani esposti alle correnti atmosferiche umide. Lo strato arboreo, monospecifico, è costituito da Fagus sylva-tica (faggio), mentre quello arbustivo è dominato da Ilex aquifolium (agrifoglio), specie ca-ratteristica. Lo strato erbaceo, a scarsa copertura, ospita Viola reichembachiana, Galium odoratum, Cyclamen hederifolium, Sanicula europaea, Lamium flexuosum, Geranium ver-sicolor ed Aremonia agrimonoides. Nelle aree dove gli aspetti di maggiore continentalità prevalgono su quelli legati alle correnti umide (Terminillo, sistema Ernici-Simbruini) si dif-fonde la faggeta interna appenninica (Polysticho-Fagetum).

Le formazioni erbacee

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Rappresentano fitocenosi molto diffuse nel territorio laziale e, per la maggior parte, stret-tamente correlate alle attività antropiche. Nella fascia strettamente mediterranea le varie associazioni afferiscono alla classe Thero-Brachypodietea. In generale si presentano con copertura per lo più discontinua, di aspetto steppico e ricche di camefite e terofite. Occupano vaste superfici della regione e sono ca-ratterizzate da numerose specie termoxerofile ad areale tipicamente mediterraneo. Al di sopra della fascia mediterranea sono diffuse praterie ascrivibili alla classe Festuco-Brometea. Si tratta di pascoli steppici, perenni, meso-eutrofici e poco compatti che si rin-vengono sui rilievi montuosi. Su suoli alluvionali, lungo i corsi d'acqua e nelle piane irrigate si sviluppano aggruppamen-ti mesofili che presentano un'elevata copertura riferibili alla classe Molinio-Arrhenetheretea. Infine nella praterie d'altitudine, che si sviluppano al di sopra del limite del bosco di faggio a contatto con i cespuglieti a Juniperus nana (ginepro nano) Arctostaphylos uva-ursi (uva ursina) e Vaccinium myrtillus (mirtillo), si rinvengono specie di seslerieto quali Sesleria te-nuifolia, Carex kitaibeliana e Plantago atrata. Tali fitocenosi sono limitate ai sistemi mon-tuosi più elevati del Lazio (Monte Terminillo e Monti della Laga).

La vegetazione igrofila La distribuzione della vegetazione igrofila è strettamente correlata alle caratteristiche eco-logiche, idrauliche e geomorfologiche del corso d'acqua. Lungo il fiume la velocità della corrente è maggiore nel corso superiore montano, a causa della maggiore pendenza dell'alveo e diviene, unitamente al trasporto solido, un fattore li-mitante per l'insediamento della vegetazione igrofila nell’alveo, a causa delle sollecitazioni meccaniche indotte. Al variare dell'energia della corrente fluviale si vengono a determinare variazioni nel tra-sporto solido e nella sedimentazione che portano alla costituzione di alvei con materiali grossolani o con sedimenti fini, nella tipica seriazione longitudinale o trasversale, che in-fluenzano la distribuzione delle comunità vegetali. Anche l'elevata profondità del pelo libero costituisce un ostacolo per lo sviluppo della ve-getazione radicante, che manca negli alvei principali dei fiumi. L'elevata profondità si ac-compagna poi, in genere, ad una scarsa trasparenza delle acque e la torbidità limita la possibilità di sviluppo delle piante. Quando la portata idraulica assume valori elevati duran-te le piene, la vegetazione viene sommersa e la durata del periodo di sommersione diven-ta un ulteriore fattore limitante lo sviluppo delle fitocenosi igrofile. Anche il regime idraulico, che dipende in modo particolare dalla distribuzione delle precipi-tazioni, influisce sullo sviluppo della vegetazione. Regimi fluviali caratterizzati da portate poco variabili durante l’anno, garantiscono alla vegetazione un’habitat igrofilo, mentre re-gimi molto variabili creano condizioni di stress idrico che ne limitano lo sviluppo. La vegetazione igrofila si sviluppa in accordo con i parametri sopra delineati.

La vegetazione delle acque correnti Quando la corrente è molto veloce l’insediamento delle macrofite è impedito, mentre, in-vece, in presenza di un flusso abbastanza veloce, ma compatibile con la deposizione di sedimenti fini, l'insediamento delle comunità vegetali erbacee avviene con la costituzione di isole più o meno sommerse. In generale le specie che vegetano nella zona sopracorren-te, nelle parti esterne della fitocenosi, presentano apparati fogliari nastriformi sommersi, in modo da porre minor resistenza al flusso dell'acqua.

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Nella parte sottocorrente, verso il centro dell’isola vegetale, più riparata, si sviluppano in-vece specie con apparati fogliari di diverso tipo che raggiungono la superficie. In generale la struttura della vegetazione si adatta alle caratteriste idriche del corso d'acqua ed evolve con esso. Le fitocenosi acquatiche delle correnti rapide si riferiscono all'alleanza Ranunculion flui-tans e sono caratterizzate dalla presenza di specie del genere Ranunculus, sottogenere Batrachium, che comprende i ranuncoli d'acqua a fiori bianchi. Altre specie diffuse sono Veronica anagallis-aquatica, Berula erecta, V. beccabunga e Apium nodiflorum . In presenza di correnti più lente, come nei corsi d’acqua minori o nei canali d’irrigazione, la vegetazione raggiunge il pelo libero ed assume un copertura densa. Nella classe Potame-tea pectinati si raggruppano le comunità vegetali a rizofite (radicate sul fondo) e pleustofite del tipo idrocaridi (che galleggiano liberamente sulla superficie dell'acqua e con foglie gal-leggianti specializzate). Le specie più frequenti sono Hydrocharis morsus-ranae, Zanni-chellia palustris e varie specie del genere Potamogeton.

La vegetazione ripariale legnosa La vegetazione ripariale legnosa è condizionata da particolari condizioni ecologiche legate al rapporto con la falda che ne determina un carattere di azonalità rispetto alle fitocenosi terrestri della serie climacica con le quali entra in contatto. La sua distribuzione sul territorio avviene con differenti e caratteristiche associazioni se-condo una zonazione longitudinale lungo il corso d’acqua ed una trasversale allo stesso. Dalle sorgenti alla foce il fiume incontra situazioni climatiche, ecologiche e geomorfologi-che differenti legate all’altitudine, alla portata ed al regime idraulico, alla velocità dell’acqua, alla granulometria dell’alveo, alle caratteristiche chimico-fisiche delle acque, etc., che determinano situazioni diverse nel corso superiore, in quello medio e nell’inferiore. Mentre nel corso superiore montano la pendenza elevata, che determina una notevole capacità erosiva e di trasporto solido, può arrivare ad essere incompatibile con la presenza di associazioni vegetali in alveo o, nelle situazioni di minore energia cinetica al massimo con saliceti arbustivi, nelle parti inferiori del bacino trovano spazio ecologico le formazioni ripariali arboree di salici, pioppi e ontani. Per quanto riguarda la zonazione trasversale dei fiumi italiani, che dipende principalmente dai vari livelli di piena e dalle caratteristiche geometriche, morfologiche e granulometriche dell’alveo, possiamo far riferimento ad uno schema, peraltro analogo a quello dei fiumi eu-ropei, che vede a partire dalle sponde le formazioni a legno tenero di salici e pioppi che entrano in contatto sul terrazzo fluviale con le formazioni di legno duro a querce, frassini e olmi. Vengono di seguito descritte le fitocenosi ripariali legnose dei corsi d’acqua laziali secondo lo schema di Pedrotti e Gafta, che rientrano negli ordini sintassonomici Salicetalia purpu-reae e Populetalia albae

Salicetalia purpureae Comprende le associazioni pioniere arbustive ed arboree delle rive soggette a frequenti e prolungate piene e si distinguono in:

• Arbusteti pionieri su alluvioni grossolane caratterizzati da salici arbustivi (Salicion eleagni) Costituiscono cespuglieti e boscaglie, ad elevati valori di copertura, dominati da Sa-lix purpurea (salice rosso), Salix eleagnos (salice ripaiolo) e Populus nigra (pioppo

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nero) sui greti sassosi dei torrenti appenninici nel corso superiore, potendo giunge-re a colonizzare i depositi alluvionali delle isole fluviali. Lo strato erbaceo compren-de numerose specie caratteristiche sia dei greti sia degli ambienti circostanti quali Saponaria officinalis, Equisetum arvense, Rumex conglomeratus, Ranunculus re-pens, Urtica dioica, etc. Dal punto di vista fitosociologico questi consorzi sono inquadrati nell'associazione Saponario-Salicetum purpureae,che nel Lazio è stata segnalata ad Atina (Fr) e sul M.Terminillo.

• Boscaglie su alluvioni fini caratterizzate da salici (Salicion albae)

Rappresentano associazioni pioniere sulle sponde prevalentemente sabbiose del corso medio ed inferiore dei fiumi, con suoli non evoluti a basso tenore di humus e frequentemente sommerse dalle piene. Lo strato arboreo è dominato fisionomicamente da Salix alba (salice bianco) con, in subordine, Populus nigra, mentre nello strato arbustivo, a copertura rada, compaio-no Sambucus nigra (sambuco comune), Populus nigra e Salix alba; nell’erbaceo, sottoposto a continuo disturbo da parte delle piene si trovano specie ruderali e si-nantropiche quali Artemisia vulgaris, Parietaria diffusa, Urtica dioica, etc.

• Populetalia albae

L’ordine comprende le associazioni che si insediano sui terrazzi fluviali nelle zone meno frequentemente raggiunte dalle piene, su suoli alluvionali evoluti o su suoli zonali con varianti determinate da processi di gleyficazione.

