L’ARTISTICA EDITRICE L’abbazia cistercense di SANTA MA R IA DI STAFFA R DA 1 1 VOLUMI DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Certosa di Chiusa Pesio La collana di studi monografici “Architettura dei monasteri del Piemonte”, nasce con l’intenzione di favorire un approfondimento scientifico e una più diffusa conoscenza dei centri monastici nel territorio subalpino. I volumi, unendo una parte divulgativa ad una di rigore storiografico, si rivolgono ad un pubblico vasto, accompagnato nella lettura da un ampio corredo fotografico inserito nel testo scritto. Il primo volume sull’abbazia cistercense di Santa Maria di Staffarda in provincia di Cuneo è dedicato ad uno dei monasteri medievali più importanti del Piemonte. La sua posizione, allo sbocco delle valli del Monviso, e la conservazione di molti degli edifici all’interno del recinto monastico ne fanno un caso studio rilevante per gli aspetti architettonici e paesaggistici e, nel contempo, costituiscono una forte attrattiva per il turista attento alle componenti culturali del territorio. SILVIA BELTRAMO, architetto, è dottore e assegnista di ricerca presso il Dipartimento Casa-Città; è docente a contratto di discipline storiche presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Svolge attività di ricerca nell’ambito della storia dell’architettura e della città in età medievale e moderna. È autore di numerosi saggi e articoli sui temi dell’architettura religiosa e della storia urbana medievale e moderna in Piemonte e in Italia. Nel 2009 ha pubblicato il volume La stratigrafia dell’architettura: uno strumento per la ricerca storica edito da Carocci (Roma). e 16,00 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 1. Chiostro; 2. Chiesa; 3. Sacrestia; 4. Sala capitolare; 5. Sala dei mo- naci; 6. Refettorio dei monaci; 7. Cucina; 8. Calefactorium; 9. Manica dei conversi; 10. Fontana; 11. Foresteria. Con il contributo di SILVIA BELTRAMO L’abbazia cistercense di SANTA MA R IA DI STAFFA R DA FONDAZIONE ORDINE MAURIZIANO Associazione Culturale
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Volumi di prossima pubblicazione
certosa di chiusa Pesio
la collana di studi monografici “architettura dei monasteri del Piemonte”, nasce con l’intenzione di favorire un approfondimento scientifico e una più diffusa conoscenza dei centri monastici nel territorio subalpino. i volumi, unendo una parte divulgativa ad una di rigore storiografico, si rivolgono ad un pubblico vasto, accompagnato nella lettura da un ampio corredo fotografico inserito nel testo scritto.
il primo volume sull’abbazia cistercense di santa Maria di staffarda in provincia di cuneo è dedicato ad uno dei monasteri medievali più importanti del Piemonte. la sua posizione, allo sbocco delle valli del Monviso, e la conservazione di molti degli edifici all’interno del recinto monastico ne fanno un caso studio rilevante per gli aspetti architettonici e paesaggistici e, nel contempo, costituiscono una forte attrattiva per il turista attento alle componenti culturali del territorio.
silVia beltramo, architetto, è dottore e assegnista di ricerca presso il dipartimento casa-città; è docente a contratto di discipline storiche presso la facoltà di architettura del Politecnico di torino. svolge attività di ricerca nell’ambito della storia dell’architettura e della città in età medievale e moderna. È autore di numerosi saggi e articoli sui temi dell’architettura religiosa e della storia urbana medievale e moderna in Piemonte e in italia.nel 2009 ha pubblicato il volume La stratigrafia dell’architettura: uno strumento per la ricerca storica edito da carocci (roma).
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1. chiostro; 2. chiesa; 3. sacrestia; 4. sala capitolare; 5. sala dei mo-naci; 6. refettorio dei monaci; 7. cucina; 8. Calefactorium; 9. Manica dei conversi; 10. fontana; 11. foresteria.
Con il contributo di
silVia beltramo
l’abbazia cistercense disanta Ma r ia di staffa r da
fondazione ordine Mauriziano A s s o c i a z i o n e C u l t u r a l e
A papà, mamma e Marco in ricordo di un viaggio in Borgogna
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Collana Architettura dei monasteri in Piemontediretta da SILVIA BELTRAMO e CARLO TOSCO
Divisione editoriale de L’Artistica Savigliano S.r.l.Via Torino 197 – 12038 Savigliano (Cuneo)Tel. + 39 0172.726622Fax + 39 0172.375904editrice@lartisavi.it - www.lartisavi.it
ISBN 978-88-7320-262-2
Le fotografie del volume sono dell’autore ad eccezione della veduta dall’alto a pag. 11.
I rilievi grafici sono stati elaborati dell’arch. Giuseppe Pollichino.
L’autore ringrazia gli enti, le istituzioni e le associazioni che hanno soste-nuto la pubblicazione, i funzionari degli archivi di Stato di Torino e dell’Ordine Mauriziano, l’ufficio tecnico e il personale dicustodia della Fondazione Ordine Mauriziano per la disponibilitàdurante i sopralluoghi.Sono grata all’arch. Giuseppe Pollichino per la pazienza e la professionalità nel lavoro di restituzione grafica dell’apparato iconografico.Ringrazio Andrea Longhi per il costante confronto.Il presente volume è debitore nei confronti di tutti gli studiosi che nel corso di questi anni si sono dedicati ai Cistercensi e a Staffarda.
L’autore rimane a disposizione per segnalazioni e commenti sul volumesilvia.beltramo@polito.it
Realizzazione e stampa: L’Artistica Savigliano, 2010
Con il contributo di
Iniziativa realizzata con il contributodell’8x1000 della Chiesa Cattolica Italiana
L’abbazia cistercense diSANTA MARIA DI STAFFARDA
SILVIA BELTRAMO
L’ARTISTICA EDITRICE
Con il volume dedicato all’abbazia di Staffarda inizia le sue pubblicazioni la collana“Architettura dei monasteri del Piemonte”, promossa dall’Associazione GuarinoGuarini. Il progetto nasce con l’intenzione di favorire un approfondimento scientificoe una più diffusa conoscenza dei centri monastici, noti e meno noti, conservati nel ter-ritorio subalpino. Nella redazione delle singole monografie si vorrebbe realizzare unincontro tra le esigenze di rigore storiografico e quelle di divulgazione presso un pub-blico di lettori non specialisti, il più possibile ampio. Le ricerche verranno affidate, divolta in volta, a studiosi che hanno sviluppato indagini scientifiche nel settore, dimo-strando un livello notevole di competenze. Il titolo “Architettura dei monasteri del Piemonte” è stato scelto con l’intento di nonlimitare troppo il campo d’interesse della collana, che vorrebbe volgere la sua attenzio-ne non soltanto alle maggiori abbazie della famiglia benedettina, ma anche ai priorati,alle certose, alle chiese degli ordini riformati e a tutti gli enti religiosi che ruotano intor-no alla civiltà monastica. I volumi proposti seguiranno un formato editoriale ricorren-te, composto da una parte introduttiva, pensata per favorire una visita al monumento,con una lettura immediata dei suoi caratteri storici, architettonici, artistici e archeolo-gici, seguita da una parte di approfondimento, dedicata ad un’analisi puntuale di temidi ricerca legati alla storia dell’architettura del monastero. Una bibliografia finale cor-reda gli apparati critici e un ampio repertorio d’immagini è previsto per illustrare learchitetture, i contesti paesaggistici e il complesso delle opere figurative.I volumi della collana hanno anche l’obiettivo di applicare il metodo di lavoro messo apunto nei primi dieci anni di attività dell’Associazione Guarino Guarini. A fronte diuna sempre più ampia letteratura turistica e scientifica sui beni culturali ecclesiastici,l’attenzione specifica è fondata su tre priorità. Innanzitutto la centralità della personarispetto al fenomeno artistico e architettonico: l’interesse non è volto a una lettura soloestetica o tecnica dei siti e dei manufatti, ma pone in primo piano la cultura e le respon-sabilità dei committenti e dei fruitori dell’architettura. In secondo luogo, la sottolinea-tura della liturgia e della storia celebrativa come fattori che contribuiscono in mododecisivo a plasmare l’architettura, nonché l’importanza dell’ecclesiologia come chiaveinterpretativa del rapporto tra la chiesa e il suo contesto sociale e paesaggistico. In terzoluogo il valore delle comunità, religiose e laicali, come luogo di relazioni spaziali, maanche umane e culturali. Tale approccio è testimoniato, in questo primo volume, dallastruttura tripartita della parte di approfondimento: gli uomini, la chiesa, il monastero.
«Architettura dei monasteri del Piemonte»:proposte di visita e di studio
Con l’apertura di questo progetto culturale l’Associazione Guarino Guarini proseguenel suo impegno di promozione della cultura artistica legata alla storia religiosa delPiemonte favorendo lo studio e la valorizzazione di un grande patrimonio di fede, diarte e di cultura che la nostra regione conserva da più di mille anni: la speranza è chequesta nuova impresa possa proseguire nel tempo e contribuire ad una maggiore cono-scenza dell’arte cristiana in Piemonte.
L’ABBAZIA CISTERCENSE DI SANTA MARIA DI STAFFARDA 11
L’abbazia di Santa Maria di Staffardaè situata nella pianura saluzzese, al-le pendici del sistema montuoso
caratterizzato dal profilo inconfondibiledel Monviso. In una zona di forti trasfor-mazioni insediative e produttive, il com-plesso di Staffarda mantiene la sua unici-tà nell’impianto medievale religioso eagricolo, dove l’attività dell’allevamento,ancora presente nelle cascine a ridossodel monastero, eredita la tradizione dellegrange cistercensi. L’abbazia di Staffarda nasce come insedia-mento monastico dell’ordine cistercense,che ha avuto origine a Cîteaux (in latinoCistercium), in Borgogna, nell’abbaziafondata da Roberto di Molesme nel 1098.L’ordine prese l’avvio all’interno della co-munità benedettina dal desiderio di mag-giore austerità di alcuni monaci e dalla vo-lontà di ritornare alla stretta osservanzadella regola di san Benedetto. La ricerca diun nuovo equilibrio tra gli elementi dellavita cenobitica – liturgia, lettura spiritualee lavoro – costituisce la base della riformacistercense. La diffusione dei centri monastici avvienesulla base del principio della filiazione:un gruppo ristretto di monaci si spostadalla casa madre per fondare una nuovaabbazia, che ha parità giuridica rispetto atutte le altre, ed è guidata dall’abate elet-to dalle singole comunità. L’assembleaannuale di tutti gli abati costituisce il
Cistercensi a Staffarda
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Capitolo generale, organo di governodell’ordine che stabilisce regole e com-portamenti per tutte le abbazie aderenti.Ogni anno, inoltre, l’abate procedeva conuna visita alle comunità figlie, garantendoil controllo sulla piena attuazione delledisposizioni normative. Staffarda, una delle prime abbazie cister-censi in Piemonte, ha svolto un ruoloimportante per l’attività produttiva dellazona, contribuendo alla bonifica dei ter-reni e allo sviluppo economico del terri-torio. Fondata nel 1135 su proprietà do-nate da Manfredo, primo marchese di Sa-luzzo, l’abbazia diventa nel giro di pochianni uno dei maggiori insediamenti eco-nomici del Saluzzese. La continua acquisi-zione di terreni, a seguito di lasciti e dona-zioni da parte dei nobili della corte saluzze-se e del popolo, contribuisce in modo rile-vante alla crescita della comunità cister-
cense, concorrendo all’incremento del-l’economia del luogo dando lavoro a bo-scaioli, pastori e agricoltori, ma anche amanovali attivi nel cantiere per la costru-zione degli edifici.Il primo nucleo dell’abbazia era costitui-to dalla chiesa, dal monastero e da un’a-rea esterna alla clausura, caratterizzatadalla presenza di un piccolo borgo, doverisiedevano i laici dipendenti del mona-stero. Molti diventarono conversi ai qualierano riservate le attività manuali e lagestione produttiva delle grange, insedia-menti agricoli costruiti nel complessomonastico e nelle nuove proprietà acqui-site dai cistercensi tra Saluzzo, Saviglia-no, Cavour e le valli Po e Bronda. I con-versi, detti anche monaci laici, eranomembri dell’ordine a tutti gli effetti vin-colati alla vita religiosa, ma esclusi dal-l’ufficio liturgico.
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La fiorente attività economica dei monacinecessitava di notevoli strutture per lalavorazione e la conservazione dei prodot-ti, come i magazzini, i mulini e altri spazifondamentali alla gestione dei beni e dellepersone. L’attività di ospitalità dei monacicistercensi è ben documentata a Staffarda,dove sono testimoniate in parti diverse delcomplesso le foresterie per le donne, per ipoveri e per le persone di rango elevato. All’interno della clausura la vita dei mona-ci si svolgeva negli ambienti disposti,secondo un preciso ordine, intorno al chio-stro, il centro dell’abbazia. A fianco dellachiesa, al piano terra sul lato est, eranodisposti la sacrestia, la sala capitolare, l’au-ditorio e la sala dei monaci, mentre il pianosuperiore era occupato interamente daldormitorio. La manica sud ospitava la cu-cina e il refettorio, mentre quella occiden-tale era l’ala dei conversi con alcuni spazianaloghi a quelli dei monaci (dormitorio,refettorio).