• Boschi di pioppi e frassino ossifillo (Populion albae)

Occupano, in genere, le stazioni poste sui terrazzi più elevati dei saliceti, nei corsi medi ed inferiori dei fiumi. Nei pioppeti del Populetum albae lo strato arboreo è ca-ratterizzato da Populus alba (pioppo bianco), Populus nigra, Ulmus minor (olmo comune), Fraxinus oxycarpa (frassino ossifillo), mentre nell’arbustivo, ben rappre-sentato, si trovano Euonymus europaeus (berretta da prete), Crataegus monogyna, Ligustrum vulgare, Cornus sanguinea e Sambucus nigra. Lo strato erbaceo è carat-terizzato da Carex pendula, Stachys sylvatica, Vinca minor, Lythrum salicaria, Me-lissa officinalis, etc. Nella fascia costiera laziale si trova anche un frassineto a Fraxinus oxycarpa riferi-bile all’associazione Carici remotae-Fraxinetum oxycarpae con Ulmus minor, Popu-lus alba e Quercus robur (farnia), con uno strato arbustivo simile a quello del Popu-letum albae ed uno strato erbaceo a Carex pendula, Carex remota, Ranunculus la-nuginosus, Brachypodium sylvaticum, etc. Alcuni lembi di foresta della tenuta di Castel Porziano possono ascriversi al Fraxino oxycarpae–Quercetum roboris, un querceto dei depositi alluvionali più alti, eccezio-nalmente raggiunti dalle piene, su substrati misti sabbiosi, ove si formano suoli pro-fondi e ricchi di humus, ma con caratteriche di gleyficazione. Lo strato arboreo è dominato da Quercus robur, accompagnato da Fraxinus o-xycarpa, Ulmus minor, Populus alba, Populus nigra, Acer campestre, mentre l’arbustivo da Fraxinus oxycarpa, Ulmus minor, Acer campestre, Crataegus mono-gyna, Cornus sanguinea, Prunus spinosa. Nello strato erbaceo, ben rappresentato si trovano Carex pendula, Carex remota, Carex sylvatica, Brachypodium sylvati-cum, Viola reichembachiana, etc.

• Boschi di ontani (Alno-Ulmion)

Tali ontanete sono diffuse lungo la catena appenninica laziale e sono costituite da

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uno strato arboreo monospecifico ad Alnus glutinosa (ontano comune), con un sot-tobosco a Rubus caesius (rovo bluastro), Arum italicum, Carex pendula Humulus lupulus, Eupatorium cannabinum, Brachypodium sylvaticum, etc.

La vegetazione delle acque stagnanti Nelle situazioni di acque stagnanti o debolmente fluenti si sviluppano fitocenosi flottanti o affioranti ascrivibili all'alleanza Nymphaeion albae, caratterizzate dalle “ninfeidi” (con fusti ancorati al fondo e foglie galleggianti), quali, tra l'altro, Nuphar luteum, Nymphoides pelta-ta, Myriophyllum verticillatum e Ninphaea alba. Nell’ambiente palustre, piuttosto diffuso nel Lazio, la vegetazione è caratterizzata da con-sorzi a Phragmites australis, Typha sp. pl. e Schoenoplectus lacustris, che rientrano nel-l'alleanza Phragmition australis. Queste fitocenosi si sviluppano in ambienti legati a pro-cessi di interramento e si distribuiscono secondo una precisa zonazione dove, procedendo verso il corpo idrico, il fragmiteto occupa la prima fascia, seguito dal tifeto e, in acqua, dal-lo scirpeto che, rappresenta, quindi, l'aspetto pionieristico del canneto. A ridosso delle comunità dell'alleanza Phragmition, in particolare del fragmiteto, verso l'en-troterra si sviluppano le fitocenosi a grandi carici appartenenti all'alleanza Magnocaricion. Generalmente queste associazioni si trovano a diretto contatto con i boschi ripariali ed i boschi umidi. Le specie più diffuse sono Carex riparia e C. pseudocyperus. Sempre nell'ambito palustre dove l'acqua è poco profonda ed evidenzia una certa mobilità e limpidezza si sviluppa una vegetazione ascrivibile all'alleanza Sparganio-Glycerion flui-tuans. Le specie che più frequentemente ricorrono sono Apium nodiflorum, Veronica ana-gallis aquatica, Glyceria fluitans e Nasturtium officinale. Le comunità vegetali appartenenti alle classi Lemnetea minoris prevalgono particolarmen-te diffuse nei canali dell'Agro Pontino e sono caratterizzate da pleustofite ( idrofite som-merse o liberamente natanti in superficie, senza apparato radicante) di piccole dimensioni che costituiscono fitocenosi libere e flottanti sulla superficie dell'acqua. Le specie più diffu-se e note appartengono ai generi Azolla, Lemna, Spirodela, Wollfia e Salvinia.

4 Lineamenti del fitoclima del Lazio L’Italia, a causa delle sue caratteristiche geografiche e geomorfologiche presenta una grande varietà di condizioni climatiche, che tuttavia dal punto di vista del rapporto clima-piante possono ricondursi alle due grandi regioni bioclimatiche temperata e mediterranea. Il bioclima mediterraneo si differenzia essenzialmente da quello temperato per la presenza di un periodo di aridità estivo (evento raro sulla superficie terrestre ove, di norma, in esta-te, per l’aumento della evaporazione marina, aumentano le precipitazioni) e per tempera-ture medie annuali più elevate, con numerose differenziazioni al suo interno, in funzione della latitudine, altitudine e distanza dal mare. Il confine tra le due regioni veniva individuato (Pignatti, 1979 e 1988) lungo lo spartiacque dell’Appennino Tosco-Emiliano, con la Pianura Padana e l’arco alpino da una parte e la Liguria con la penisola e le isole dall’altra. Recenti studi, che applicano gli indici di Rivas-Martinez ed estendono a livello nazionale le analisi fitoclimatiche del Lazio e della Campa-

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nia (Blasi, 1996), stabiliscono l’appartenenza di gran parte della catena appenninica alla Regione temperata, spostando verso sud il confine tra le due grandi regioni bioclimatiche. La correlazione tra le tipologie vegetazionali ed il clima è stata ampiamente dimostrata e gli studi fitoclimatici risultano fondamentali per gli studi fitosociologici e fitogeografici della vegetazione di un territorio. Uno studio sul fitoclima del Lazio (Blasi, 1994) ha esaminato i rapporti tra il clima e la ve-getazione individuando 15 unità fitoclimatiche, appartenenti a quattro regioni bioclimatiche, definite in base ai dati di temperatura e precipitazione (1985-1955), integrati con alcuni in-dici bioclimatici ed il censimento delle specie legnose. Lo studio descrive inoltre ogni unità fitoclimatica in termini floristici e fitosociologici, individuando delle “macroserie” di vegeta-zione. Nel rimandare per gli approfondimenti allo studio suddetto, viene presentata una sintesi delle informazioni , sia in termini di tabelle riassuntive che di descrizione. Vengono inoltre riportati alcuni diagrammi ombrotermici di Bagnouls-Gaussen, che forni-scono un utile strumento nelle classificazioni climatiche, offrendo una rappresentazione delle variazioni delle temperature e precipitazioni nel corso dell’anno. Le 15 unità fitoclimatiche sono state accorpate, per una analisi semplificata, nelle quattro grandi Regioni fitoclimatiche (Fig. 8.7):

Fig. 8.7

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Regione mediterranea Comprende la zona litoranea del Lazio ed è caratterizzata da condizioni climatiche caldo- aride; si va dagli aspetti più xerici della macchia mediterranea delle Isole Ponziane caratte-rizzate da precipitazioni annue di 649 mm. con aridità estiva di 5 mesi e temperatura me-dia delle minime del mese più freddo di 8,3°, ai querceti misti di caducifoglie dell’Agro Pon-tino, con precipitazioni annue di 1133 mm., aridità estiva di 4 mesi e temperatura media delle minime del mese più freddo di circa 4°. Le unità fitoclimatiche di transizione tra questi estremi vanno dalle formazioni sempreverdi di leccio e sughera a quelle dei querceti di caducifoglie a roverella.

Regione mediterranea di transizione La fascia di territorio della Maremma laziale interna, della regione tolfetana e sabatina, del-la Campagna Romana, dei Colli Albani e dei versanti sud-occidentali dell’Antiappennino meridionale, fino alla piana di Pontecorvo e Cassino è caratterizzata da un clima con pre-cipitazioni annuali comprese tra 810 e 1519 mm., una l’aridità estiva ridotta a due o tre mesi ed una temperatura media delle minime del mese più freddo intorno ai 2,3° -4 °. La vegetazione forestale prevalente è rappresentata dalle leccete, dai querceti a Roverella e dalle cerrete.

Regione temperata di transizione I querceti a roverella e cerro con elementi della flora mediterranea occupano la valle del F.Tevere tra Orte e Monterotondo e la valle del F.Sacco tra Zagarolo ed Aquino. Le precipitazioni vanno dai 954 ai 1233 mm. e l’aridità estiva è di uno o due mesi; la tem-peratura media delle minime del mese più freddo è inferiore a 0° e distingue questa regio-ne rispetto alle precedenti.