La chiesa di Santa Maria mantiene ancoraoggi l’impianto medievale, caratterizzatodalla bicromia dei materiali da costruzio-ne, il mattone usato per la muratura e lapietra per i capitelli e per altri elementiarchitettonici di pregio. Nel corso del XV secolo Staffarda, comemolte altre abbazie piemontesi, vieneconcessa in commenda, beneficio eccle-siastico giustificato con la necessità diuna ripresa dell’originaria spiritualità delmonastero e di un risanamento economi-co. L’incarico di abate commendatario,che acquisisce il pieno controllo delpatrimonio fondiario, era affidato a per-sone nobili, principalmente della cortesaluzzese. Nei primi anni del XVI secolol’abate commendatario Giovanni di Sa-luzzo si fece promotore del rinnovamen-to della chiesa, con la realizzazione di
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nuovi arredi liturgici di grande significato eesecuzione, come il polittico di PascaleOddone degli anni trenta del secolo.La riduzione della comunità monasticaavviene progressivamente nel corso deisecoli XVI e XVII, quando l’abbazia diStaffarda è oggetto delle rappresagliedelle truppe francesi, che nel 1690 incen-diarono e distrussero parte del monaste-ro, chiostro e ambienti limitrofi, causan-do il momentaneo allontanamento dellacomunità religiosa.Per volere di Vittorio Amedeo II, duca diSavoia, gli edifici furono ristrutturati, rico-struendo parti rilevanti del chiostro e deglispazi monastici, e intervenendo all’internodella chiesa con diversi lavori, tra i quali lacostruzione di un nuovo altare maggiore.Nella metà del XVIII secolo l’abbazia diStaffarda con tutte le sue dipendenze, per
volere del papa Benedetto XIV, diventaproprietà dell’ordine militare, di fondazio-ne sabauda, dei santi Maurizio e Lazzaro.La commenda mauriziana viene conferitaal duca del Chiablese, secondogenito delre di Sardegna Carlo Emanuele III, incari-cato di amministrare i beni dell’abbazia,garantendo il sostentamento della comu-nità monastica ancora presente. Nel corso del XIX secolo si susseguonouna serie di cantieri di restauro, dovutianche ai frequenti terremoti che danneg-giarono seriamente alcune parti del com-plesso. Un grande intervento di ristruttu-razione complessivo è quello realizzatonegli anni venti del XX secolo sotto laregia di Cesare Bertea: le architetturedella chiesa e del monastero sono riporta-te a quello che si riteneva essere l’aspettooriginario medievale.
La Fondazione dell’Ordine Maurizianogestisce attualmente il complesso monasti-co; la chiesa, divenuta parrocchia all’iniziodell’Ottocento, è tuttora aperta al culto. L’insediamento monastico di Staffardacostituisce ancora oggi uno degli esempipiù interessanti dell’architettura religiosamedievale, ed è anche uno dei pochi siti,che restituisce al visitatore l’atmosfera delmondo spirituale e agricolo cistercense.
CHIESA
La chiesa orientata ad est, è suddivisa intre navate con tre absidi terminali a pian-ta semicircolare. A Staffarda il cantierecostruttivo procedette secondo prassi emodelli consolidati dal romanico lombar-do, sul quale si innestano nuove conce-zioni strutturali, quali i timidi accenniall’arco acuto, e l’uso della volta a crocie-ra costolonate.Alcuni elementi risultano interessanti inquanto testimonianza di una progressio-ne del cantiere durante la costruzione:• Esiste una difformità considerevole
nella struttura dei sostegni: i primi trepilastri a sinistra della navata centralehanno una sezione maggiore rispetto atutti gli altri, mentre il quarto è ilminore di tutti.
• I capitelli sono di materiale e di esecu-zione differente tra di loro: sono presen-ti capitelli cubici, singoli e doppi, suipilastri maggiori nella navata centrale,realizzati in muratura intonacata. Pro-cedendo verso il presbiterio e in tutti icapitelli della navata centrale destra èstata utilizzata la pietra scolpita.
• Gli archi e le volte della chiesa presenta-no differente geometria: le absidi hannovolte a semicatino con arco a tutto sesto,mentre sulle navate le volte sono a cro-ciera costolonate, di sezione a fascia orettangolari e toriche. Gli archi traversie longitudinali sono a doppia ghiera con
sezione non regolare. Le chiavi di voltasono in pietra con la raffigurazionedell’Agnus Dei e dell’Angelo Annun-ciante (inizio secolo XIII).
Nella parete della navata nord si conserva-no gli archi modanati delle antiche cappel-le aperte in una fase successiva al primoimpianto. La costruzione seguì un andamento daest verso ovest, realizzando prima la parteabsidale, più importante e significativaper la celebrazione del culto, che rappre-senta nucleo più antico della chiesa. L’ab-side ha forma semicircolare, soluzio-ne simile ad altre abbazie cistercen-si, pur essendo anche molto diffu-sa la terminazione piatta; non èaffiancata dal sistema di cappel-le laterali che permetteva aimonaci di celebrare la messa almattino ma da due absidi latera-li, semicircolari, di ridottedimensioni.Il transetto non fuorie-sce dal perimetro del-l’edificio e in cor-rispondenza del-le navate lateraliraggiunge l’altez-za della parte cen-trale tanto da es-sere definito pseu-do transetto. Le voltea botte ogivali ripren-
dono una tipologia costruttiva molto uti-lizzata in Borgogna. Nello spazio del transetto si prolungava ilcoro dei monaci racchiuso da un pontile,del quale rimangono i resti delle ammorsa-ture dei muri. Il tramezzo era aperto alcentro per consentire la vista dalla navatamaggiore; al di sopra, verso i fedeli raccoltinella navata, si alzava il Crocifisso ligneofiancheggiato dalle statue di Maria eGiovanni dolenti, ora nella navata destra.Le figure finemente stilizzate e il pietismodei volti e degli atteggiamenti ricordano lascultura francese e in parte tedesca deglianni trenta XVI secolo. Entro il recinto del coro si addossavano
alle pareti longitudinali e al tramezzo,due file di stalli lignei. L’interruzionedelle semicolonne dei pilastri polistiliconsentiva ai postergali degli stalli mag-giori, coronati da baldacchino, di rag-
giungere i quattro metri dal suolo.Gli stalli del coro, trasferiti
Percorso di visita all’interno dell’abbazia
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nell’area absidale a seguito delle indicazio-ni del Concilio di Trento, furono definiti-vamente smontati e trasportati in parte aPollenzo e a Torino in Palazzo Reale, pervolere del re Carlo Alberto nel 1846. Glielementi “torinesi” sono stati ricompostiall’interno delle sale del Museo Civico diTorino in Palazzo Madama. La rappre-sentazione dei pannelli si svolge intornoai temi legati all’Antico e al Nuovo Te-stamento, quali ad esempio, l’Albero diJesse, scene della vita di Maria e figure disanti (san Pietro, san Paolo e san Gio-vanni Battista). Il pulpito collocato in corrispondenza delsecondo pilastro sinistro della navata cen-trale, al di fuori dell’area del coro, eradestinato alla predicazione per i fedeli eper i laici dipendenti dall’abbazia. La scul-tura di carattere flamboyant non presentaancora elementi rinascimentali, e si puòascrivere agli anni venti del XVI secolo. La liturgia cistercense ha la sua massimaespressione nella macchina d’altare inta-gliata e dipinta, dedicata alla celebrazio-ne dei misteri della Madonna, quale par-tecipe della storia della Redenzione. Lapala d’altare unisce una struttura a treordini e tre fornici con sette scene, de-finite da piccole figure lignee dorate edipinte, e una cassa dotata di sportelli cheracchiude l’apparato iconografico inter-no, visibile solo in particolari ricorrenzereligiose.
Sul prospetto interno degli sportelli, all’in-terno di ampi riquadri, sono dipinti la Re-surrezione e l’Ascensione di Cristo, ladiscesa dello Spirito Santo e l’Incoro-nazione di Maria. Su quelli esterni sonorappresentati san Benedetto e san Ber-nardo, patroni dell’ordine cistercense, ele figure dell’Annunciazione. La scenadella Resurrezione reca la firma di Pa-scale Oddone della Trinità di Savigliano ela data 1531, mentre in corrispondenzadei due medaglioni con Davide e Isaia siconserva la data 1533, momento conclusi-vo della realizzazione dell’opera.Nelle sette nicchie a piramide trovano po-sto scene definite da figure sacre intagliatein legno: da sinistra l’Annunciazione, laVisita di Maria a Elisabetta, la Nascita diGesù, l’Adorazione pastori e dei Magi.Nella parte superiore sono rappresentatela Presentazione al tempio, Gesù tra i dot-tori, e in alto, L’Ascesa e l’Incoronazione diMaria e la Discesa dello Spirito Santo sugliApostoli. I tondi nella predella rappresen-tano momenti della vita di Maria e di Cri-sto: la Nascita, lo Sposalizio, la Fuga inEgitto le Nozze di Cana, il Battesimo diGesù, la Trasfigurazione, la Predicazionenella Sinagoga e la Salita di Gesù in Geru-salemme.
Gli statuti dell’ordine riformato del XII se-colo prescrivono in modo chiaro lo svolgi-mento delle celebrazioni e l’arredo liturgi-
In alto da destra: capitello a piccole foglie romboidali –navata centrale seconda campata lato sud; volta acrociera costolonata – navata centrale seconda cam-pata verso la facciata; pulpito ligneo; pala d’altare diPascale Oddone
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Assonometria sezionata della chiesa: si nota il sistemacostruttivo dei pilastri con le semicolonne addossate,interrotte nel coro, le volte a crociera costolonate dellanavata centrale, le volte a botte del transetto e delpresbiterio. Gli archi rampanti laterali sono sezionati.
Absidi esterne terminanti con fregi di archetti pensili econ la galleria ad arcate cieche in quella centrale.
Facciata della chiesa con finte architetture dipinte nellospazio superiore arricchite dalle storie della Verginerisalenti agli anni Trenta del XVI secolo.
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co all’interno della chiesa. Tutti gli orna-menti liturgici, i vasi sacri e gli utensili delmonastero dovevano essere privi d’oro,d’argento e di pietre preziose, con l’unicaeccezione del calice e della fistola che pote-vano essere di argento dorato. La fistolautilizzata per la Comunione era una can-nuccia in metallo con cui i comunicantiassumevano dal calice il vino consacrato. La semplicità degli arredi liturgici rispec-chiava la povertà monastica della comuni-tà cistercense e l’esigenza di evitare distra-zioni. Per le stesse motivazioni anche labiancheria non doveva avere ricami e i pa-ramenti essere di un solo colore. A destra dell’altare si trovava una creden-za di servizio per il pane, il vino e l’acquadell’Eucarestia. A volte poteva esserericavata nello spessore della paretemeridionale, con due bacili, uno perraccogliere l’acqua usata per sciacquarei vasi sacri e l’altro per purificarsi lemani. In una nicchia più piccola nelmuro erano custoditi i vasi sacrie la biancheria per l’altare. La porta della sacrestia siapriva sul transetto dal latodel chiostro, nei pressidella scala notturna chegarantiva l’accesso aldormitorio. Un passaggioa fianco della scala ga-rantiva l’accesso dal chiostro,mentre dalla parte oppostadel transetto un’altra aper-tura metteva in comunica-zione la chiesa con il cimiterodei monaci. All’esterno, l’abside maggiorepresenta la sommità della parete tri-partita da lesene, con un coronamentooriginario di pilastrini su mensole litiche,che reggono una cornice ad archetti adoppia ghiera di mattoni. Questa soluzio-
ne, risalente alla metà del XII secolo,risente delle tradizioni costruttive delromanico lombardo. La facciata è caratterizzata da un corpoaddossato (nartece), successivo alla rea-lizzazione del prospetto; in origine pro-babilmente era più bassa e forse non pre-sentava ingressi di rilevante importanzain quanto i monaci entravano direttamen-te dal chiostro, nella parte anteriore, e iconversi dalla galleria occidentale. Il campanile, terminante con una cuspidepiramidale ottagonale e con bifore nellacella campanaria, risale alla fine del XIIIsecolo. È stato oggetto di numerosi inter-venti di recupero attestati all’inizio del
XVIII secolo e negli anni venti delXX secolo.
Crocifissione lignea con le figure di Maria e Giovanninella navata sud del transetto (anni trenta XVI secolo)
Transetto sud voltato a botte con arco bicromo tra-sversale e tre aperture a monofora
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MONASTERO
Il chiostro è il cuore del monastero attor-no a cui si svolge tutta la vita comunitariadell’abbazia. La parola deriva dal latinoclaustrum, che indica un qualcosa di chiu-so, o un dispositivo per chiudere. Il chio-stro dei monasteri è uno spazio internoconcluso, cerniera tra l’edificio sacro e gliambienti monastici che si articolano tuttointorno. Spesso, come nel caso di Staf-farda, il chiostro è posto in adiacenza allato sud della chiesa, per sfruttarne la mi-gliore esposizione solare e il riparo dallapioggia. La forma del chiostro, tendenzial-mente quadrangolare, può assumere geo-metrie meno regolari a seconda della topo-grafia del luogo e della presenza o meno dicorsi d’acqua. Spesso la parte centrale èoccupata da una grande fontana (che puòanche essere addossata a un lato del corti-le), oppure da un pozzo. Il chiostro di Staffarda lungo i quattro latiè circondato da corridoi in parte coperti,detti gallerie, che offrono un accesso ripa-rato alle stanze e agli edifici aperti sul cor-tile centrale. Le coperture delle manichehanno forme differenti e i segni sui muri
perimetrali indicano i diversi cambiamen-ti avvenuti nel corso dei secoli. Ad unaprima costruzione con copertura lignea atettoia faceva seguito spesso la realizzazio-ne di un sistema voltato. Le gallerie pre-sentano soluzioni diverse perché sonostate costruite seguendo l’andamento delcantiere, in parallelo alla definizione dellamanica degli edifici alle quali sono annes-se, oppure sono state aggiunte o modifica-te a seguito dei danni bellici della fine delXVII secolo.
Il chiostro era utilizzato sia per diversefunzioni quotidiane, sia per alcuni riti spe-cifici che si svolgevano solo in occasioniparticolari, come la processione per lafesta della Purificazione di Maria (2 feb-braio), quando tutta la comunità monasti-ca e laica usciva dalla chiesa con le cande-le benedette e camminava in processioneintorno al cortile. Questo spazio potevaanche essere luogo di attività manuale:scavi archeologici, ad esempio nelle abba-zie dello Yorkshire, hanno portato allaluce, all’interno del chiostro, bottoni, spil-li e ditali, a testimoniare piccoli lavori dicucito. Inoltre il sacrestano poteva farasciugare le ostie inumidite nelle gallerieriparate, così come i monaci che trascrive-vano i documenti mettevano le loro pagi-ne appena miniate al riparo delle gallerieper fare rapprendere l’inchiostro.
La galleria orientale a Staffarda è coper-ta solo per la prima parte adiacente allachiesa. Il tetto a lose in pietra con orditu-
In alto: galleria della collatio e manica orientale; par-ticolare delle canalizzazioni della fontana.
A lato: galleria occidentale e con colonnine binate ecapitelli fogliati.
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ra lignea a vista, a falda unica, in originericopriva l’intera manica est del chiostro,come testimonia la fila di fori per le testa-te delle travi ancora presenti sul prospet-to. L’attuale tettoia arriva fino alla primatrifora della sala capitolare. Nella zonasud-est si conserva un’apertura a biforamolto profonda con arco a pieno centro euna colonnina con capitello fogliato. Ilpassaggio aperto verso il centro del chio-stro ha una ghiera di arco sottolineata dauna fascia in pietra lavorata con un moti-vo a dente di sega. L’interno della biforaè intonacato con velature colorate. Molteparti sono state reintegrate nel corso deirestauri novecenteschi. La pavimentazione in cotto, con mattonel-le invetriate nei colori giallo, verde e mar-rone, conservata nel tratto della galleria trala chiesa e la sala capitolare, richiamaquelle presenti in numerose altre abbaziecistercensi francesi e inglesi. Nell’angolo opposto, a fianco della chiesae prima dell’ingresso originario alla sa-crestia, si conserva un’edicola: il portale èsostenuto da colonnine e capitelli in pie-tra, è articolato in una serie di ghiere diarchi a sesto acuto e coronato da un tim-pano triangolare con una fascia decorativaa piccoli rombi in cotto. La lapide muratatra la fine del XIX e l’inizio del XX seco-lo, ricorda Scipione Della Chiesa, abate diMezières, vicario generale dell’ordineriformato nella metà del XVI secolo.In origine poteva trattarsi dell’armarium,la libreria presente in ogni abbazia cister-cense, dove si raccoglievano i testi neces-sari al culto e alla liturgia indispensabiliin ogni monastero.
Le regole dell’ordine stabilivano che i librifossero conservati fra la chiesa e la salacapitolare (inter ecclesiam et capitulum), esolo il cantore ne fosse responsabile, distri-
Pianta del monastero ideale con la disposizione degli ambienti intorno al chiostro (da Dimier 1962): 1. Presbiterio;2. Porta del cimitero; 3. Scala del dormitorio; 4. Porta dei monaci; 5. Coro dei monaci; 6. Banchi degli infermi;7. Jubé; 8. Coro dei conversi; 9. Porta dei conversi; 10. Pulpito del lettore; 11. Passavivande.
A. Chiesa; B. Sacrestia; C. Armarium o biblioteca; D. Sala capitolare; E. Scala del dormitorio; F. Parlatorio; G. Saladei monaci; H. Stanza riscaldata; I. Refettorio dei monaci; J. Passaggio d’ingresso; K. Dispensa; L. Corridoio deiconversi; M. Nartece; N. Chiostro; O. Fontana.
Planimetria del complesso monastico di Staffarda con indicazione degli ambienti principali: 1. Chiostro; 2. Chiesa;3. Sacrestia; 4. Sala capitolare; 5. Sala dei monaci; 6. Refettorio dei monaci; 7. Cucina; 8. Calefactorium;9. Manica dei conversi; 10. Fontana; 11. Foresteria.
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buendo i volumi dove necessario e ritiran-doli dopo l’uso per riporli nell’armadioaccuratamente chiuso a chiave. Normal-mente l’interno dell’armarium era suddivi-so in ripiani lignei con ante per richiuderei testi all’interno. Nel caso in cui il numerodei libri avesse superato la capienza dellalibreria si sarebbero trovate altre soluzioniall’interno del monastero, utilizzandospesso la sacrestia. Durante la loro giornata i monaci e lemonache cistercensi avevano alcuni speci-fici momenti dedicati alla lectio divina; lalettura sacra era la principale forma didevozione cistercense praticata al di fuoridella chiesa. In alcuni momenti della lorogiornata ascoltavano la lettura, in altri leg-gevano ad alta voce. La Regola di Bene-detto indica in modo preciso i momentidella giornata da dedicare alla lettura.All’inizio della Quaresima ogni monacoriceveva un libro dalla biblioteca, il suolibro per l’anno, che doveva essere lettointeramente. Dopo le Vigilie, l’incaricatodella settimana per il servizio in chiesaaccendeva una candela di fronte all’arma-rium e i confratelli sceglievano se leggere lì
oppure nella sala capitolare. Chi restava nelchiostro doveva leggere il suo testo senzadisturbare gli altri. Lungo la galleria si eser-citavano anche i monaci incaricati della let-tura ad alta voce nel refettorio o per unufficio. Vista la vicinanza con la chiesa, imonaci percorrevano questa galleria diver-se volte ogni giorno. Lungo la parete dellagalleria orientale, si aprivano gli ingressiper la sacrestia, la sala capitolare, la scaladiurna per il dormitorio, l’ingresso al parla-torio e diversi altri passaggi, e quindi lasuperficie non utilizzata era esigua.Un elemento essenziale per l’organizza-zione della vita monastica era la tabulalignea. Conservata normalmente in questaparte della galleria a fianco dell’ingressodella chiesa, la tabula era un grande pezzodi legno che si percuoteva con una mazzaed era utilizzato come strumento per chia-mare a raccolta i monaci, alcuni di loro osolo uno, a seconda del suono emesso. Ilcompito di percuotere la tabula spettavaal priore che se ne serviva in momenti spe-cifici della giornata. Ad esempio, un datoritmo serviva per radunare i monaci primadi lavorare e un altro indicava il momento
del pranzo. La tabula veniva utilizzata an-che per convocare i monaci per una riu-nione straordinaria nella sala del capitoloo per avvisare l’abate per il mandatumdegli ospiti. Un altro evento che si svolgeva lungo lagalleria orientale del chiostro, e che in ma-niera saltuaria coinvolgeva i conversi, eral’ascolto del sermone dell’abate all’internodella sala capitolare. Viste le dimensionidell’ambiente, spesso non sufficienti, i con-versi prendevano posto nella galleria anti-stante.
La manica orientale del monastero di Staf-farda racchiude al piano terreno, in affac-cio sul chiostro, una serie di spazi neces-sari alla vita monastica spesso collocati inanaloga posizione anche nelle altre abba-zie dell’ordine.A fianco della chiesa il primo ambiente pre-sente era la sacrestia: si tratta di un vanosemplice con un accesso diretto dal chio-stro e uno dal transetto della chiesa. A Staf-farda la sacrestia è a pianta quadrangolare,
Manica orientale del chiostro con gli ingressi agli ambienti al piano terra (sala capitolare, scala diurna e passaggio) e con le aperture del dormitorio al primo piano; internodella sacrestia
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divisa in due campate e coperta da volte acrociera con costoloni a toro. Lungo lepareti si aprono una serie di nicchie, rica-vate nello spessore del muro, ancora oggiutilizzate per riporre il corredo liturgico e ilibri per la celebrazione della messa. Unadi queste è stata trasformata in passaggioverso la sala capitolare. Il lato occidentaledella sacrestia, oggi coperto da arredi, èconcluso dalla volta a botte che sorregge larampa di scale che conduce al piano supe-riore, antico dormitorio dei monaci. Sulle pareti e sulle volte sono presenti al-cune decorazioni pittoriche: una fasciacontinua a scacchiera di colore rosso egrigio e una serie di tondi con figure geo-metriche riproposte sulle vele delle volteriprese negli interventi di restauro pitto-rico diretti da Cesare Bertea negli anniventi del XX secolo.
La sacrestia o vestiarium è il luogo del mo-nastero dove si conservavano i libri per laliturgia e i paramenti sacri usati per la
celebrazione della messa. La posizione trala sala capitolare e la chiesa rendeva lasacrestia il luogo ideale per tenere i libri inordine all’interno di nicchie ricavate nelmuro o di vere e proprie librerie che occu-pavano parte del vano.La sala capitolare costituisce la sala dellacomunità, un importante luogo d’incontroe uno spazio carico di notevole significato;qui si svolgevano attività liturgiche, com-memorative, disciplinari ed educative e ve-nivano discusse le questioni interne dell’ab-bazia. La disposizione della sala con le sueaperture di accesso, che dovevano permet-tere alla luce di entrare e alle voci di uscire,la decorazione e la disposizione dello spa-zio interno sono l’esito delle differenti fun-zioni ospitate.Il nome di sala capitolare deriva dalle riu-nioni della comunità, il Capitolo, che sisvolgevano ogni mattina. I monaci eranoconvocati dal suono della campana delsacrestano; il momento preciso della riunio-ne varia a seconda della stagione e dellesolennità della giornata. I professi entranonella sala in processione silenziosa, secon-do l’anzianità monastica e l’ordine d’in-
gresso nel monastero. L’abate per presie-dere il Capitolo prendeva posto su di unseggio in posizione centrale lungo la pare-te orientale; il priore e il sottopriore siedo-no al suo fianco, mentre la comunità sidispone intorno ai quattro lati della salarivolta verso il centro. La centralità dell’incontro è sottolineatadalla forma dello spazio e dalla disposizio-ne dei sedili. La lettura dei testi sacri avvie-ne da parte di un monaco designato da unleggio posto nel centro della sala: vieneletto il martirologio, ricordando i nomi deisanti onorati nel giorno, poi viene recitatala breve preghiera del mattino (Pretiosa).In seguito si passa alla lettura di un capito-lo della Regola di san Benedetto commen-tato in seguito dall’abate. La Regola ècomposta da 73 capitoli, la cui lunghezzavaria da poche righe a diverse pagine connumerosi sottoparagrafi. La Regola eraletta diverse volte durante l’anno e il ciclocominciava il 21 marzo, giorno della festadi san Benedetto. La domenica e nei giorni di festa venivanospiegati alcuni statuti del Capitolo generaledell’ordine o passi tratti dal libro delle
Edicola con armarium Bifora verso il chiostro e colonnine binate Sala capitolare con volte a crociera costolonate
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Consuetudini. Le Consuetudines, alla basedella vita monastica cistercense, eranocostituite da tre testi fondamentali per l’or-dine riformato: gli Instituta generalis capitu-li (1151), gli Ecclesiastica officia, che defini-vano, principalmente, le questioni liturgi-che e l’Ursus conversorum, che regolava lacondotta dei fratelli laici.La confessione delle colpe è un passo fon-damentale nella vita di un monaco che se-gue la Regola di san Benedetto; il momentoin cui svolgere la confessione è il Capitolodelle Colpe, che segue la lettura dei capito-li della Regola, durante il quale ogni mem-bro della comunità può denunciare i proprierrori e le colpe altrui, nel caso l’interessatonon le manifesti pubblicamente. Nel Capitolo ci si occupava anche di a-spetti della vita abbaziale di carattere pra-tico, come l’assegnazione dei compiti gior-nalieri o settimanali ai monaci. L’asse-gnazione del lavoro veniva annunciata conla tabula, un blocco di legno con una rien-tranza poco profonda, incisa all’interno eriempita di cera, sulla quale il cantore in-cideva il nome di coloro ai quali eranoassegnati i vari compiti settimanali. Nel
Capitolo venivano fatti gli annunci, nomi-nati i superiori, eletto l’abate e data letturadelle lettere del papa, del re, del vescovo odi qualsiasi altro personaggio di rilievo.Inoltre, durante il Capitolo i novizi veni-vano ufficialmente ammessi nel monaste-ro e avevano luogo le professioni di votisolenni; gli abati erano investiti dei loropoteri ed erano distribuiti i libri ai mem-
bri della comunità la prima domenica diQuaresima. Durante le festività principalil’abate teneva un sermone nella sala capi-tolare, e non in chiesa. Normalmente ilCapitolo si chiudeva con la commemora-zione dei membri della comunità defunti,con la recita del salmo De profundis e conle preghiere conclusive.