Regione temperata Tale fitoclima si riscontra nella parte del Lazio a maggior distanza dal mare e sui rilievi montuosi, comprendendo la regione vulsina e vicana, l’Appennino reatino, l’Antiappennino meridionale (Lepini, Ausoni, Aurunci ), le vette dei Colli Albani, i M.Simbruini ed i M. Ernici. Le precipitazioni sono in genere abbondanti, fino a 1614 mm., l’aridità estiva è assente o poco accentuata, mentre la temperatura media delle minime del mese più freddo è in ge-nere inferiore a 0°. Tali condizioni climatiche favoriscono una vegetazione forestale che, nelle parti più elevate, è dominata dagli arbusteti altomontani e dalla faggeta, mentre nelle zone pedemontane e nelle valli è rappresentata dagli Ostrieti e dai querceti misti di Rove-rella e Cerro. Considerazioni per l’impiego delle specie vegetali negli interventi di ingegneria na-turalistica Tale distribuzione fitoclimatica per fasce caratteristiche in funzione della distanza dal mare e dell’altitudine, con una regione temperata a precipitazioni abbondanti ed assenza di ari-dità estiva e con regioni di transizione fino alla regione Mediterranea costiera calda, con

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aridità estiva fino a 5 mesi, pone problematiche differenti per un impiego con successo delle tecniche di ingegneria naturalistica nel Lazio. Le maggiori esperienze di utilizzo delle tecniche di ingegneria naturalistica risultano, infatti, in ambiti climatici diversi da quello mediterraneo, con situazioni ecologiche meno sfavore-voli all’attecchimento delle specie vegetali. L’ambiente storico di impiego delle tecniche di I.N. è infatti quello delle regioni dell’arco alpino, caratterizzato da un clima più mesofilo (più fresco, più umido e con estati senza grossi stress idrici) di quello mediterraneo. Tali condi-zioni sono assimilabili a quelle delle zone dell’interno del Lazio, ove è quindi possibile, con le necessarie trasposizioni alle realtà locali, un impiego delle specie vegetali con modalità di intervento molto simili a quelle delle zone dell’arco alpino. I problemi legati all’utilizzo delle piante vive in ambito mediterraneo sono invece:

• la presenza di un periodo estivo xerico con stress idrico, che ha determinato nelle piante mediterranee una serie di adattamenti biologici (sclerofillia, tomentosità, etc.);

• la presenza di una stagione vegetativa più lunga di quella delle regioni alpine, con conseguente periodo più breve per l’utilizzo di specie con capacità di riproduzione vegetativa, quali i salici o le tamerici, le cui talee si raccolgono tipicamente nella stagione del riposo vegetativo

• la difficile reperibilità del materiale vivaistico, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Ne deriva la necessità di maggiori accorgimenti per la scelta delle specie vegetali per gli interventi di ingegneria naturalistica, in quanto le specie autoctone di comune impiego e maggiormente reperibili nei vivai non sempre garantiscono l’attecchimento nelle condizioni ecologiche difficili dell’ambiente mediterraneo. Analogamente l’utilizzo massiccio dei salici, se risulta compatibile, dal punto di vista ecologico, con le caratteristiche delle stazioni umi-de, quali quelle delle sistemazioni idrauliche, va ben valutato nelle altre situazioni ambien-tali. Emerge quindi la esigenza del reperimento di specie xerofile mediterranee erbacee, arbustive ed arboree, che non sempre il mercato vivaistico pubblico o privato è in grado di soddisfare. Esiste inoltre il problema, soprattutto nelle aree protette, della provenienza del materiale vivaistico anche per le specie autoctone, per il pericolo dell’inquinamento genetico dovuto a razze, varietà o cultivar provenienti da altre regioni o addirittura nazioni.

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5 Gli aspetti faunistici La natura del paesaggio geologico ha influenzato nel corso del tempo le condizioni di e-sposizione e di piovosità, la circolazione delle acque, che si infiltrano o scorrono in super-ficie, la qualità e la natura della copertura vegetazionale, e di conseguenza le comunità a-nimali. Questi fatti hanno generato una estrema varietà di ambienti, caratterizzati da una vegetazione quanto mai diversa tale da riflettersi anche nella fauna, che si presenta tra le più ricche dell'Italia centrale e di grande importanza per la conservazione della specie. La ricchezza faunistica del territorio laziale si traduce sia nella presenza in generale di popo-lamenti ad alta diversità, sia nella presenza di singole specie di elevato valore perché rare o di particolare interesse bio-geografico. A titolo d'esempio, basta ricordare che tra le 60 specie censite di Mammiferi sono presenti almeno la metà (15 su 30) delle specie segnalate in pericolo di estinzione in Europa. Tra questi, di estremo interesse sono le diverse specie di carnivori, tra cui spiccano "ospiti d'eccezione" quali l'orso, il lupo e la lontra. Analoga situazione si registra tra i falconiformi, uccelli che come i carnivori si trovano al vertice delle catene alimentari e quindi sono ottimi indicatori della qualità ambientale. Il Lazio ospita ben 13 specie nidificanti, tutte minacciate d'estinzione in Europa, tra cui si ricordano il lanario, l'aquila reale, l'albanella minore. Per la sua particolare posizione geografica, inoltre, il Lazio costituisce per l'avifauna migra-toria una zona di transito tra le più importanti d'Italia, accogliendo durante il periodo dei passi stagionali centinaia di specie diverse, dai piccoli passeriformi dei boschi agli uccelli acquatici, tra cui si annoverano moltissime entità minacciate d'estinzione a causa della in-calzante rarefazione delle zone umide in tutta Europa. Ricca e diversa appare anche l'erpetofauna, che comprende la maggior parte delle specie tipiche dell'area appenninica. I Rettili comprendono 22 specie tra cui la rara testuggine d'acqua e la vipera dell'Orsini. Tra le 15 specie di Anfibi presenti sul territorio laziale, si ri-cordano specie di elevato interesse quale la salamandra pezzata e la salamandrina dagli occhiali, endemica appenninica, entrambe legate ad ambienti particolarmente integri, e l'unica popolazione dell'Appennino centrale del tritone alpestre. Interessanti endemismi si riscontrano anche nell'ittiofauna d'acqua dolce, come il carpione del Lago di Posta Fibreno e il ghiozzo di ruscello. Altri elementi di elevato interesse biogeografico sono le cosiddette "specie relitte", come il camoscio d'Abruzzo, presente nel settore laziale del Parco Nazionale d'Abruzzo, e l'arvico-la delle nevi, localizzata sulle Montagne della Duchessa, che analogamente alle specie endemiche costituiscono le testimonianze viventi di antichi eventi geologici che hanno at-traversato il Lazio in un lontanissimo passato.

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I LUOGHI

Colli Albani I Colli Albani sono un gruppo di rilievi che si innalzano nella campagna a sud-est di Roma, costituiti dai depositi di un vulcano, il Vulcano Laziale, dell'Era Quaternaria, di cui riman-gono tracce ben visibili nei laghi di Albano e di Nemi formatisi da due suoi crateri. Le altezze maggiori sono raggiunte in corrispondenza delle cime della Faete (956 m.), del monte Cavo (949 m.), del monte Peschio (939 m.), del colle Jano (938 m.) e del Maschio Lariano (891 m.). I Pratoni del Vivaro, situati tra Velletri e Rocca Priora ma appartenenti principalmente al comune di Rocca di Papa, si trovano ad una altezza di circa 550 m. La zona dei Colli Albani è comunemente indicata come i Castelli Romani o più semplice-mente i Castelli.

Storia La zona dei Colli Albani, abitata sin dal paleolitico, ha visto un primo forte incremento de-mografico a seguito della cessazione degli ultimi fenomeni vulcanici (circa 30-50.000 anni fa) che ne hanno fissato l'attuale conformazione. I primi insediamenti con caratteristiche di aggregati urbani, riferibili a popolazioni di origine latina, sono posti dalla tradizione storica romana nel XII secolo a.C. ( quattro secoli prima della fondazione di Roma) e corrispondono alle antiche città-stato di Alba Longa, Tuscu-lum, Aricia e Lanuvium, tutte molto vicine tra di loro; altri insediamenti di popolazioni agri-cole di etnia latina si ebbero sui colli tufacei del Lazio e della Campania: i Falisci sul medio corso del Tevere e gli Aurunci più a sud dei 'Colli Albani'. La città latina di Alba Longa, la più importante tra le città latine dei colli e quella da cui il mito fa discendere Romolo e Remo, sorse da un insediamento di villaggi agricoli insediati sulla linea pedemontana tra i laghi vulcanici e deve il suo nome all'andamento lineare del-l'insediamento che costeggiava i bordi del lago, da cui il nome di "longa" cioè allungata. Gli abitanti latini dei colli rimasero per secoli una spina nel fianco di Roma, e nonostante la distruzione di Albalonga e la deportazione della sua popolazione sul colle Celio, per opera del re di Roma Tullo Ostilio come conseguenza della sconfitta dei Curiazi ad opera degli Orazi, furono definitivamente sottomessi solo con la battaglia presso Trifano del 339 a.C. ed il conseguente sciogliemento della Lega Latina dell'anno successivo (338).

Aniene Il fiume Aniene (detto all'antica, popolarmente, Teverone, termine che era relativo soprat-tutto alla parte bassa del fiume e che non si usa più da almeno cinquant'anni) è lungo 99 km, e il principale affluente di sinistra del Tevere dopo il Fiume Nera.

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Nasce al confine tra il Lazio e l'Abruzzo, nei monti Simbruini (il nome di questo sistema montuoso deriva dal latino sub imbribus, cioè sotto le acque), tra le province di Roma e di Frosinone. La piovosità del bacino e la natura carsica del territorio (costituito geologica-mente da calcari fessurati) generano in queste montagne vari corsi d'acqua e sorgenti pe-renni, alcune assai copiose che provengono in molti casi anche da molto lontano, proba-bilmente da zone esterne al bacino idrografico dell'Aniene. L'Aniene genera da due rami principali: Aniene propriamente detto e Simbrivio. Riguardo all'Aniene propriamente detto, la sorgente più lontana dalla foce ha nome Capo Aniene o Sorgente di Riglioso ed è posta 1.200 m/s.l.m. sul versante meridionale del Monte Tarino (m 1.959); ma la sorgente più copiosa (1,5 mc/sec) è posta un po' a valle, alle grotte del Pertuso, tra Filettino e Trevi, in provincia appunto di Frosinone. Il Simbrivio, invece, nasce da una serie di sorgenti che scaturiscono dal Monte Autore (m 1.853), dal Monte Tarinello e dal Monte Arsalone e confluisce, da destra, nell'Aniene dopo Trevi. Poco prima della confluenza con Simbrivio, l'Aniene forma le belle e caratteristiche Cascate di Trevi che, specie negli anni '60 del XX secolo fecero da ambientazione d'innumerevoli scene dei film di genere mitologico e peplum girati da registi italiani ed americani. A valle di Trevi, il fiume scorre in una valle molto incassata ricevendo solo piccoli tributi idrici, fra i quali si annove-ra quello della Sorgente dell'Inferniglio che gli tributa da destra presso Jenne con portate variabili da 0,1 a 1,6 mc/sec. Dopo avere bagnato Subiaco, la valle s'allarga e il fiume ri-ceve parte del tributo delle copiose e famosissime Sorgenti dell'Acqua Marcia (fin dall'epo-ca Romana captate per la maggior parte dall'acquedotto a servizio di Roma (vedere dopo) che vi prende il nome. Dopo il salto della grande cascata di Tivoli (e relative e successive cascatelle visibili dalla via Palombarese), l'Aniene arriva nella pianura romana, e si avvia al punto di confluenza con il Tevere, in comune di Roma, ai Prati Fiscali nei pressi di ponte Salario.