La sala capitolare di Staffarda si apre di-rettamente sulla galleria orientale, ormaipriva della copertura originaria, con duetrifore e un portale d’ingresso. Le ampieaperture erano necessarie per permettereai conversi di seguire il sermone dell’abatein particolari occasioni liturgiche, ed è perquesto motivo che la sala non aveva portein legno di chiusura e la galleria antistantedoveva essere coperta. Lo spazio interno èarticolato in nove moduli quadrati ognunocoperto da volte a crociera costolonate; le
In alto da sinistra: capitelli fogliati della sala capitolare;prospetto esterno della manica orientale con la triforadella sala capitolare, l’ingresso alla scala per il dormi-torio e il passaggio dei monaci
A lato: interno della sala dei monaci
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quattro colonne lapidee sono sormontateda capitelli a crochet in marmo, arricchitida inserti vegetali a ventaglio che salgono alambire il profilo dell’abaco. Una manodiversa sembra avere realizzato le mensolecon tralci stilizzati ed elementi geometrici. L’importanza della sala emerge anchedalle scelte architettoniche e decorativeattuate; le finestre sono le uniche triforedi tutto il complesso e sono caratterizza-te da colonne binate con capitelli fogliatidi fine esecuzione, come quelli utilizzatinelle gallerie del chiostro. Molti degli elementi architettonici laterizie litici sono stati sostituiti durante i cantie-ri storici di restauro. Alle pareti si conser-vano ancora tracce di intonaco dipinto afinto bugnato. La sala presenta evidentidanni strutturali, tamponati da una centi-natura lignea provvisoria, in attesa di unintervento di recupero.A fianco della sala capitolare si trovava lascala diurna che conduceva dal chiostroal dormitorio al primo piano. Oggi sonovisibili solo il portale di ingresso e le trac-ce della originaria rampa delle scale lun-go i muri perimetrali del vano.
I monaci avevano alcuni momenti di ripo-so anche durante il giorno, in modo parti-colare nel primo pomeriggio. La scala not-turna metteva in comunicazione il dormi-torio con la chiesa, ed era utilizzata per lepreghiere mattutine per evitare di attraver-sare il chiostro, particolarmente umido efreddo di notte. Non è facile individuare a Staffarda l’am-biente dell’auditorium o parlatorio; è docu-mentato che in alcune abbazie, prive delparlatorio nel complesso orientale del chio-stro, alcune delle sue funzioni si svolgevanonel corridoio. Il parlatorio era il luogo doveil priore convocava i monaci per comunica-re loro alcune specifiche istruzioni; è chia-mato anche auditorio, sala dell’ascolto, inquanto i monaci venivano qui ad appren-
dere le indicazioni del priore. Spesso all’in-terno del monastero era presente anche unaltro parlatorio vicino alla cucina, dove ilcellerario impartiva gli ordini ai conversi.
A Staffarda, di fianco alla scala diurna, sitrova un vano di passaggio, detto corrido-io o passaggio dei monaci, che permettedi accedere alla manica esterna al chiostro,perpendicolare alla sala dei monaci, utiliz-zata forse come infermeria e successiva-mente come appartamento dell’abate epoi del vescovo.La grande sala dei monaci è posta all’e-stremità del complesso orientale, prolun-gandosi oltre al quadrilatero degli edificiclaustrali. È un grande vano, diviso indue navate e cinque campate da possentipilastri circolari e dal setto murario che liunisce, coperto da volte a crociera costo-lonate, con capitelli e mensole d’impostadi molteplice esecuzione. I capitelli han-no una decorazione semplificata a larghefoglie solcate da una nervatura centrale.Sui muri perimetrali compaiono mensolebaccellate, una decorazione molto diffusaanche nelle altre abbazie piemontesi-ligu-ri. La semplificazione dell’apparato deco-rativo, per altro coevo alla sala capitolare,sarebbe da ascrivere alla minore aulicitàdella sala utilizzata per lavori manuali.Si tratta di un locale multifunzionale nelquale i monaci potevano svolgere varieattività a seconda delle esigenze dell’ab-bazia, dall’istruzione dei novizi alla co-piatura dei manoscritti fino all’uso agri-colo, testimoniato a Staffarda nei torchi enei vari attrezzi che ne indicano un utiliz-zo improprio in epoca moderna.
Il dormitorio dei monaci, posto al primopiano, era un vano lungo quanto la maggiorparte della manica orientale. L’illuminazioneera garantita dalle monofore presenti suogni prospetto; i letti erano disposti lungo
Capitelli a crochet delle colonne binate del chiostro
Mensola baccellata della sala dei monaci
Capitello e mensola di reimpiego nell’edicola del chiostro
Mensola della sala capitolare
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le pareti perimetrali e nel centro si trovavala pertica sulla quale si stendevano le len-zuola e le coperte non utilizzate e i cambidi abiti. L’accesso al dormitorio avveniva o diretta-mente dal transetto della chiesa, tramite lascala notturna, oppure attraverso la scaladiurna che si trovava verso il centro dellastanza e conduceva alla galleria orientaledel chiostro.Gli ordinamenti e le regole monasticheerano molto rigidi nel definire le consuetu-dini da seguire nel dormitorio; i monaci viaccedevano con il cappuccio sulla testa edovevano osservare rigoroso silenzio.Inoltre non era permesso sedersi sul letto,se non per togliersi le scarpe o per cambia-re la tunica visto che ci si sdraiava vestiti. Illetto era molto semplice: se il monaco eragiovane dormiva su di un pagliericcio conuna coperta ruvida e un cuscino, mentrequelli malati potevano riposare usando unasorta di coperta imbottita.I monaci venivano svegliati dal sacrestanoche accendeva una lampada nel dormito-
rio e una nella chiesa, aprendo poi le ported’ingresso. Nel tardo medioevo queste stanze cosìgrandi vennero suddivise in celle separateper mezzo di pannelli di legno. Le primeattestazioni risalgono al XIII secolo edebbero una vasta eco nei secoli seguenti,se nel 1370 il Capitolo generale fu costret-to a definirle come un fenomeno scanda-loso e comune, condannando in modoaperto e ripetuto la pratica delle celle indi-viduali. Nel 1461 si aggiunse il divieto diusare materassi di piume e lenzuola dilino. Nonostante i divieti, l’età moderna èsegnata dall’evoluzione dei dormitoriattraverso la creazione di celle individualidelimitate da strutture murarie.
I grandi spazi vengono articolati, comeaccade a Staffarda, in un corridoio cen-trale e singole celle disposte lungo i latiperimetrali, ognuna con la propria fine-stra, che varia la geometria rispetto allemonofore medievali. Questi nuovi spazi
vengono coperti con aggiornati sistemi divolte a botte con lunette o a padiglioni.
La galleria prossima alla chiesa, detta chio-stro della ccoollllaattiioo, era utilizzata dai mona-ci alla fine della giornata, prima della Com-pieta, quando si radunavano per ascoltareuna lettura. Il nome deriva dal fatto cheBenedetto aveva individuato nelle Col-letiones di Giovanni Cassiano (morto nel435), una lettura particolarmente indicataper questo momento della giornata, percalmare le proprie energie e predisporsiper il sonno.Anche il rito della lavanda dei piedi (man-datum) si svolgeva nel chiostro della collatioil sabato pomeriggio prima della Compieta.Il rito aveva una sua regolamentazionemolto precisa, che coinvolgeva tutti i mona-ci dell’abbazia a seconda del grado. I cuochisettimanali incaricati di iniziare e finire il ser-vizio si occupavano del rito scaldando l’ac-qua in inverno e portando i contenitori e gliasciugamani necessari. I monaci si sedevanosulle panche di legno e il rito aveva inizio
Corridoio centrale del dormitorio dei monaci con lecelle disposte ai due lati
Volta a botte lunettata del corridoio del dormitorio deimonaci
Manica trasversale del dormitorio con le celle dispostesu di un lato
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quando l’abate, o in sua assenza il cantore,intonava l’antifona Postquam. Il giovedì santo il mandatum assumeva unaforma speciale, essendo la lavanda deipoveri. In questo caso il portinaio si recavanella foresteria e sceglieva un numero diindigenti equivalente al numero dei mona-ci della comunità. I monaci dopo l’ufficiodella Nona lasciavano la chiesa e si recava-no con l’abate nel chiostro dove procede-vano a lavare, asciugare e baciare i piedi deipoveri, ai quali veniva donato anche unsoldo. Lo stesso rito si ripeteva per tutta lacomunità; in questo caso l’abate procedevacon la lavanda dei piedi di dodici membri(quattro monaci, quattro novizi e quattroconversi) ripetendo il gesto di Cristo chelava i piedi ai dodici apostoli. Le attività che si svolgevano lungo la gal-leria adiacente alla chiesa erano, quindi, dinatura spirituale, analoghe a quelle dellachiesa; esse ponevano l’accento sulla vitacristiana della comunità, svolta interior-mente o condivisa con il resto dei fratelli,come per il mandatum.
A Staffarda la galleria è interamente coper-ta da un sistema a tettoia simile al trattopresente nella parte orientale del chiostro.
Un fitto sistema di sostegni, costituito dacolonnine binate con capitelli in marmo,sorregge le arcate a pieno centro aperteverso il cortile centrale. Nella mezzeria learcate si aprono in un passaggio che garan-tisce l’accesso alla corte interna. I capitellidel chiostro, nella maggior parte rifatti suimodelli originari all’inizio del XVIII seco-lo, presentano diverse varianti sul tema acrochet, che uniscono soluzioni più sche-matiche con foglie appena rilevate e picco-li fiori, a esempi con foglie morbide e car-nose arricchite da nervature in rilievo eboccioli. Alcuni capitelli originali, rinvenu-ti durante i cantieri di restauro, si conserva-no lungo il muro meridionale del chiostro.
Sulla galleria meridionale opposta al chio-stro della collatio, si aprono la cucina e ilrefettorio. Le attività che vi si svolgevanoerano legate all’impiego dell’acqua. Dalpunto di vista spirituale, l’immagine dell’ac-qua come fonte di vita e strumento di rin-novamento è ricorrente nell’immaginariocristiano, ma la fontana aveva anche funzio-ni e scopi pratici. L’acqua era utilizzata perla rasatura e il taglio dei capelli dei monaci,che si distinguevano dai conversi, chiamati“barbati”, in quanto si radevano periodica-mente. Anche la rasatura e il taglio dellatonsura erano regolati strettamente dalleindicazioni dell’ordine, che ne stabiliva laperiodicità. Nel 1257 il Capitolo generaledecise che la frequenza doveva essere didodici volte l’anno e nel 1287 la rasaturadella barba venne imposta due volte al me-se. Il tutto avveniva intorno alla fontana do-ve il monaco incaricato portava i pettini, leforbici, i rasoi, mentre gli inservienti dellacucina fornivano l’acqua calda, nel caso chequella della fontana fosse gelata. I monaciincaricati dall’abate del taglio dei capelliprocedevano seguendo la forma della ton-sura e poi ogni monaco si radeva la barba.
La fontana a Staffarda in realtà era un si-stema di canalizzazioni e vasche con formevariabili che occupava la parte centraleProspetto sud della chiesa con il transetto e la galleria settentrionale del chiostro
Copertura lignea della galleria settentrionale e dell’ini-zio di quella orientale
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del cortile del chiostro e il lato verso lagalleria del refettorio. Verso il lato oc-cidentale del chiostro sono ancora rico-noscibili due vasche circolari a pozzo col-legate al resto del sistema da canali conpendenze variabili per facilitare l’afflussoe il deflusso delle acque. La fontana,posta in asse con l’ingresso del refettorio,aveva una pianta presumibilmente otta-gonale come testimoniano le tracce nellacorte interna.Il prospetto della manica mostra unaserie di rifacimenti, tra i quali anche unsistema voltato con varie geometrie. Sonoancora visibili gli ingressi al ccaalleeffaaccttoo--rriiuumm, al refettorio dei monaci, e alla cuci-
na sull’angolo ovest, e una porta di acces-so al piano superiore, con la scala che ser-viva la residenza dell’abate. La coperturadella galleria si conserva solo nell’angolocon la manica occidentale, ricostruita asomiglianza di quella antica conservatasul lato della sacrestia. Il calefactorium non è ora visitabile inquanto è stato colonizzato da pipistrelli,che ogni anno si ritrovano qui per lanascita dei piccoli chirotteri.
Dalle indicazioni dell’ordine poteva essereacceso il fuoco solo all’interno di tre loca-li del monastero: le cucine, l’infermeria e ilcalefactorium. In quest’ultimo ambiente
erano permesse tre attività: riscaldarsi,poco e non sempre, cospargere di grassole scarpe ed essere sottoposti ad un salas-so. L’ambiente era controllato per evitareche durante la lettura, qualche monacoapprofittasse in modo indebito del suoconfortevole calore anche quando avreb-be dovuto trovarsi nel chiostro. Nellanotte di Natale il cellerario aveva il compi-to di mandare due conversi ad accendereil fuoco per far scaldare i monaci dopo leVigilie se il freddo era intenso ed eccessi-vo. In caso di salasso, il priore incaricaval’infermiere di accendere il fuoco pergarantire di avere una stanza calda per chiavesse dovuto sottomersi alla procedura,che era prassi comune per i mali fisici epsicologici dei monaci.
Veduta generale del chiostro con le canalizzazioni della fontana Interno del refettorio dei monaci
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I compiti legati alla cucina erano stabilitisettimanalmente a rotazione, iniziando efinendo di sabato. Al termine del servizioi monaci facevano le pulizie, lavavano gliasciugamani ed eseguivano il mandatumdella comunità. Gli utensili da cucinaerano mantenuti puliti e in buone condi-zioni dal cellerario che li affidava ai mona-ci incaricati. Il cibo era preparato pertutta la comunità nella stessa cucina, chespesso era posta tra i due rispettivi refetto-ri (dei monaci e dei conversi), all’estremi-tà occidentale dell’ala nord o sud e vicinoal magazzino della manica occidentale. Ilcibo veniva fatto passare dalla cucina neirefettori attraverso uno sportello a ribaltaricavato nel muro. Ogni giorno per ilpranzo dovevano essere preparati almenodue piatti cotti e una terza portata di frut-ta o verdure fresche. La carne era esclusadalla Regola, ad eccezione dei malati, men-tre in alcuni giorni i monaci potevanomangiare uova e pesce. Il pasto dei mona-ci era rigidamente stabilito; al richiamodella campana i monaci si recavano verso ilrefettorio in processione prendendo postosulle panche disposte lungo le pareti peri-metrali e attendevano l’arrivo del prioreche presiedeva il pasto. Il cellerario e i cuo-chi si occupavano della distribuzione dei
piatti caldi dopo la recita della preghiera. Il refettorio era uno degli spazi fondamen-tali per il monastero; normalmente eraposto a ridosso della cucina, lungo lamanica sud del chiostro, in opposizionealla chiesa. Molti complessi cistercensipresentano un refettorio perpendicolareal chiostro, per lasciare maggior spazioagli edifici dei conversi lungo l’ala occi-dentale. Pur non essendo una regola que-sta scelta presentava numerosi vantaggi,tra i quali quello di lasciare molto spazioper le altre strutture necessarie come lacucina, la dispensa, il calefactorium e ilparlatorio del cellerario. Inoltre la posizio-ne perpendicolare permetteva di aprirefinestre sui due lati, invece che su unosolo. Nella realtà sono numerosi i refetto-ri costruiti parallelamente alla manica delchiostro, per esigenze legate alla confor-mazione del terreno o ad altre peculiaritàdi ogni singolo complesso.
Il refettorio di Staffarda è stato costruitoparallelo alla galleria del chiostro occu-pando quasi tutta la superficie della mani-ca meridionale. L’antico ambiente purmantenendo i muri perimetrali è statocompletamente trasformato, in età moder-na, con l’introduzione di un nuovo sistemavoltato a crociera poggiante su solidi pila-stri. Lungo i muri perimetrali sono visibi-li le semicolonne pensili con mensole ecapitelli in pietra scolpiti, che sosteneva-no l’originaria copertura del vano. Sullato meridionale si trova parte della scalache conduceva al pulpito utilizzato per lalettura durante i pasti. Il portale si pre-senta di ottima fattura con elementi deco-rativi bicromi a geometria triangolareripetuti sulla ghiera dell’arco. Sul fondodella sala sono presenti tracce di un affre-sco rappresentante l’Ultima Cena, risa-lente alla fase di aggiornamento della de-corazione all’interno dell’abbazia tra lafine del XV e i primi anni del XVI secolo.
Particolare della decorazione a rombi delle monoforedel refettorio
Semicolonna laterizia con mensola e capitello in pietra del refettorio; prospetto esterno del refettorio dei monaci
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In molti altri refettori sono testimoniatepitture o sculture di tema sacro in modoche il nutrimento del corpo fosse sempreabbinato al ristoro dell’anima. Sul pavi-mento in cotto si conservano alcune cana-lette per raccogliere i resti del cibo e faci-litare la pulizia con un getto d’acqua fattoscorrere all’interno. La galleria occidentale è quella che menosi caratterizza per un preciso ruolo nellavita monastica cistercense. Era utilizzatacome collegamento tra il chiostro e lamanica dei conversi e come passaggio trale diverse gallerie. Il fronte verso la corteinterna è sottolineato da una serie conti-nua di archi in appoggio su colonninebinate con capitelli in marmo. Sulla mez-zeria si apre un portale ad arco che im-
mette nella corte centrale; analoghi pas-saggi si riscontrano in corrispondenzadell’angolo sud-ovest e sul lato opposto(aperto solo in parte). La galleria ovest egli edifici che vi si affacciano sono le partidel chiostro che hanno subito le maggioritrasformazioni in età moderna. L’ala occidentale del chiostro era dedica-ta ai conversi e ai magazzini.
L’importanza rivestita dai conversi nellecomunità cistercensi è rilevante. Essi ave-vano bisogno di spazi simili a quelli deimonaci per le loro necessità materiali quo-tidiane: un dormitorio, un refettorio, unparlatorio, un’infermeria, depositi perattrezzi e utensili, in parte ubicati nell’alaoccidentale del chiostro. I conversi aveva-no anche un loro passaggio diretto verso la
chiesa, la porta dei conversi posta all’estre-mità occidentale della chiesa. Il corridoioper i conversi era parallelo alla galleriaoccidentale e posto tra questa e gli edificidell’ala.
Questo passaggio si è conservato anche aStaffarda con un’originaria copertura avolta a botte. L’ambiente parallelo al cor-ridoio è un unico grande vano voltato abotte, caratterizzato sul prospetto ester-no da un portale a tutto sesto con concilitici alternati a laterizi. L’ala occidentalesi apre verso l’esterno del perimetro delchiostro con un prospetto ampiamenteriplasmato nel corso dei secoli, ad ecce-zione della lunetta scolpita con caratterimedievali.
Interno della galleria occidentale con colonne binate Prospetto della galleria dei conversi con passaggio verso il chiostro
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L’insediamento di Staffarda risulta suddivi-so in due parti ben distinte: da un lato ilblocco monastico vero e proprio coinci-dente in parte con la clausura, che aveva isuoi due poli nella chiesa e nel chiostroquadrangolare, e dall’altro il blocco a pian-ta semicircolare disposto a ovest e occupa-to in gran parte dalle tenute agricole. All’esterno dell’area monastica di clausu-ra si trovano due edifici di particolare in-teresse: la loggia del mercato, detta ancheala del grano e la cosiddetta foresteria.La foresteria è articolata su due livelli: alpiano terra, l’ambiente è suddiviso in cin-que campate da quattro pilastri a sezionecircolare in pietra con capitelli di varia for-ma e dimensione. L’edificio è stato ricono-sciuto come la domus hospitalis, la foreste-ria per l’accoglienza dei pellegrini e deiforestieri in transito. La sua posizione al difuori del recinto monastico della clausurasembrerebbe confermarlo. La foresteriaera dotata di un dormitorio, di una cucinae di un refettorio. L’hospitalis o il forestera-rio si occupava dell’accoglienza e dellagestione della foresteria. Gli ospiti impor-tanti avevano il permesso di assistere allecelebrazioni rimanendo in fondo alla chie-sa, ma potevano ricevere la comunionesolo se si ammalavano durante il soggior-no nell’abbazia. La foresteria era anche illuogo dove, almeno nei primi decenni,l’abate aveva la sua tavola e mangiava congli ospiti di riguardo prima di avere unamensa privata nel suo appartamento. La loggia del mercato, detta anche ala delgrano, è un edificio quadrangolare scan-dito da arcate su possenti pilastri rettan-golari in mattoni. Le basi e i capitelli amensola sono in pietra arenaria. Il profi-lo degli archi è variabile: sul fronte versoil monastero sono acuti, mentre verso gliedifici rurali sono a pieno centro. AlcuneEsterno dell’edificio detto “foresteria”; interno della sala con pilastri circolari
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aperture a feritoia caratterizzano il livellosuperiore. Lo spazio porticato era utiliz-zato come luogo di scambio e di commer-cio dei prodotti coltivati nelle grange epoi nelle aziende della tenuta. Spesso nei pressi dell’ingresso dell’abba-zia c’era un’infermeria per i laici destina-ta agli ammalati e ai poveri; a Staffardaera collocata in un punto imprecisato delcomplesso all’interno del muro di recin-zione, così come la tessitura e la sartoria.Inoltre non vi è più la traccia materialedegli alloggiamenti per i novizi, forse rin-tracciabili negli ambienti posti a sud del-l’area monastica intorno ad un cortilechiuso, delimitato dalla manica occiden-tale dei conversi, dall’edificio della saladei monaci e da altri blocchi destinati adattività agricole.
Loggia del grano: esterno e struttura voltata del piano terra aperto su tre lati
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Un altro ambiente sicuramente presentea Staffarda, ma non più identificabile concertezza, è la portineria. Oltre alle nor-mali funzioni, il portinaio era incaricatodi distribuire le elemosine ai poveri, cibo,vestiti e calzature. Quest’attività era par-ticolarmente sentita dai cistercensi, che inmolte occasioni sono stati ricordati per laloro beneficenza in periodi di epidemie odi carestia. La portineria poteva essere munita di uningresso a ponte e connessa alle mura e-sterne tramite una porta. A Staffarda po-trebbe identificarsi con il blocco di edifi-ci che conservano tracce della porta edella pusterla, in conci squadrati litici,concluse da una torre inserita nei corpisettentrionali dell’attuale area agricola. Le mura di delimitazione della proprietànormalmente non vengono costruite su-bito, ma aggiunte con il passare del tem-po, soprattutto per delimitare lo spaziosacro più che per vere e proprie esigenzedifensive, visto che non raggiungono mai
altezze considerevoli e non hanno sistemidi difesa attrezzati. Nel caso di Staffarda per entrare nel com-plesso si accedeva da alcune porte, ricor-date nei documenti, come la porta mag-giore (porta maior), la porta che si aprivasulla corte interna (porta curie) e la portadi Revello nella cortina muraria ovest.Gli edifici che compongono il complessoagricolo sono in gran parte ascrivibili all’e-tà moderna, come testimoniano i sistemicostruttivi adottati nelle cascine e nellestalle, con volte risalenti al Settecento eall’Ottocento. Il perimetro antico dei cascinali coin-cideva con quello conservato oggi sulfronte occidentale; la partizione tra edifi-ci monastici e rurali, determinata dalcanale del mulino, probabilmente rispec-chia quella originaria. Il mulino era giàanticamente attestato, anche se le strut-ture architettoniche e i sistemi idraulicinon sono sicuramente quelli dell’età me-dievale.