Storia ed economia L'abbondanza e la continuità delle acque che lo alimentano fanno dell'Aniene un fiume di buona portata, che fu infatti utilizzato fin dall'antichità per alimentare acquedotti, e succes-sivamente come risorsa per la produzione industriale locale e per la produzione di energia elettrica. La captazione delle acque dell'Aniene ha una lunga storia: comincia a metà del II secolo a.C. con il primo acquedotto fatto costruire dal pretore Quinto Marcio, al quale fino all'età dei Claudi se ne aggiunsero altri due, sulla stessa direttrice e in alcuni punti sovrapposti o paralleli. Da qui il nome di acqua Marcia che l'insieme di queste acque assunse e mantie-ne nell'approvvigionamento idrico di Roma (al quale ancora contribuisce). In età romana sorsero lungo tutta la val d'Aniene numerose ville romane, tra cui quella di Nerone a Subiaco. Nel Medioevo poi la zona divenne rifugio di popolazioni in fuga dai bar-bari e sede di castelli, eremi e monasteri (spesso insediati sulle antiche strutture romane), il più noto dei quali è il monastero benedettino di Subiaco. Due eccezionali "prodotti" dell'Aniene a Tivoli sono:

• la Villa d'Este, i cui giochi d'acqua furono alimentati derivando l'acqua appunto dal-l'Aniene attraverso un cunicolo artificiale;

• la Villa Gregoriana, recentemente restaurata dal FAI, tipico e poco noto esempio di giardino romantico.

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La varietà della conformazione geologica del percorso e la presenza di diversi salti hanno fatto sì che l'Aniene fin dal 1884 sia stato utilizzato per la produzione di energia elettrica (il che diede luogo nel secolo scorso ad un notevole sviluppo industriale nelle città di Subiaco e di Tivoli).

L'Aniene oggi La struttura amministrativa che oggi collega i comuni lungo l'alta valle dell'Aniene è la Co-munità montana X dell'Aniene, che comprende i 33 comuni di:

• Affile, Ágosta, Anticoli Corrado, Arcinazzo Romano, Arsoli; • Bellegra; • Camerata Nuova, Canterano, Cerreto Laziale, Cervara di Roma, Cineto Romano; • Gerano; • Jenne; • Licenza; • Mandela, Marano Equo; • Olevano Romano; • Percile; • Riofreddo, Rocca Canterano, Rocca Santo Stefano, Roccagiovine, Roiate, Rovia-

no; • Sambuci, Saracinesco, Subiaco; • Trevi nel Lazio; • Vallepietra, Vallinfreda, Vicovaro, Vivaro Romano;

La chiusura tra gli anni '70 e '80 di quasi tutte le industrie a monte non ha forse giovato al-l'economia locale, ma ha fatto sì che nel fiume, che nel secolo scorso le industrie (in parti-colare cartiere) avevano pesantemente inquinato, sia ricomparsa la fauna dei fiumi sani, trote e gamberi di fiume. La totale riconversione economica della conurbazione romana verso il settore commerciale e dei servizi e la nuova sensibilità ambientale hanno favorito l'istituzione e la cura di aree protette anche nella zona urbana.

Dati generali Lunghezza: 99 km Altitudine della sorgente: 1.075 m s.l.m. Bacino idrografico: 1.414 km² Dove nasce: Filettino (FR) Dove sfocia: Tevere (Roma ponte Salario) Paesi attraversati: Subiaco, Tivoli + 31 in provincia di Roma; Trevi e Piglio in provincia di Frosinone

Le Isole Pontine Le isole sono da sempre luoghi ideali, simboli della mente. Quando dal mare appare la sagoma di un'isola, eccola divenire luogo dell'anima; giunti sotto costa le rupi e le rocce sporgenti ci ispireranno timore e meraviglia. Sbarcati a terra ci sentiremo raccontare dagli isolani fiabe e leggende aventi per tema co-se tremende o fantastiche: nell'Arcipelago Pontino queste storie vengono narrate più che altrove.

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Il gruppo delle isole Pontine è formato da 2 sottogruppi: Ponza, Palmarola, Zannone e Giavi, a nord-ovest, e Ventotene e Santo Stefano, a sud-est. Tra i due sottogruppi corrono circa 22 miglia nautiche. Entrambi i gruppi hanno origine vulcanica, con la sola eccezione di Zannone, che presenta rocce sedimentarie e metamorfiche. Tutte le isole vulcaniche hanno una morfologia tor-mentata: cale, punte, faraglioni, grotte si susseguono senza interruzione, formando un pa-esaggio emerso emozionante, che ha una corrispondenza pressochè speculare nel pae-saggio sottomarino.

Ponza Molte isole in passato conobbero il destino di essere luoghi d'esilio; Ponza lo fu, 2 millenni fa, per importanti personaggi come Agrippina e forse anche Nerone. La saggezza dei marinai dell'isola aveva avuto modo di farsi conoscere bene nel passato del Mediterraneo; come quando i romani in difficoltà contro i cartaginesi, durante le guerre puniche, chiesero il loro aiuto. E come quando, nel 157(dopo tanti vittoriosi scontri navali contro i pirati barbareschi) le galee ponzesi, romane e napoletane sconfissero a Palmarola una flotta piratesca. E quando, ai primi dell'Ottocento, alcuni ponzesi divennero temuti navigatori anti-pirati. In questi fondali prima lo sport, poi l'esplorazione hanno avuto uno spazio grandioso ove svilupparsi. Anche perchè l'Arcipelago è punteggiato da altre isole, ancora in gran parte sconosciute e da scoprire: le sommerse isole d'acciaio, i relitti di navi perdute nel tempo delle due guerre mondiali. È ben noto il relitto di una nave da trasporto Liberty, americana, affondata dalla tempesta nel marzo 1944 presso la costa di Ponza, davanti a Punta del Papa. A circa 6 miglia a sud-est di Ponza si erge solitario dal mare lo scoglio della Botte.

Palmarola È un isola di una certa grandezza che riesce ad essere praticamente integrata malgrado disti poco più di 60 miglia da una grande metropoli d'Italia come Roma. Palmarola è formata da rocce vulcaniche multicolori e acque trasparenti e profonde, mi-raggio di fondali da esplorare e scoprire. Oggi è una riserva naturale protetta.

Zannone Zannone è parte viva e integrata del Parco Nazionale del Circeo; è sorvegliata da guardie forestali. La "casa del faro" evoca il ricordo di vecchi film del mistero e d'avventure. Sull'isola si trova la casa del custode, i ruderi di un convento medioevale. A Zannone il mondo sottomarino riflette la realtà dell'isola in superficie: coperta dal manto di fitto bosco verde, fuori, un'altro bosco copre molte pareti dei suoi fondali: selve di gor-gonie fitte e fluttuanti, e viola delle loro chiome diventa rosso fuoco. Sull'isola si trova an-che un interessante resto archeologico: una pesciera di età romana ricavata nella roccia, è collegata al mare da un condotto subacqueo; è accessibile attraverso una scalinata ester-na, in prossimità dell'approdo del Varo.

Ventotene

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Meta anch'essa d'anno in anno di un turismo crescente, Ventotene attira non solo per la bellezza o perchè da luogo di pena è diventato luogo di luogo di vacanza; ma forse anche perchè la "Roma antica", altrove solo un rudere, qui è viva. Infatti è ancora operante il suo porto, di grande suggestione per chiunque capisca cosa si-gnifichi gettar l'ancora in uno spazio marino attrezzato, in un lembo di tempo antico per il quale duemila anni non sono passati: il molo di questo porto e le sue bitte, i suoi magazzi-ni tutti scavati al vivo nella tenera roccia vulcanica locale, sono gli stessi di un tempo. È Santo Stefano destinata al lucubre compito di isola penitenziario dal tempo dei Borboni si-no a tre decenni fa. E' ancora dominata dall'edificio carcerario abbandonato al suo destino ma tuttora mastodontico e integro nella sua struttura che ricorda allo stesso tempo castelli di Kafkiana memoria. L'isola infatti ebbe una presenza umana stabile solo quando Ferdinando IV, re di Napoli, decise di costruirvi un carcere; dette incarico all'architetto Francesco Carpi di progettare un ergastolo modello. Fu ultimanto il 26 settembre 1795 e tra i primi detenuti si dice vi sia stato proprio lo stesso progettista incarcerato dal re per divergenze politiche. Nel corso degli anni l'ergastolo eb-be come "ospiti" molti personaggi importanti, tra cui Luigi Settembrini, l'anarchico Bresci, uccisore del re Umberto I, e Sandro Pertini con altri antifascisti.

S.Stefano A poco più di mezzo miglio da Ventotene, per lunghi anni ha legato il suo nome all'erga-stolo (l'edificio circolare fu costituito nel 1974-75 dall'Architetto Carpi) ormai soppresso. Gli immobili del penitenziario costituiscono motivo per una visita non solo curiosa.

Il Mar Tirreno Il Mar Tirreno ha la forma di un triangolo rettangolo, un lato è costituito dalla parte orienta-le delle coste corsa e sarda, l'altro dalla costa settentrionale della Sicilia, il lato più lungo è formato dalla costa calabra, campana, laziale e toscana fino a Piombino dove passa il confine virtuale che lo separa dal Mar Ligure.