Prospetto esterno della manica occidentale del chio-stro limite della clausura dei monaci
Torre porta
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a costituire il primo nucleo del patrimonio, alquale ne fecero seguito numerose altre.Casanova si costituì sulla base patrimonialedefinita dai marchesi Manfredo e Ugo e altrifratelli, e donata all’abbazia di Tiglieto comecontributo alla fondazione del nuovo ente mo-nastico (Gullino 2006). In questo caso, la par-tecipazione fu indiretta e minore rispettoall’impegno dei marchesi per Staffarda, ma nonmarginale, in quanto i Saluzzo intervennero inmodo determinante nel sostenere l’inserimen-to patrimoniale di Casanova nell’area di Car-magnola (Provero 2006). Gli anni trenta delXII secolo stabilirono un nuovo intensificarsidei rapporti tra papato e ordine di Citeaux:durante lo scisma di Anacleto II (1131-1138),la presenza cistercense sul territorio del nordd’Italia andò intensificandosi con la costruzio-ne di numerose abbazie, articolando il com-plesso quadro delle istituzioni monastiche(Comba 1999b).La stretta relazione di fiducia e di sostegnoreciproco intercorsa tra i monaci, in particola-re Bernardo di Chiaravalle, e il papa InnocenzoII definisce da un lato la vittoria del ponteficee dall’altro il quadruplicarsi, in pochi anni, delnumero delle abbazie nel nord Italia. Le nuove fondazioni cistercensi in Italia, daSant’Andrea a Sestri, a Morimondo, a Staffar-da, a Chiaravalle Milanese, a Cerreto e a Chia-ravalle della Colomba, nascono tutte dopo il1130, durante lo scisma, periodo che corri-sponde al momento di rielaborazione degli i-deali cistercensi, confluiti nella redazione de-gli Statuti generali dell’ordine del 1134. Ormai gli storici sono propensi ad una rilettu-ra di questo atto non come conferma della
persistenza della tradizione primitiva dell’ordi-ne, ma piuttosto come un tentativo di creare unmodello ideale di comportamento, anche inaderenza alle critiche mosse da Bernardo aicluniacensi (Comba 1993, Bouchard 1988). Nei primi anni trenta, nonostante le regoledegli Statuta, che prescrivevano come luogod’insediamento il desertum, unica possibilitàper raggiungere la quies monastica, il panora-ma delle relazioni sociali e politiche dei cister-censi si estese anche alle città, prima fra tutteMilano, con la fondazione di Chiaravalle(Ambrosioni 1992). Verso la metà degli annitrenta le abbazie cistercensi avevano intessutostretti rapporti con i gruppi dirigenti dellecittà e con alcuni vescovi sostenitori di Inno-cenzo II, che si fecero promotori degli inse-diamenti di Chiaravalle della Colomba (Va-lenzano, Guerrini, Gigli 1994), e di Morimon-do (Rapetti 1996, Picasso 1993, Calliari 1991,Manselli 1966). Un altro elemento di nodale interesse, riscon-trabile nelle prime abbazie piemontesi, è che sitratta in tutti casi di fondazioni legate diretta-mente o indirettamente alla casa madre LaFertè. Gli studiosi in questi anni si sono chiestise sia possibile leggere linee insediative comunitra le abbazie figlie e le case madri; anche se nonsembra esserci una precisa risposta, è interes-sante sottolineare come le figlie piemontesi di laFertè, tutte correlate dallo stretto legame conl’aristocrazia militare, si caratterizzino per unaconnotazione rurale, lontana da altre fondazio-ni italiane derivate da Clairvaux e da Mori-mond, più prossime al mondo urbano. Il nuovo orientamento cittadino non limita,comunque, le nuove fondazioni in area rurale.
L’Italia settentrionale costituisce un bacino fa-vorevole per il radicamento dell’ordine cister-cense. Il forte legame instauratosi tra i cister-censi, riconosciuti nel 1119, e il papa CallistoII, determinò la prima diffusione dell’ordine aldi qual delle Alpi, individuandoli come i “re-ferenti privilegiati” per incentivare la riformadei centri benedettini. La prima abbazia cistercense fondata fu Ti-glieto (1120), nell’attuale diocesi di Acqui (ma interritorio ligure), costituita da un nucleo dimonaci provenienti da La Fertè. La chiesa ven-ne intitolata a S. Maria e alla S. Croce, e la dedi-cazione alla Vergine divenne consuetudine perogni nuova abbazia (Pistilli 1990, Polonio 1998).La seconda istituzione fu quella dell’abbaziadi Santa Maria di Lucedio, nel vercellese, av-venuta il 21 marzo 1123. A seguire vennerofondate le abbazie di Staffarda nel 1135, Casa-nova a partire dal 1142, e Rivalta Scrivia, la cuicomunità religiosa, ricordata a partire dal 1151,passa all’ordine cistercense nel 1180 (Settia1999, Comba 1999a). Le prime quattro abbazie rivelano caratteri co-muni nell’insediamento dei monaci; a sostene-re e a costituire il patrimonio di Tiglieto, di Lu-cedio, di Staffarda e di Casanova furono ramidiversi della discendenza del marchese Ale-ramo. L’istituzione di Tiglieto fu sancita, nel1120, dal vescovo Azzone di Acqui, dal mar-chese Anselmo, suo fratello, e da altri familiari,detti del Bosco di Ponzone, mentre Lucedio fudotata tre anni dopo dal marchese Ranieri diMonferrato e dai suoi cugini (Comba 2006).In maniera analoga Staffarda, voluta da Man-fredo I e dalla sua famiglia, eredi di Bonifaciodel Vasto, riceve un’ampia donazione di terre
Uomini
I cistercensi in Piemonte e la comunità di Staffarda
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È il caso di Staffarda, promossa nel 1135 da unadonazione del marchese Manfredo e dai suoifratelli Guglielmo, Ugo, Anselmo, Enrico edOttone Boverio. Staffarda risulta essere, quindi,la terza abbazia cistercense istituita da un ramodella stirpe aleramica nel tentativo di radicarsiin un preciso territorio. I beni donati eranoampi e comprendevano, oltre alle terre di perti-nenza del monastero, i boschi della Sala neipressi delle colline saluzzesi e di Gambasca, ilprimo nucleo patrimoniale della grangia diLagnasco, ampi diritti di pascolo e di alpeggiotra le Alpi e la Liguria. La fitta vegetazione, lasilva Stapharda, che ricopriva l’area su cui sorsel’abbazia, fino a raggiungere verso nord il boscodi Cardè e quello di Aimondino, rispondevapienamente ai criteri di eremitismo delle primecomunità monastiche dell’ordine e a quantoribadito negli Statuti del 1134.La nascita di Staffarda negli anni cruciali delloscisma papale, quando il ruolo dei cistercensiriveste un peso significativo, attribuisce allafondazione una posizione oggettiva nel contri-buire alla lotta contro l’antipapa creando unnuovo centro favorevole al legittimo successo-
re di Pietro. Probabilmente, visti i forti legamiesistenti tra i marchesi di Monferrato e i mona-steri cistercensi piemontesi, divenne giocoforza per i marchesi del Vasto, il ramo più po-tente della discendenza di Aleramo, di schie-rarsi a favore di Innocenzo II. Inoltre le fondazioni subalpine di La Fertè die-dero un sostegno notevole, convincendo isignori delle campagne piemontesi a schierarsiin suo favore, esattamente come le nuove abba-zie liguri, lombarde e emiliane, figlie di Cîteaux,Morimond e Clairvaux svolsero un ruolo altret-tanto significativo in ambito cittadino. Il rapporto privilegiato con i marchesi del Va-sto – e, in seguito, di Saluzzo – continua anchenel secolo XV, quando divennero abati il fratel-lo e il nipote naturali di Ludovico I, entrambidi nome Giovanni ed entrambi legati all’ordinecistercense, nel periodo compreso tra il 1420 eil 1462. Dopo gli anni sessanta del Quattrocento, conla morte del secondo abate Giovanni ancheStaffarda divenne una commenda, istituzionenormalmente legittimata con la necessità di unrisanamento economico e spirituale del mona-
stero (Penco 1983). In realtà i poteri di con-trollo del patrimonio fondiario affidati al com-mendatario erano illimitati e non sorprende,quindi, che questa carica sia stata rivestitadagli eredi del marchese di Saluzzo. In primisFederico, figlio secondogenito di Ludovico I,già protonotario apostolico e poi vescovo, cheresse l’abbazia fino al 1482 (Mangione 1999).La trasmissione della carica all’interno dellastessa famiglia garantisce quasi un carattere diproprietà dell’ente religioso, diventa una delle“commende ereditiere” che caratterizzaronoil mondo monastico nel corso del XVI secolo(Pizzati 1997, Ricasso 1975).La comunità cenobitica nel secolo della com-menda subisce una netta contrazione; se nellaseconda metà del XIII secolo il monasterocontava una presenza stabile di circa 34 perso-ne, nel 1419 scendono a 6 confratelli, mentrenel 1411 in un contratto ne sono nominati 11.Verso la fine del secolo, nel 1482, i monacierano 9, mentre nel 1510 al giuramento per ilnuovo abate commendatario, risultano pre-senti 13 monaci e il priore (Mangione 1999,Savio 1932).
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Per quanto riguarda la gestione delle proprie-tà dell’abbazia, il periodo della commenda ècaratterizzato da una politica alquanto libera esvincolata dalle rigide norme degli statuticistercensi. L’abbazia di Staffarda si era giàvista costretta ad alienare alcuni dei suoi beniin periodi di particolare difficoltà; alla fine delDuecento era stato necessario cedere la gran-gia di Carpenetta (Comba, Longhi 2005) econtrarre mutui per 3000 lire. Nel 1482 ilcommendatario ottenne il permesso di per-mutare il palazzo e i beni della grangia dellaMorra con redditi fissi a favore dei marchesidi Saluzzo, che si appropriavano così di beniabbaziali ad un canone annuo perpetuo nonelevato e fisso (Savio 1932, Gosso 1940, Man-gione 1999). Questo divenne prassi nei seco-li seguenti, costituendo spesso opportunità diappropriazione indebite; “sotto il pretesto diun’apparente utilità per l’abbazia, si avviò unprocesso di spoliazione dei suoi beni di cui lostesso abate commendatario era il regista”(Chittolini 1973).Nel 1510 il nuovo abate Giovanni Ludovicoprovvide ad assegnare in locazione alcuni benidell’abbazia, tra i quali le grange della For-naca, Lagnasco, Pomerolo, San Marco, Tor-riana, e i terreni a Cardè, gli alpeggi di Lu-serna, il bosco di Gambasca, parte di bosco aSaluzzo e un sedime a Torino (Archivio diStato di Torino – ASTo – Protocollo Stanga, f.126v, 18 ottobre 1510). Secondo alcuni storici l’abate Giovanni Lu-dovico si fece promotore di interventi signifi-cativi nel complesso abbaziale (TarditoAmerio 1966). Muletti afferma che “fece ri-storare quel monistero per vecchiaia e perl’incuria de’ precedenti abati quasi intiera-mente rovinato” (Muletti 1829-33, IV, p. 371).A lui si deve probabilmente la realizzazione diun nuovo, maestoso apparato liturgico, daconnettersi con l’antecedente cantiere di re-stauro architettonico, testimoniato dalla data-zione di riconsacrazione dell’edificio (1506),tramandata da un’iscrizione sul muro d’in-gresso della sacrestia e oggi non più conserva-ta. Le opere di arredo volute dall’abate com-mendatario, il coro e il pulpito ligneo, il polit-tico eseguito in parte da Pascale Oddone(1531-1533), la crocifissione lignea e l’altare al
fondo della navata sinistra, rivestono un ruolosignificativo e di rilevante interesse nel pano-rama artistico del Marchesato del XVI secolo.Con la figura di Giovanni Ludovico si chiude-va, con il successivo passaggio francese e ladefinitiva annessione sabauda, la grande eradella committenza marchionale per l’abbaziadi Staffarda.Con la bolla del 1 ottobre 1750, il papa Bene-detto XIV erigeva la tenuta di Staffarda contutte le sue dipendenze a commenda perpetuadell’ordine militare dei SS. Maurizio e Laz-zaro (Archivio Storico Ordine Mauriziano –ASOM – Staffarda, m. 19, fasc. 430, 1 ottobre1750). La comunità monastica continuava arimanere nell’abbazia e percepiva una pensio-ne che doveva servire a garantire il sosten-tamento dei monaci. La commenda maurizianafu conferita al duca del Chiablese, secon-dogenito del re Carlo Emanuele III, incaricatodi gestire i beni dell’abbazia. L’ordine mauriziano, istituito dal duca Ema-nuele Filiberto di Savoia tra il 1572 e il 1573,
ricoprì immediatamente un posto insigne inEuropa, attirando cavalieri da tutta la peniso-la e non solo. San Maurizio era il patrono deiSavoia, che manifestano la propria devozionesopratutto attraverso la venerazione delle reli-quie del santo, impiegate nella cerimonia dinomina dei cavalieri (la spada), mentre l’anel-lo era utilizzato per il rito della successionedinastica (Merlotti 2002).