Fondali scende fino a notevoli profondità e tra Ponza ed Ustica raggiunge quella massima del Me-diterraneo occidentale con 3620 m. La piattaforma continentale è sviluppata soprattutto dal promontorio di Piombino alla peni-sola sorrentina, lungo le coste del Cilento, Sicilia orientale, Sardegna settentrionale e Cor-sica meridionale, in queste località dalla linea di costa la piattaforma si estende con am-piezze variabili tra 9 e 65 km. La piattaforma continentale è pressoché assente ed il fondale raggiunge notevoli profondi-tà nelle immediate vicinanze della costa, lungo le coste calabre, Sicilia settentrionale e a sud della penisola sorrentina. Oltre la piattaforma continentale si arriva alla scarpata, caratterizzata dalla presenza di ca-tene montuose sommerse, fosse e canyons sottomarini. La piana batiale si trova nella zona centro meridionale del bacino, ha una profondità media di oltre 3000 m ed è interrotta da veri e propri rilievi montuosi, come il Monte Vavilov che si

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trova nel centro del Tirreno, immediatamente a nord ed a sud di questo promontorio si raggiungono le maggiori profondità.

Venti il mar Tirreno data la sua grande ampiezza risente di quelle che sono le condizioni del tempo del Mediterraneo occidentale. Venti freddi ed impetuosi come il maestrale, che dalla valle del Rodano si getta nel Medi-terraneo, e la tramontana provocano mareggiate che investono le coste della Sardegna, le coste toscane ed il Lazio, riversandosi poi nel Medio e basso Tirreno ed in Sicilia. Il libeccio, che proviene da sud-ovest origina forti mareggiate con venti di tempesta che battono soprattutto le coste toscane, laziali e calabre. Lo scirocco e l'ostro, sono venti me-ridionali caldo umidi che portano pioggia e temporali.

Correnti la corrente principale di superficie proviene dallo stretto di Gibilterra, lambisce le coste a-fricane entra nel Tirreno, tocca le coste settentrionali sicule, risale quelle calabresi e cam-pane dividendosi in due rami, uno forma una circolazione ciclonica che interessa il basso tirreno, l'altro si dirige verso le coste toscane ed il Mar ligure piegando di nuovo verso sud per lambire le coste orientali sarde. A profondità maggiori una corrente di acque più calde segue lo stesso tragitto mantenen-dosi più bassa per effetto della maggiore densità dovuta alla salinità più elevata.

Pesca i tipi di pesca principalmente praticati sono la pesca con reti da circuizione, per la cattura di alici e sardine, lo strascico e reti da posta, per polpi, sogliole, naselli. La pesca dei grandi pelagici come il tonno è praticata dalle tonnare salernitane che se-guono i tonni fino in Adriatico per pescarli con i loro grandi ciancioli.

LE GENTI

Il contesto antropico del bacino del Tevere Negli ultimi cinquanta anni è aumentata enormemente la pressione antropica lungo tutto l'asse del fiume, sono aumenti, infatti, gli insediamenti civili, le infrastrutture, gli insedia-menti industriali, le opere idrauliche. Nell'ambito del bacino idrografico del Tevere sono lo-calizzati alcuni agglomerati civili di particolare importanza, fra cui Roma, per un totale di 3.600.000 abitanti che rappresentano un grande problema sulla qualità delle acque in ter-mini di scarichi civili. Nel bacino del Tevere, e molto spesso nella valle del Tevere, cioè nelle strette vicinanze del corso d'acqua, si localizzano agglomerati industriali particolarmente rilevanti. il più del-le volte tali agglomerati sono a margine dei grandi insediamenti civili (Roma, Terni, Peru-gia, Rieti).In alcuni casi si riscontrano anche poli industriali non secondari in zone non im-mediatamente vicine ai centri abitati. (Tra questi si citano: il comprensorio tra Orte, Civita Castellana e Magliano Sabino per le attività estrattive(tufi) e per la lavorazione e produzio-ne di ceramiche; Narni, Orte, Orvieto, Deruta, Spoleto, Foligno, Umbertine) per un totale di

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più 700.000 unità di cui 51.000 potenzialmente a rischio di impatto sulla qualità delle ac-que Due attività particolarmente critiche nei termini dell'impatto sul fiume sono quelle connesse all'estrazione di materiali e alla gestione dei rifiuti, anche se non è semplice valutare signi-ficativamente quanto pesino sullo stato ambientale del fiume o più in generale del bacino. Gli impatti più gravi sono riconducibili ai seguenti aspetti: variazione del trasporto solido, instabilità dei versanti, dissesti localizzati e di versante, erosione alla foce, riduzione della qualità dell'acqua. Le attività maggiormente critiche sono ovviamente quelle di prelievo di inerti in alveo o di estrazione di materiali in prossimità delle sponde, in zone periodicamente soggette ad e-sondazione molto spesso condotte in regime non propriamente legittimo. Le attività di gestione dei rifiuti che, da una parte rappresentano una porzione non trascu-rabile dell'economia locale, costituiscono un fattore di pressione di grande rilevanza sul territorio e conseguentemente sul bacino idrografico. Il numero delle attività dal 1991 al 1996 è salito vertiginosamente da 452 a 736 censite (quasi del 40%). La situazione più critica, quantomeno per dimensione, è senz'altro quella di Malagrotta, ove vengono smaltiti i rifiuti di Roma, Ciampino, Fiumicino e della Città del Vaticano per un totale di circa 1.600.000 tonnellate di rifiuti all'anno. La valle del Tevere è inoltre attraversata da due imponenti infrastrutture di trasporto, la di-rettissima Roma Firenze e l'Autostrada del Sole che attraversano più volte il fiume, anche in viadotto, interferendo con l'idraulica di superficie specialmente nelle situazioni di piena. A tali infrastrutture si aggiungono la ferrovia lenta Roma Firenze e le strade statali Tiberina e Flaminia l'autostrada Roma L'Aquila lungo la valle dell'Aniene e, nel tratto terminale del Tevere, l'autostrada Roma Fiumicino. Quest'ultima rappresenta senz'altro un elemento di particolare interferenza con il fiume, per effetto della morfologia dell'alveo, caratterizzato da ampie anse attraversate dall'infra-struttura con imponenti opere e in ragione dell' idraulica locale, frequentemente caratteriz-zata da fenomeni di esondazione. Localizzate lungo il corso del Tevere, a monte di Roma, vi sono altre opere che hanno modificato notevolmente la portata media e quindi le capacità autodepurative del Tevere ; esse hanno avuto, prevalentemente, finalità legate agli aspetti idraulici: dalla utilizzazione delle acque per la produzione di energia elettrica alla difesa dalle inondazioni. Così la co-struzione di dighe a monte della città lungo il percorso del fiume hanno mutato il regime locale dei deflussi e hanno anche provocato cambiamenti negli equilibri ambientali di baci-no Gli effetti più importanti di tali opere in termini di bilancio ambientale riguardano:

1. la riduzione dei fenomeni di esondazione. sia in termini di frequenza degli eventi, sia in termini di magnitudo della manifestazione

2. la creazione di invasi che hanno modificato localmente il territorio con impatti sia po-sitivi che negativi sull'ecosistema, sull'idrogeologia, sull'assetto e la gestione dell'an-tropizzato

Un impianto di particolare importanza sul regime idrico a Roma è quello di Castelgiubileo, subito a monte di Roma. Si tratta di una traversa realizzata per scopi idroelettrici. La ge-stione di questo sbarramento provoca un'oscillazione dei livelli idrici del fiume contenuta in alcune decine di centimetri; i periodi delle oscillazioni sono all'ordine di qualche ora. Gli effetti ambientali di quest'opera non sembrano rilevanti, anche se sarebbe interessante approfondire l'impatto di tali oscillazioni sulle vegetazioni e sulle comunità macrobentoni-che che popolano la fascia alternativamente umida e secca.

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Problemi gravi che riguardano le dinamiche insediative sono: gli insediamenti spontanei sorti al di fuori delle regole di pianificazione urbanistica e territoriale e l'abbandono di terri-tori. I primi sono a forte rischio idraulico perché costruiti in aree golenali o in zone di foce, tra i meandri del fiume o nelle immediate vicinanze dell'alveo specialmente nella zona del-la foce del fiume (Fiumicino). L'abbandono dei territori ha determinato, in questi ultimi anni, la mancanza di manutenzio-ne dei versanti ed ha innescato eventi franosi e l'aumento sensibile dei deflussi di piena a valle.