GGIIOOVVAANNNNII LLUUDDOOVVIICCOO figlio del marchese Ludovico II di Saluzzo, fu eletto abate commendatario diStaffarda quando aveva tredici anni, nel 1510. Già protonotario apostolico, risulta essere titolaredi numerosi altri centri monastici nel Marchesato, tra i quali l’abbazia dei SS. Vittore e Costanzodi Dronero, il priorato di S. Pietro di Pagno e di S. Michele di Papò. L’attribuzione della commen-da a Giovanni Ludovico era stata fortemente voluta dalla madre Margherita di Foix, che gover-nava il marchesato in sostituzione del marito, Ludovico II, morto del 1504, e in attesa della mag-giore età del primogenito Michele Antonio. La volontà della marchesa di gestire le ricche renditeecclesiastiche sembra non essere seguita dai figli, in particolare da Giovanni Ludovico, che pagòi suoi dissidi con la madre con dieci anni di prigionia tra Verzuolo e Parigi. Le motivazioni dellacarcerazione sono da ricercarsi nella sua vicinanza alla politica imperiale, contro quella franceseappoggiata dalla madre e dal primogenito Michele Antonio. Morto il marchese Michele Antonionel 1528, il titolo passò al terzogenito Francesco, diseredando il legittimo successore GiovanniLudovico. L’anno seguente fu di nuovo condotto in carcere a Parigi, dove rimase fino al 1536,quando venne liberato per guidare le truppe francesi contro quelle imperiali, capeggiate dal fra-tello Francesco. Dopo fasi successive di alleanze e arresti, gli ultimi anni furono caratterizzati dallalotta con l’ultimo dei fratelli Gabriele, che nel frattempo aveva ottenuto il titolo di marchese dalre di Francia. Giovanni Ludovico rimise le sue pretese sul marchesato prima al duca EmanueleFiliberto di Savoia nel 1560, e poi al re di Francia, dal quale ottenne una pensione e l’assegnazio-ne del luogo di Beaufort nell’Anjou dove morì nel 1563. La rinuncia alla commenda sui mona-steri saluzzesi avvenne nel 1538, a seguito di tale cessione, il papa Paolo III nominava il fratelloGabriele che cedeva a sua volta l’incarico a Bartolomeo di Saluzzo, alias de Piperis, figlio natura-le di uno dei marchesi (Savio 1932, Gentile 1999). Giovanni Ludovico è ricordato dagli storici come grande committente per l’abbazia di Staffarda,che nella prima metà del XVI secolo fu oggetto di rilevanti interventi e integrazioni dell’arredoliturgico della chiesa.
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farda è profonda; gli statuti cistercensi nonpermettevano diritti di patronato e di control-lo dei promotori sul monastero, al contrariodelle abbazie benedettine, quindi l’importan-za di Staffarda è da leggersi su di un terrenosociale e simbolico, nella capacità dell’abbaziadi creare forme di solidarietà sociale e politica(Sergi 1994). Staffarda non risente però solo delle attenzionidella famiglia marchionale; tutte le maggiorifamiglie signorili, milites locali e i sudditi deipoteri aristocratici rivolgono all’abbazia dona-zioni di terreni e di proprietà, attuando un pro-cesso di ripresa e di imitazione dei comporta-menti dei gruppi dinastici dominanti. La diffu-sione delle pratiche di donazione segue i legamipersonali, vassallatici e a seguire quelli che lega-vano signori e contadini.Gli atti simbolici acquisiscono un peso rilevan-te: donare terre a Staffarda voleva dire costrui-re legami di solidarietà e di clientela con un entereligioso che si identifica fortemente con il po-tere marchionale (Provero 2008).La rete delle relazioni avviata dalla fondazio-ne dell’abbazia prosegue nel corso del XIIsecolo con la costituzione del patrimonio fon-diario e del sistema delle grange; quelle diLagnasco e di Torriana nacquero grazie adonazioni marchionali, che furono implemen-tate, successivamente, dalle famiglie legate aiSaluzzo, ai marchesi di Busca e ai signori diMontemale per Lagnasco, e ai signori di Pios-sasco, Revello, Envie per Torriana. Per la costituzione del patrimonio della gran-gia della Morra intervenirono i marchesi diSaluzzo e di Busca, i signori di Brondello, e inseguito numerose famiglie di milites locali. A
Pomerolo l’insediamento monastico fu pro-mosso dai signori di Verzuolo, vassalli deiSaluzzo, mentre a Gambasca alla donazioneiniziale dei marchesi del Vasto, ne fecero segui-to altre di diversa provenienza (Panero 1999).Nel corso del XIII secolo si rileva un’attenua-zione del ruolo politico di Staffarda come cen-tro simbolico del marchesato e di conseguenza,diminuirono, in maniera significativa le dona-zioni da parte dei signori locali. Questo portòad un successivo rinnovamento attraverso treaspetti rilevanti: Staffarda divenne luogo diconservazione della memoria marchionale,ambito di costruzione di nuove carriere politi-che e centro di potere nei confronti della popo-lazione contadina (Provero 1999). La scelta dei membri della famiglia marchiona-le di essere sepolti a Staffarda caratterizza ilcorso del Duecento, sottolineando l’importanzache i marchesi davano al monastero, che veniva,inoltre, scelto per siglare importanti negoziazio-ni e per concludere transizioni patrimoniali.Gli statuti di Citeaux (1134) ammettevanosolo in rari casi le sepolture all’interno delleabbazie, privilegio concesso solo ai membridelle dinastie signorili che hanno dimostratoun chiaro favore verso le comunità monasti-che (Canivez 1933-1941, I, cap. XXVII, p. 19;Lucet 1964, p. 322). Le sepolture dei marche-si di Saluzzo nell’abbazia di Staffarda sonotestimoniate fin dal XII secolo, con la tombadel fondatore Manfredo I (†1175), come ri-corda il figlio, in un atto di donazione del1178 (Muletti 1828-1833, II). Più difficile sta-bilire con certezza la sepoltura di Manfredo II(†1215), mentre Manfredo III (†1244) troveràposto all’interno della chiesa di Staffarda
Nobiltà e vita monastica: i marchesi di Saluzzo e i poteri locali
La fondazione dell’abbazia cistercense diStaffarda è strettamente legata ai marchesi diSaluzzo. Dalla bolla papale del 28 marzo 1144emerge la precisa volontà dei marchesi di pro-muovere l’istituzione del monastero. La dota-zione del patrimonio terriero alla comunità risa-le probabilmente al 1135, grazie alla volontà diManfredo, Guglielmo Ugo, Anselmo, Enricoed Ottone Boverio, figli di Bonifacio del Vasto,e ricordati come donatori delle terre che costi-tuirono il primo nucleo patrimoniale diStaffarda. Il territorio lasciato in eredità ai figlida Bonifacio era molto “vasto”, da cui il nomedato al capostipite, comprendendo una estesaregione tra il basso Piemonte e la Liguria.L’ampiezza del territorio portò ad una disper-sione del potere e alla difficoltà di maturareun’autonomia territoriale, che venne a definirsicon la scelta da parte dei marchesi, di Manfredoin particolare, di condurre “un massiccio inve-stimento politico ed economico nel saluzzese,contribuendo alla fondazione di due abbaziecistercensi, Staffarda, prima, Casanova, poi”(Provero 1999). Manfredo, sul quale, essendo ilprimogenito, si concentrarono il potere e ilpatrimonio, diede il via, unico tra i discendentidei marchesi del Vasto, alla formazione di unprincipato territoriale: il marchesato di Saluzzo. I monasteri costituivano dei poli di attrazione,ma erano anche strumenti per sacralizzare ilterritorio, componente primaria del vivere incomunità. Una comune prassi tra le diversesignorie diventa quindi la “colonizzazionemonastica”, un processo tendente ad organiz-zare un territorio e legittimare il proprio pote-re attraverso i nuovi insediamenti monastici. La funzione politica dell’intervento a Staf-
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(Ecclesia 1603). Tommaso I (†1296) segnerà lasvolta alla fine del secolo, tra le antiche tradi-zioni e le nuove realtà devozionali: il marchese,nel suo testamento, stabilì di inumare il suocorpo nell’abbazia di Staffarda e il cuore nelconvento femminile domenicano di Revello,dove era già stata sepolta la moglie (Merlo1997). Non ci sono dubbi quindi nella sceltadei marchesi, che individuano in Staffarda ilprimo mausoleo della famiglia, “spazio sacrodesignato per custodire le tradizioni religiosedella dinastia” (Tosco 2003, p. 49). La seconda valenza politica che caratterizzaStaffarda nel Duecento è l’essere stata sceltacome luogo e strumento delle carriere delle fa-miglie dell’enturage della corte marchionale.Tra questi, riveste un ruolo rilevante il caso diGiacomo della Rossa, di famiglia saluzzese, checompare tra i monaci di Staffarda a partiredagli anni trenta del XIII secolo, per poi diven-tare abate negli anni settanta, dopo aver percor-so tutte le cariche principali della gerarchiacistercense. La famiglia di milites annovera tra isuoi appartenenti Amedeo, pievano di Saluzzodal 1231 al 1291, attivo come arbitro nelle con-
tese tra i monasteri della zona, il comune diSaluzzo e altri locali, Pietro, membro dell’am-ministrazione comunale, Enrico, che nel 1291,è ricordato come rettore di Sant’Eusebio aSaluzzo e alcuni giudici marchionali. Staffardadiventa quindi un centro di potere, “nodo di unarticolatissimo sistema di relazioni” e, nel con-tempo, opportunità per la redistribuzione dellerisorse (Provero 1999). In questo senso l’esen-zione delle proprie terre dalla sottomissione alpotere signorile pone l’abbazia al di fuori deimeccanismi di sfruttamento della popolazionecontadina. In realtà nel corso del XIII secolol’abbazia di Staffarda risulta riscuotere dirittodi decime su terre non di sua proprietà, e inalcuni casi gli è attribuito il dominium, intesocome forma di liberazione di terre dal dominioaltrui, ma anche come controllo e esercizio dipotere non ben definito.Questo assetto giurisdizionale sembra esserecontrario a quanto dettato dagli statuti cister-censi, ma è ormai assodato un certo compro-messo tra le indicazioni rigide della Regola disan Benedetto e la gestione quotidiana delpatrimonio terriero e delle connessioni socia-
li. In molti casi sono state verificate forme dicontrollo sugli uomini e sul patrimonio daparte delle abbazie cistercensi sia in ambito ita-liano sia europeo, che rientrano nella costru-zione di quelle relazioni volte alla definizionedi un sistema economico e di relazioni incen-trato sulla presenza dell’abbazia, che costitui-sce, tramite la donazione terriera, la principale“forma di solidarietà orizzontale della societàrurale” (Provero 1999, p. 99; Rosenwein 1989).Attraverso la terra elargita si stringeva un rap-porto di solidarietà con la comunità monastica,che ridistribuiva le proprie risorse in moltimodi: con la concessione della terra in affitto,con l’assunzione dei vicini come salariati pergrandi opere e con la normale gestione del-l’azienda monastica (Platt 1969). Inoltre non è da sottovalutare la componentespirituale e religiosa: per garantirsi un’efficacemediazione divina, i marchesi e i signori inter-vengono nella fondazione e della dotazionedelle abbazie, mentre i contadini si comporta-no in maniera analoga con piccole donazioniverso i monaci, che venivano incluse nellesolidarietà di vicinato.
Piano regolare dei beni componenti i tenimenti di Staf-farda con cascine, 1869, geometra Antonio Bocca,Archivio Storico Ordine Mauriziano
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per una situazione di forte sperimentalità,venutasi a creare a Staffarda, nella quale “amolti monaci fu dato spazio per svolgere inca-richi di responsabilità”, nel quadro istituziona-lizzato della gerarchia cistercense. Questo de-terminò anche diversi casi di carriere discen-
denti, nelle quali monaci che avevano ricoper-to la carica di abati si ritrovano senza incarichi,come il caso del monaco Mantovano, che com-pare come semplice monaco nel 1248, mentrel’anno prima ricopriva la carica di abate(Cartario di Staffarda, II, p. 13, doc. 379, 1247).