Gli Arii protolatini I Protolatini occuparono un territorio notevolmente esteso: alla vigilia della penetrazione osco-umbra sono stanziati, per lo meno, lungo tutta la costa tirrenica e nel relativo entro-terra appenninico dal Lazio alla Sicilia orientale. Di questo gruppo compatto, che presenta caratteristiche abbastanza ben definite, fanno parte Latini (fra cui i Falisci), Ausoni, Opici, Enotri, Itali, Siculi e, forse, Morgeti e Coni. È verosimile che allo stesso gruppo appartenga anche quello strato di Liguri che contribuirono, coi posteriori Celti, ad indoeuropeizzare il linguaggio anario (=non ario) dei loro predecessori e, secondo quanto pensano alcuni glot-tologi, anche dei Piceni. È chiaro, dunque, che in età storica i Protolatini hanno già subito varie pressioni e, conseguentemente, non costituiscono più quel gruppo compatto che par-rebbe lecito supporre sulla base della loro distribuzione geografica in età posteriore. Non mi pare assurda l'ipotesi che, oltre alla penetrazione osca di cui dovremo discorrere, abbia contribuito a questo smembramento anche una presumibile penetrazione « pirenaica » e la costituzione dello Stato etrusco. Ma questa che abbiamo sommariamente descritta non fu verosimilmente l'unica area italiana abitata da genti parlanti linguaggi indoeuropei: quando si tenga presente che, provenendo certamente da est, queste genti si ritrovano quasi esclusivamente nella parte occidentale della Penisola, è giocoforza ammettere che a nord o a sud si debba trovare traccia, se non altro, di un loro passaggio. Una di queste tracce sarebbe offerta dalle tombe «sicule» del Salento", anche se la maggior parte degli studiosi, cerca la « via » dei protolatini piuttosto a nord, attraverso i passi delle Alpi orien-tali. Quando poi il fenomeno si sia realizzato è ancora questione aperta come tutte le questioni preistoriche. Si tende oggi ad abbassare la data fino al XV secolo, e in realtà la datazione desanctisiana - il De Sanctis considerava presenti i Protolatini nella valle del Po anterior-mente al 2000 a.C. in piena età neolitica - è posta in dubbio dal fatto che proprio nel perio-do neolitico sembra ora collocabile una penetrazione di civiltà pirenaica anche nella Valle Padana e in Emilia. Conviene dunque rifarsi, per averne un punto di riferimento ormai ab-bastanza sicuro, alla penisola balcanica. Qui gli Achei (« Micenei ») sono presumibilmente giunti in epoca notevolmente anteriore al XV secolo, nel quale li troviamo già insediati in Creta e già capaci di elaborare una scrittura come la lineare B con la quale esprimono un linguaggio «eolico», parente stretto, secondo l'opinione dei glottologi, dei dialetti osco-umbri. Quando poi cedesti «Eoli» vengono incalzati dai Dori per la tradizione siamo, col « ritorno degli Eraclidi », nel XII secolo e l'archeologia sembra suffragare la data - se ne ha, quasi come contraccolpo o come parallela, la penetrazione in Italia degli Osco-Umbri, da-tabile forse verso l’XI secolo. Risalendo all'indietro, si potrà - per analogia - far corrispondere la penetrazione protolatina in Italia ad un'epoca press'a poco corrispondente a quella della «eolizzazione » della peni-sola ellenica: terminus ante quem quel XV secolo in cui troviamo Achei a Creta. In Italia abbiamo, del resto, la « ausonizzazione » delle Lipari durante il XIII secolo, documentata dai sicuri reperti degli scavi eseguiti da Luigi Bernabò Brea, e la « siculizzazione » della

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Sicilia verso l'XI secolo. Pare dunque verosimile e necessario ammettere che, se non si vuole considerare quasi istantanea la prima in-doeuropeizzazione di tutta la Penisola, oc-corra risalire, per lo meno, al XVI o anche al XVII secolo per la prima penetrazione dei pro-tolatini... Avviene, infatti, per la penisola italica un fenomeno analogo a quello che avviene nella pe-nisola ellenica ma, se l'indoeuropeizzazione della Grecia proprio può farsi risalire grosso modo all'inizio del II millennio (fine dell'Elladico I)", anteriore dovrà essere considerata l'in-doeuropeizzazione della parte settentrionale della penisola balcanica da chi ritenga nordi-ca l'invasione e anteriore, sia pure di poco, potrà essere anche la penetrazione in Italia, ma converrà tener presente che questi Protoindoeuropei di Grecia e d'Italia non sono fa-cilmente distinguibili dai popoli che li hanno preceduti: in Italia, almeno, nessuna frattura sensibile si nota nello svolgimento delle culture preistoriche, e lo stesso fenomeno si mani-festa in Grecia se tuttora è in discussione la data da attribuire all'inizio dell'indoeuropeiz-zazione... Così, come avvenne in Grecia, anche in Italia si può ritenere che la fusione fra Indoeuropei e «Mediterranei» sia stata press'a poco perfetta: ne nacquero idiomi indoeu-ropei su basi largamente mediterranee, ne nacquero forme artistiche che non siamo più in grado di distinguere, ne nacquero culti e riti che, sorti in gran parte da un sostrato netta-mente « mediterraneo », sono stati in parte «interpretati» e concertati con altri di origine più chiaramente «indoeuropea».

Una comunità laziale Sappiamo ancora poco degli abitanti delle antiche comunità sviluppatesi agli inizi del I mil-lennio a.C. in Italia, e in particolare nel Lazio: gran parte delle nostre informazioni ci deri-vano quindi dallo studio delle loro necropoli. A meno di 20 Km da Roma, in una località detta Osteria dell'Osa, è stato messo in luce negli ultimi anni un importante sepolcreto. Sono state studiate circa 200 tombe, che consentono agli archeologi di condurre analisi approfondite sulle popolazioni che abitavano quei luoghi ancor prima della fondazione di Roma. Il sepolcreto si trova ai margini del cratere di un antico vulcano, trasformatosi poi in lago, ora prosciugato. Ma al tempo in cui si formò quella necropoli, le condizioni climatiche do-vevano essere assai diverse dalle attuali: la zona era infatti solcata da corsi d'acqua, men-tre laghi e paludi riempivano le depressioni. Gli abitati e le necropoli preferivano in genere le zone più elevate: non conosciamo ancora il luogo preciso dove sorgeva il villaggio da cui dipendeva la necropoli. Le 200 tombe scavate non appartengono tutte alla stessa epo-ca, ma sono distribuite in un periodo di oltre tre secoli, dal 900 al 580 a.C. circa. Ciò signi-fica che nel sepolcro non esistono sepolture relative alla prima fase della cultura laziale (1000-900 a.C.).

Inizio del sepolcreto (fase laziale II A - ca. 900-830 a.C.) Almeno 80 tombe appartengono a questo momento più antico della vita della comunità. Si notano due tipi di sepoltura: uno, più diffuso, consiste in una fossa rettangolare dove viene adagiato il cadavere del defunto (inumazione) insieme con un corredo di oggetti; l'altro consiste in un pozzetto, dentro al quale è posto un dolio (una specie di giara) che contiene sia l'urna con le ceneri del defunto (incinerazione) che il corredo. La quantità di tombe scavate ed una stima di quelle ancora da scavare può far ritenere che al tempo del suo primo sviluppo la comunità fosse composta da circa un centi-laio di persone.

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Comunità ristrette di questo tipo, in età protostorica (ma l'archeologo per le sue ricostru-zioni si serve anche dei confronti con le società primitive odierne studiate dagli etnologi), dovevano essere organizzate secondo i vincoli di parentela. Questi legami a volte sono e-videnti anche nel modo stesso in cui sono disposte le tombe. Quando infatti una nuova deposizione viene a lambire o a sovrapporsi ad una più antica, dobbiamo supporre che tra i due defunti dovesse esistere un qualche vincolo familiare. Il rito dell'inumazione è molto più diffuso di quello dell'incinerazione, che dobbiamo quindi ritenere riservato a persone in certo senso particolari. Notiamo, ad esempio, che le tombe ad incinerazione sono tutte maschili, anche se non tutti gli uomini sono incinerati, che le armi sono presenti solo nei corredi degli uomini incinerati e che l'urna che raccoglie le loro ceneri è a forma di capanna, che riproduce con fedeltà l'aspetto delle case di abitazione. Possiamo quindi ritenere che l'uso di quelle urne speciali volesse indicare che il morto era il rappresentante della casa, il «capo» della famiglia, probabilmente quindi un uomo adulto o anche un anziano. Anche la presenza delle armi induce ad attribuire quelle tombe parti-colari a uomini adulti, cui la comunità ha assegnato il ruolo di difensori e di cacciatori. Le tombe degli altri uomini, delle donne e dei bambini, tutte a inumazione, sono assai simi-li tra di loro, sia per forma che per corredi: da esse si ricava che le differenze di ruoli, e quindi di rango, all'interno della comunità dovevano essere assai lievi. Pochi capi-famiglia «governavano» su una comunità di eguali, in cui i diversi ruoli venivano attribuiti in base al sesso e all'età degli individui. La ricchezza probabilmente era distribuita in modo abba-stanza egualitario. L'abitato doveva essere costituito da un insieme di capanne, di forma ovale o rotonda; le pareti erano fatte di rami o canne e intonacate con l'argilla; il tetto era costruito con una intelaiatura di rami coperta di paglia. Nella capanna viveva un intero nu-cleo familiare. Gran parte della vita e delle attività comunitarie si svolgevano però all'aper-to, venendo riservato l'uso della capanna prevalentemente alle ore della notte e alla difesa dalle intemperie. I vasi rinvenuti nei corredi ci informano circa gli oggetti di uso più quotidiano e quelli riser-vati a occasioni particolari, come il banchetto. Si distinguono i recipienti per i cibi solidi e per i liquidi, brocche e tazze per l'acqua e per il latte. La ricostruzione dell'abbigliamento è più difficile: sia le pelli che le stoffe sono infatti molto deperibili e giungono assai di rado fi-no a noi. Nelle tombe si rinvengono numerose fibule di bronzo, oggetti analoghi alle nostre spille di sicurezza, che allacciavano sul petto un mantello che doveva coprire il vestito vero e proprio, probabilmente una semplice tunica. Il tessuto principale era la lana, lavorata nel-l'ambito delle attività domestiche, come sappiamo dai tanti oggetti relativi alla filatura ed alla tessitura che si incontrano nei corredi delle tombe femminili. In queste tombe si trova-no spesso anche piccoli anelli, collane e fermagli per le trecce, che ci aiutano a ricostruire a grandi linee gli ornamenti personali e le acconciature delle donne del villaggio. La comunità produceva tanto quanto era necessario al proprio sostentamento: praticava l'agricoltura seminando i cereali e i legumi (specie le fave ed i piselli) e raccogliendo qual-che frutto selvatico. Allevava alcuni animali, specie le capre, le pecore ed i maiali, affidati probabilmente alle cure dei più giovani. Integrava l'allevamento con la pesca di pesci di acqua dolce e la caccia di animali selvatici (affidata agli uomini adulti della comunità). O-gnuno era continuamente impegnato nella produzione dei beni necessari alla vita; la terra per le colture e il pascolo era patrimonio collettivo ed è assai probabile che non si fossero ancora sviluppate forme di proprietà privata del suolo.

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La comunità era autosufficiente anche nella produzione artigianale dei manufatti: la cera-mica, eseguita a mano da ogni singolo gruppo familiare; i tessuti, di cui si è già detto; i mobili in legno, noti attraverso alcuni modellini di terracotta. La fabbricazione degli oggetti di metallo, assai più complessa, richiedeva l'intervento di un artigiano specializzato: è pos-sibile che la comunità si accollasse le spese del mantenimento di questi artigiani in cambio del loro prezioso lavoro. Poiché il Lazio è privo di metalli, l'approvvigionamento della mate-ria prima era una condizione molto importante, che implicava la necessità di numerosi contatti e scambi con popolazioni diverse. È probabile che gli abitanti del Lazio si rifornis-sero di metalli dalla vicina Etruria e dalle più lontane regioni dell'Italia meridionale. Ma, a parte questi contatti con l'esterno, le comunità, pur vivendo prevalentemente nell'ambito del villaggio, dovevano avere occasioni di contatti frequenti con i propri vicini. Le comunità laziali sorgevano spesso a pochi chilometri di distanza l'una dall'altra: festività religiose e matrimoni tra membri di villaggi diversi dovevano contribuire ad una continua circolazione di persone e di prodotti.

Seconda fase (fase laziale II B - ca. 830-770 a.C.) Il quadro sin qui delineato non subisce modificazioni significative tra la fine del IX e l'inizio dell'VIII secolo. A questo periodo sono state attribuite quasi 60 tombe. In questi anni il rito della incinerazione si fa più raro e poi scompare: è un fenomeno che si riscontra anche in Etruria e in Campania, al di fuori dell'ambito della cultura laziale. Lo studio dei corredi lascia intravedere un certo impoverimento della comunità, che sem-bra in questo momento più chiusa in se stessa. Si sono probabilmente affievoliti i rapporti, prima più frequenti, con le popolazioni dell'Italia meridionale, e fatti più intensi quelli con la vicina Etruria. Si pongono le premesse di contatti che si faranno col tempo sempre più stretti.

Terza fase (fase laziale III - ca. 770-730/720 a.C.) Solo 6 tombe sono attribuibili a questa fase, assai importante, dello sviluppo della necro-poli. Molte altre tombe, troppo superficiali, devono essere andate distrutte nel corso dei la-vori agricoli. Nelle tombe femminili si nota una propensione a deporre una grande quantità di oggetti ornamentali, in quelle maschili compaiono quasi sempre accanto al defunto la spada e la lancia, che è costruita ormai prevalentemente in ferro. In ferro, e non più in bronzo, sono adesso sempre più spesso fabbricati gli strumenti di lavoro. La presenza di una certa quantità di ricchezza nei corredi tombali fa ritenere che sia co-minciato quel mutamento sociale, di importanza enorme, che lentamente introduce ele-menti di differenziazione nella comunità. È una tendenza che si farà più evidente verso la fine di questa fase, allorché alcune tombe (il fenomeno è esteso a tutto il Lazio) ci mostre-ranno che alcuni individui eccellono sugli altri per la possibilità che hanno di portare con sé nella tomba dei « beni di prestigio » che conferivano loro una posizione privilegiata in seno alla comunità. Nella produzione agricola, nell'allevamento, nell'artigianale le strutture economiche ap-paiono ancora inalterate. Viene introdotta però una grande conquista tecnica: il tornio per la fabbricazione dei vasi. È probabile che questa innovazione abbia preso piede in un pri-

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mo tempo a Roma stessa, il villaggio laziale sorto, secondo la mitica tradizione, proprio in questi anni (753 a.C.).

II Lazio e il sito di Roma In origine, il territorio del popolo latino si limitava alla parte meridionale della valle inferiore del Tevere, una regione piuttosto povera dominata dai Colli Albani. La piatta linea costiera, senza insenature né porti, offriva scarsa possibilità sia di attività che di comunicazioni ma-rittime. Il limite nord del paese, oltre il quale si stendeva l'Etruria, era costituito a tutti gli ef-fetti dal Tevere. Ma i Falisci, un popolo etnicamente apparentato ai Latini, risiedevano sul-la riva destra del fiume, a nord del Lazio: a partire dall'epoca storica, le loro principali città furono Falerii, Capena e Narce. La storia politica e culturale dei Falisci, circondati com'e-rano dagli Etruschi, sfuma impercettibilmente in quella etrusca; ma la loro lingua, nota da varie iscrizioni, era di origine latina, pur rivelando numerose contaminazioni sabine ed e-trusche. Subito accanto, ad est del Lazio, le colline preappenniniche erano abitate nella parte set-tentrionale dai Sabini, una tribù semplice e rude, e nella parte meridionale dagli Ernici. In seguito, il territorio latino fu ulteriormente ridotto dall'arrivo dei Volsci, fra i Colli Albani e gli Aurunci, all'inizio dei tempi storici. Essi si impadronirono delle antiche città latine di Velletri, Segni, Satrico e Anzio. In confronto alla penisola in generale, che catene montuose dividono in aree ristrette, la valle inferiore del Tevere gode di un notevole vantaggio geografico, che è stato spesso e giustamente rilevato: quello d'essere un punto d'incontro di diverse vie naturali di traffico. Due altre regioni italiane godono, sebbene in grado minore, dello stesso privilegio: il tratto centrale della valle dell'Arno, che dà accesso a importanti valichi appenninici e dove creb-bero Pistoia e Firenze, e la piana della Campania, che è facilmente e comodamente rag-giungibile da sud. Molte e grandi vie naturali di comunicazione convergono nella pianura del Lazio e, dopo gli inizi dell'era storica, furono adottate dalle principali strade romane: l'Appia, che correva a sud lungo la costa; la Latina, che portava in Campania per la valle del Sacco; la Valeria, che seguiva il corso dell'Aterno verso l'Adriatico; la Salaria, che, do-po aver seguito il corso del Tevere, si addentrava fra le montagne in direzione del Piceno; l'Ostiense, che congiungeva Roma ad Ostia; l'Aurelia, che costeggiava il Tirreno verso nord; la Cassia, che attraversando i Sabatini, di non molto diffìcile accesso, portava in E-truria; la Flaminia, che lasciava Roma a nord sullo stesso percorso, ma poco dopo se ne staccava per seguire la valle del Nera per dirigersi verso l'Umbria e l'Adriatico. Tutte queste strade si basavano su più antichi sentieri esattamente come la rete delle mo-derne strade di grande comunicazione è rimasta largamente fedele al tracciato dei costrut-tori di strade romani. Così Roma, crebbe in una zona naturalmente dotata di comunicazio-ni facili e dirette con le regioni vicine, in particolare con le due province di civiltà più pro-gredita, l'Etruria e la Magna Grecia. Questo fattore costituì senza dubbio una delle cause principali del suo straordinario destino. I vantaggi dell'insediamento romano erano già riconosciuti ed enumerati in tempi classici. Cicerone, Livio e Strabone insistono tutti sull'eccellenza della posizione dell'Urbe e sulla presenza provvidenziale di un grande fiume navigabile, il Tevere, che dava rapido accesso così al mare come al centro della penisola. E avevano ragione, tanto più che, crescendo le dimensioni della città, il Tevere divenne un'arteria atta al trasporto di materiali da costru-

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zione e derrate aliementari da ogni parte del mondo. Tuttavia, alcuni geografi moderni vanno più a fondo del problema analizzando i fattori geografici che fecero di Roma una sede ambita in tempi preistorici e che senza dubbio influirono sulla sua fondazione molto prima di contribuire alla sua ascesa. Uno di questi fattori è certo il fatto che tante strade convergano nel Lazio. Ma la stessa area sulla quale Roma sorse presentava ben definiti vantaggi. I modesti colli tiberini rappresentano le estreme propaggini di terreni vulcanici provocati dai Colli Albani. Alcuni di essi, in particolare il Palatino e il Campidoglio, avevano pendii ripidi che ne rendevano facile la difesa. Senza dubbio le tre vette, l'area relativamente estesa e i fianchi dirupati del Palatino, ne facevano il colle propizio ai primi stanziamenti, e non stupi-sce che qui sorgessero i primi villaggi di pastori e mandriani. Tuttavia, il luogo opponeva pure certi ostacoli all'espansione; anzitutto, la natura paludosa di alcune sue parti, che rendeva necessario un vasto sistema di scarico; poi l'irregolarità del terreno e il gran nu-mero di piccole alture. Ma questo gruppo di monti strettamente uniti, che si spingevano fin quasi al Tevere di fronte all'unica isola dell'intera zona, facilitava a questa altezza il guado del fiume, che si snodava in un paludoso fondovalle di origine alluvionale. Il sito di Roma formava quindi un anello di congiunzione fra il nord e il sud del Lazio e nello stesso tempo occupava una po-sizione-chiave sulla strada lungo la quale il sale affluiva alle montagnose regioni dell'est. Queste caratteristiche favorirono pure le costruzione dei più antichi ponti sul Tevere prima della sua foce. Più a valle non vi era nessun posto atto allo scopo, e in realtà i ponti roma-ni rimasero fino al XIX secolo il punto più basso in cui si potesse attraversare il Tevere. I vantaggi commerciali e strategici del luogo erano dunque eccezionali. Con i suoi ponti, la sua accessibilità dal mare e la sua posizione come incrocio stradale, la città godette fin dall'inizio dei privilegi non comuni che dovevano svolgere una parte importante in tutta la sua storia. In merito ai primissimi tempi di Roma, la povertà di fonti letterarie e la loro validità discuti-bile rendono straordinariamente importanti i reperti archeologici. Essi restano l'unica base autorevole per qualunque valu-tazione della portata storica dei testi e perciò l'unico stru-mento che ci permetta di sostituire la storia alle leggende. Ma gli scavi della Roma arcaica sono di data piuttosto recente e, ai fini di una giusta valutazione dei loro risultati, è neces-sario sia pur brevemente farne cenno. Le prime scoperte importanti sulla Roma arcaica - le tombe dell'Esquilino, e i sacrari e le tombe del Quirinale - risalgono all'ultimo quarto del XIX secolo. La grande necropoli dell'E-squilino venne alla luce durante i lavori per un nuovo edificio sulla stessa area. Il saggio pubblicato dal Pinza nel 1905 ordina questi reperti. I primi scavi sistematici ebbero luogo all'inizio di questo secolo. Il Boni e il Vaglieri aprirono vie nuove ed importanti, il primo sul Palatino e nel Foro, il secondo sul solo Palatino. Valendosi dei metodi più scrupolosamen-te scientifici, il Boni portò in luce le tombe del vasto sepolcreto del Foro, ora conservate ed esposte nell'Antiquarium del Foro esattamente come furono trovate. I suoi scritti sull'argo-mento furono precisi e meticolosi come gli scavi da lui eseguiti. Vaglieri scoprì sul Palatino tracce di abitazioni primitive e una notevole quantità di materia-le arcaico, ora riunito nell'Antiquarium del Palatino. Ma lo stato in cui si trovava allora la ri-cerca gli impedì di riconoscere tutta la portata e l'estensione delle sue scoperte, e vivaci polemiche si accesero ripetuta-mente fra lui e il Pigorini. Una gran parte del materiale tro-vato nel 1900-1910 è rimasto a tutt'oggi inedito, sebbene ora vi si stia rimediando.

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Tracce dei sacrari arcaici sul Campidoglio e a S. Omobono furono scoperte prima dell'ul-tima guerra, nel corso d'importanti lavori di scavo, da M. A. Colini, e dopo il 1945 il mate-riale disponibile si è accresciuto grazie a una ulteriore serie di scoperte. Prima di tutto, vi fu la ricognizione sistematica del Palatino, ad opera di eminenti specialisti della scuola ita-liana, che fornirono dati di importanza vitale circa la protostoria del Palatino, e materiale su cui basare non ipotesi ma fatti. In merito poi a certi aspetti sia del Foro che del Palatino, recenti scoperte hanno insieme allargato il nostro orizzonte e posto nuovi problemi. Ricer-che metodiche sono tuttora in corso, su basi rigorosamente scientifiche, in diversi settori della Roma, arcaica. Grazie ai lavori del Boni all'inizio del secolo e ai recenti scavi del Puglisi, sappiamo ora di due antichissimi stanziamenti situati l'uno accanto all'altro sulle due terrazze del Palatino, il Palatium e il Cermalo. Gli scavi eseguiti dal Boni sotto la Domus Flaviorum rivelarono nel più basso strato archeologico una serie completa di fori per l'infissione di pali, ceramiche caratteristiche della prima età del ferro, cannicciate e rozzi intonaci. È ora chiaro che si tratta di resti di capanne preistoriche su fondi di argilla. Le capanne sono scomparse, ma il gran numero di fori per la palificazione e una notevole massa di intonaco argilloso - in uso fin dal Neolitico per rivestire le pareti delle capanne di stoppie e di rami -bastano a provare l'esistenza di un abitato nel periodo romuleo intorno alla metà dell'VIII secolo a. C.

Civiltà contadina Gli antichi Romani erano stati per lungo tempo dei campagnoli laboriosi e rozzi, intenti solo a coltivare i loro campi, a combattere contro i loro nemici, a compiere le pratiche della reli-gione. Il vecchio Catone, nel suo libro sull'Agricoltura, ci da un'idea dei loro costumi: « I nostri antenati allorché essi volevano fare l'elogio dell'uomo, dicevano: - Buon lavoratore, buon agricoltore – e questo elogio sembrava il più grande che si potesse fare ». Catone cita pure alcuni dei loro vecchi proverbi: « Cattivo agricoltore è quegli che compra ciò che la terra non può fornirgli »; « Cattivo economo è quegli che fa nel giorno ciò che egli può fare nella notte »; « La coltivazione dei campi è così fatta che, se tu ritardi una sola fac-cenda, ritarderai pure tutte le altre ». E Cicerone fa dire a Catone « I diletti che prova l'a-gricoltura mi sembra che siano i più conformi alla vita dell'uomo veramente saggio». Duri al lavoro, aspri al guadagno, economi ed ordinati, questi campagnoli erano stati la forza degli eserciti romani. Per lungo tempo pure essi erano stati l'elemento prevalente nelle assemblee del popolo, e avevano così dominato nella repubblica. Essi abitavano case piccole, a un solo piano, costruite in maniera assai grossolana. La stanza principale, l’atrium (ove si trovava il focolare sacro della famiglia) aveva un'apertura in alto per la quale cadeva la pioggia; tutte le masserizie, le suppellettili, e gli arredi dome-stici si riducevano a delle cassapanche e a degli armadi per riporre la roba, a degli sgabelli di legno, a dei rozzi lettucci, e a pochissimo altro. Il nutrimento era semplice, composto in special modo di grano e orzo bollito, pane e legumi; carne si mangiava soltanto nei giorni festivi; le donne non bevevano mai vino, gli uomini ne bevevano raramente. Il vestito con-sisteva in una tunica, sulla quale (allorché faceva freddo) si sovrapponeva un mantello di lana; nei giorni festivi e nelle cerimonie solenni i cittadini portavano la toga drappeggiata attorno alla persona; la calzatura consisteva in sandali, allacciati con corregge. La vita tra-scorreva nel lavoro: gli uomini coltivavano i campi; le donne filavano la lana, tessevano i panni, macinavano il grano. L'unica distrazione, forse, che avevano quelle genti primitive era il recarsi al mercato ogni nove giorni, e il prendere parte alle feste in onore degli dei.

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ALCUNI ASPETTI INDUSTRIALI:

Elettrificazione della regione Lo sviluppo dell'industria elettrica nel Lazio ha seguito strade originali rispetto a quelle percorse nel resto d'Italia. La presenza di Roma, l'intenso sviluppo demografico ed edilizio della capitale, la forza di attrazione rappresentata dalla crescita della sua vocazione am-ministrativa, hanno rappresentato potenti fattori di sostegno per la nascente industria, che poteva trovare nel territorio metropolitano un ricco mercato di consumo. La combinazione di questi fattori ha favorito, in una prima fase, una precoce affermazione dell'industria elet-trica e la realizzazione di alcuni dei primi e più rilevanti impianti di produzione di energia. In un secondo tempo, con il progredire dello sviluppo tecnologico, con la crescita esponen-ziale della capacità produttiva degli impianti e con la possibilità di trasportare l'energia a distanze sempre maggiori, il Lazio è diventato importatore di elettricità prodotta in grandi impianti posizionati fuori dal territorio regionale, maggiormente indicati, per le loro caratte-ristiche produttive, a servire un mercato fortemente concentrato come quello romano. Il vero e proprio punto di partenza della storia dell'industria elettrica laziale, dopo i due primi pionieristici decenni, può essere considerato il completamento del programma inizia-le della Società Anglo-Romana con l'entrata in pieno esercizio dell'impianto idroelettrico di Acquoria, nel 1899. Con il nuovo secolo si assiste ad uno sviluppo tumultuoso della pro-duzione di energia elettrica: la crescita dei consumi era sostenuta dall'aumento delle di-sponibilità e dai costi decrescenti delle disponibilità idroelettriche; lo sviluppo tecnologico, con il raggiungimento di tensioni di trasporto sempre più elevate, consentì la localizzazio-ne degli impianti nei bacini più ricchi e convenienti, anche se lontani dai maggiori centri di consumo; lo studio di nuove soluzioni e applicazioni per la rivoluzionaria forma di energia favoriva una diffusione sempre più capillare dell'elettricità in ogni ambito della vita civile e dell'attività industriale. Nel 1901 venne costituita la "Società romana di elettricità", cui l'An-glo-Romana affidò la costruzione di una centrale sul fiume Farfa, in provincia di Rieti, e di una a Subiaco, alimentata dalle acque dell'Aniene. Nel 1905 fu costituita la "Società Volsinia di Elettricità", che distribuiva energia propria e acquistata nella zona settentrionale del Lazio verso la Toscana. Al di fuori del gruppo che si andava formando intorno all'antica società del gas non sorsero nel territorio laziale altre significative iniziative imprenditoriali. Le necessità produttive e finanziarie connesse con il sempre più rapido sviluppo dell'industria elettrica e dei consumi determinarono, alla metà degli anni Venti, una progressiva perdita di autonomia da parte delle aziende raccolte in-torno all'anglo-Romana, obbligata a rivolgersi a produttori esterni per assicurarsi le oppor-tune disponibilità di energia per le zone servite. Nel 1925 la maggioranza delle azioni della Società romana di elettricità e dell'Anglo-Romana, furono acquisite dal gruppo societario che faceva capo alla "Società elettrica ligure toscana" (Selt) e alla Valdarno, che diedero quindi vita ad una finanziaria denominata "La Centrale", per il controllo delle attività elettri-che toscane e laziali. A partire da questa data venne avviato dai nuovi proprietari un vigoroso programma di riorganizzazione delle imprese elettriche operanti nel Lazio. Le varie società di distribuzio-ne vennero ricapitalizzate e cominciarono ad acquisire tutte le piccole aziende di distribu-zione operanti nella regione. Questo processo di razionalizzazione si accompagnò ad un progressivo disimpegno dal campo della produzione idroelettrica della Romana, che nel

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1930 strinse accordi con la "Terni" per la fornitura di 200 milioni di kWh annui. Con la cen-trale di Galletto, la più grande esistente allora in Europa, e quella del Papigno, la Terni as-sunse negli anni Trenta un ruolo di primo piano nel panorama italiano, fornendo energia alle grandi reti di distribuzione della romana nel Lazio, della "Sme" in Italia meridionale e della "Unes" nelle regioni adriatiche dalle Marche al Molise. Nel dopoguerra, dopo aver ri-costruito gli impianti danneggiati dagli eventi bellici, si assiste alla crescita più rilevante dei consumi elettrici nella regione: gli utenti, che erano passati dai 25.000 del 1900 ad oltre 200.000 nel 1930 e a quasi 500.000 nel 1950, divennero quasi 1.200.000 nel 1962; con-temporaneamente l'energia immessa nelle reti della Romana passò da 13 milioni di kWh nel 1900 a 300 milioni nel 1930, a 774 milioni nel 1950, per raggiungere nel 1962 la cifra di oltre 2 miliardi di kWh.

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