La struttura gerarchica delle comunità cister-censi è stata ampiamente studiata, ma nell’ab-bazia di Staffarda sembrano ritrovarsi alcunepeculiarità. L’abate, secondo quanto stabilito dalla Regoladi san Benedetto, nominava tutte le cariche sot-toposte, ed era eletto a vita dai monaci (i con-versi non avevano diritto di scelta). La quanti-tà delle cariche non era prestabilita, ma dipen-deva strettamente dalle esigenze della singolacomunità e, tendenzialmente, aumentava con ilcrescere del patrimonio e del numero degli a-derenti alla vita comunitaria (Quartiroli 2002).Questo comportava che spesso sia le carichepiù importanti dal punto di vista gestionale(cellerario, tesoriere, sottopriore, grangere), siaquelle che rivestivano un ruolo strettamenteliturgico, potevano essere istituite anche dopomolti anni dalla fondazione. Sembra ormai certo che ogni comunità avesseuna certa libertà nell’organizzare il funziona-mento del proprio monastero, che non esistesse,quindi, un modello applicabile in ogni caso, mache in ogni abbazia fossero significative le va-rianti introdotte al modello, per rendere miglio-re e più efficiente il funzionamento e la gestione. Nel caso di Staffarda è interessante sottolinea-re l’anomalia nella frequenza della variazionedella carica dell’abate. Fino all’inizio del XIVsecolo si susseguono molti monaci al titolo diabate, probabilmente perché eletti già in etàmatura, ma anche, secondo Rapetti (1999a),
I monaci: vita quotidiana e ruoli
La figura di GGIIAACCOOMMOO DDEELLLLAA RROOSSSSAA, mona-co, cellerario e priore, è un caso significati-vo rispetto alla gestione della comunitàcistercense di Staffarda. Nei primi anni delDuecento egli partecipò pur come sempli-ce monaco, in rappresentanza dell’abate(in nomine abati) alla stipula di atti di ven-dita, a testimonianza del prestigio rivestitopresso la comunità che gli affidava incarichiistituzionali (Cartario di Staffarda, I, doc.125, 1214; I, doc. 128, 1214). Dal 1236 al1239, e poi dal 1241 al 1246 risulta esseresottocelleraio, mentre a partire dal 1250diviene sottopriore, e poi cellerario fino al1255. Per i sette anni successivi, Giacomodella Rossa fu priore della comunità diStaffarda, e dall’inizio degli anni Settantafino al 1275, divenne abate, ricoprendoquindi la massima carica istituzionale. Lafamiglia di Giacomo era attestata nellemagistrature comunali saluzzesi e diversimembri scelsero la vita monastica ed entra-rono nella comunità di Staffarda. Per que-sto, evidentemente il monaco Giacomoviene individuato come rappresentate illu-stre e attento conoscitore delle realtà saluz-zesi, dove si concentravano i possedimentipiù importanti dell’abbazia, legati alle fami-glie nobili e alle donazioni patrimoniali deimarchesi di Saluzzo (Rapetti 1999).
Consegna di un’indulgenza papale ai monaci cistercen-si, pittore saluzzese attivo verso il 1520 (BartolomeoDebanis?), anta mobile lignea, Abbazia di Staffarda
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La figura dell’abate era il vero fulcro della co-munità monastica; ricoprire questa carica volevadire accentrare grandi responsabilità religiose espirituali, ma anche patrimoniali. Una comunitàcistercense si fondava solo con la presenza didodici monaci e di un abate, a conferma dellaposizione primaria rivestita da questa carica. Ilruolo dell’abate era strategico per la vita deicenobi e la scelta del candidato non era sem-plice. L’abate nominava le altre cariche ma,oltre alle funzioni religiose e spirituali, si dove-va occupare della gestione amministrativa che,solo successivamente, venne demandata ad al-tri. I gestori della politica di crescita della co-munità godevano di una significativa autono-mia, rispetto ai propri confratelli, ma anchenei confronti del Capitolo generale, organo digoverno dell’ordine (Picasso 1981).
I primi abati di Staffarda provenivano, princi-palmente, dal territorio circostante; divienepreminente “il quasi assoluto predominiodella carica abbaziale nell’ambito amministra-tivo e nei rapporti con i più importanti nucleidi potere locale”, cioè i marchesi e le ammini-strazioni comunali (Provero 1994). Il maggiorimpegno degli abati di Staffarda sembra con-centrarsi nel primo secolo di vita dell’abbazia;infatti, nel corso del XIII secolo le cariche isti-tuzionali all’interno della comunità sembranomoltiplicarsi, mentre si lasciano all’abate lemansioni di rappresentanza dell’ente nei rap-porti con le istituzioni e con i donatori. A par-tire dalla seconda metà del XII secolo sononumerose le attestazioni di priori e sottopriori,che svolgevano mansioni di supplenza dell’aba-te, quando questi era assente o malato. Spesso,
infatti, l’abate era chiamato a presenziare riu-nioni del Capitolo o qualche vertenza di parti-colare importanza, lasciando sempre maggiorespazio decisionale al priore. La nomina didiversi aiutanti alle cariche principali, di prioree di cellerario, indica una crescita significativadella comunità, che a Staffarda si stabilizza in-torno alla prima metà del XIII secolo, quandola comunità monastica doveva aver raggiunto ilnumero di 35-40 unità, come testimoniato daalcuni documenti (Cartario di Staffarda, II, pp.109-110, doc. 500, 1267). Una figura di primaria importanza nel mondocistercense era quella del cellerario, che rive-stiva un ruolo principale nell’organizzazionepatrimoniale dell’abbazia, ma anche nella vitaquotidiana dei confratelli. Sia la Regola di sanBenedetto sia le normative dell’ordine dedicano
Come in tutti i monasteri cistercensi anche a Staffarda era presente una biblioteca. GliStatuta del 1134 stabiliscono i libri che devono essere presenti in ogni abbazia tra i quali sitrovano i messali, il libro della Regola di san Benedetto, il salterio e l’antifonario. Molti altritesti facevano comunque parte del corredo di ogni cenobio come la Bibbia, la ChartaCaritatis, il Calendario, e gli Annales che dovevano essere compilati da ogni comunità. Labiblioteca di Staffarda, incrementata nel corso del primo secolo di vita dell’abbazia, risultavaessere cospicua nell’ultimo quarto del XII secolo, quando fu redatto un inventario sul primofoglio di una Bibbia, in più volumi provenienti dal cenobio saluzzese. L’inventario Libri SancteMarie Stapharda documenta la presenza di 59 codici, ad esclusione di quelli liturgici, com-prendenti l’Antico e il Nuovo Testamento, commenti biblici, scritti dei Padri, di san Bernardoe di alcuni autori greci in lingua latina. Molti dei volumi dell’antica raccolta cistercense sonoconfluiti, nel corso del XVII secolo, nelle collezioni sabaude del duca Carlo Emanuele I, e diqui trasferite, successivamente, in quelle della Biblioteca Universitaria di Torino dove si con-servano attualmente. Dei circa settanta codici, tutti o quasi con ex libris dell’abbazia, cheentrano a far parte nel patrimonio librario sabaudo, una trentina provenivano dal nucleo piùantico dei codici di Staffarda, ricordati nell’inventario. Tra questi alcuni precedono la data difondazione dell’abbazia, quindi arrivano dai monaci fondatori e da altri paesi europei, comeFrancia e Inghilterra, e un ultimo gruppo è stato realizzato nello scriptorium del monastero. Itesti prodotti a Staffarda vengono redatti con una calligrafia, definita franco-piemontese,esito dell’unione tra la scrittura italiana e quella francese. La decorazione delle pagine minia-te riprende il repertorio cistercense con una maggiore semplificazione. Le lettere iniziali sonoarricchite di intrecci vegetali, nastri piegati intorno alle aste, dai colori limitati ai rossi, ai gial-li e ai blu (Segre Montel 1999). Tra i libri provenienti da Staffarda si conserva anche un codice musicale appartenuto all’aba-te commendatario Bersano Tapparelli di Savigliano, insignito del titolo nella metà del XVIsecolo. Il codice musicale uno dei più antichi in Piemonte, è composto da 99 carte, ascrivibi-li ad un periodo compreso tra l’inizio del Quattrocento e del Cinquecento; le composizioni,tutte a 3 o 4 voci, sono 49, divise tra 8 messe, 11 magnificat, 14 mottetti di varia natura (inni,antifone, Salve Regina ecc.), 2 benedictus, 12 chansons, 1 canone enigmatico e 1 brano stru-mentale (Basso 1999, Santarelli 1999). Torino Biblioteca Nazionale, ms. D.IV.34, Epistolae
Pauli (1170c), f. 140v (da Segre Montel 1999)
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molto spazio a delineare le caratteristiche chedoveva avere il monaco cellerario (Quartiroli2002); doveva attendere alla preparazione ealla somministrazione del vitto ai confratelli eagli ospiti, alla pulizia della chiesa e del chio-stro, alla preparazione dell’acqua calda nelleoccasioni liturgiche indicate. Inoltre il mona-co cellerario poteva, all’occorrenza, rompereil silenzio monastico per parlare con i conver-si in caso di necessità, visto che controllaval’andamento delle produzioni agricole dellegrange. Tra i suoi compiti vi era anche quellodi seguire i conversi nella loro formazione,introducendoli al Capitolo per la domanda diingresso e, dopo un anno, per la loro profes-sione.La Regola individua le caratteristiche che ilcellerario doveva possedere, per altro moltosimili a quelle dell’abate: “Si scelga un fratellosaggio, maturo, sobrio, che non ecceda nelmangiare e non abbia un carattere superbo,turbolento, facile alle male parole, indolente eprodigo […], si prenda cura di tutto e di tutti,tratti gli oggetti e i beni del monastero con lareverenza dovuta ai vasi sacri dell’altare […],non si lasci prendere dall’avarizia né si abban-doni alla prodigalità, ma agisca sempre concriterio e secondo le direttive dell’abate […],distribuisca ai fratelli la porzione di vitto pre-stabilita senza alterigia o ritardi […], in modo
che nella casa di Dio non ci sia alcun motivo diturbamento o di malcontento” (Quartiroli,cap. XXXI, 2002; Vagni 2005). Il cellerarioaveva la completa organizzazione della cucina edoveva seguirne anche la manutenzione degliambienti, oltre a garantire la distribuzione deipasti a tutta la comunità, servitori e malatiinclusi, e agli eventuali ospiti, quali i viaggia-tori, ma anche alle maestranze come muratorie calzolai presenti per specifiche mansioni nelcenobio. Consegnava agli addetti alla cucina irecipienti e gli utensili da cucina, ogni setti-mana, dopo averli contati e controllati, edistribuiva i compiti ai monaci il mattino pre-sto presso l’auditorio dei conversi, ambientepreposto al colloquio, dove era possibile par-lare (Choisselet, Vernet 1989).Non sono così precise, invece, le indicazioni sul-le mansioni amministrative, sulle quali l’ordinesi esprime solo per risolvere controversie o situa-zioni problematiche, in quanto esulano dal dirit-to religioso e dalla prassi liturgica. Di fronte aquesta assenza in materia amministrativa, lacapacità operativa e gestionale del cellerariodoveva essere fondamentale, oltre all’ampiezzadi conoscenze personali e alla rete di relazionisociali alle quali il monaco preposto poteva fareriferimento nello svolgimento del suo incarico. A Staffarda la prima menzione di un cellerariorisale agli anni settanta del XII secolo, in ana-
logia con quanto attestato nelle altre abbaziedi area lombarda: a Lucedio nel 1192, a Chia-ravalle della Colomba nel 1172, a Morimondonel 1194, mentre a Chiaravalle Milanese lacitazione è anteriore, risale al 1147 (Occhi-pinti 1983, Rapetti 1999c, Rapetti 1996,Dubois 1968, Bouchard 1991, Chiappa Mauri1992).La carica di sottocellerario è documentata aStaffarda intorno al 1230; nel 1236 è ricorda-to Giacomo della Rossa di Saluzzo, che diven-terà anche abate della comunità saluzzese, magià nel 1234 Enrico di Torino è ricordatocome celerarius maior, ad indicare lo sdoppia-mento della carica. Negli stessi anni a Staf-farda è presente anche un tesoriere, Bernardode Papia, che collaborava direttamente con ilcellerario, dal quale dipendeva (Cartario diStaffarda, I, p. 241, doc. 260, 1238). I compitidel tesoriere richiedevano completa fiduciapoiché conservava la cassa del monastero emaneggiava il denaro per le necessità quoti-diane della comunità.
Torino Biblioteca Nazionale, ms. D.IV.34, Epistolae Pauli(1170c), f. 174v (da Segre Montel 1999)
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Tippografia del membro dei Beni ed Cassinespettanti alla Commenda di S. Maria di Staf-farda detto la Fornacha […], metà del XVIIIsecolo, Michele Richiardi, Archivio StoricoOrdine Mauriziano, STA.1
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Il paesaggio medievale: boschi, canali e grange
si aggiungono gli incolti la cui superficie, vistala minor importanza, non viene quantificata.Nelle prime due donazioni sono presenti an-che concessioni ai monaci sui diritti di pasco-lo sulle Alpi e sulle terre marchionali fino allariviera ligure (Cartario di Staffarda, I, pp. 13-15, docc. 2-3, 1138). Questo elemento risultaparticolarmente significativo perché permettedi comprendere il ruolo svolto dall’attività diallevamento all’interno della gestione econo-mica del monastero. L’organizzazione dei monaci prevedeva anchel’affitto di alpeggi e di prati che confermano lavocazione per l’allevamento. Lo sfruttamentodei pascoli montani garantiva il cibo per glianimali in estate, mentre lo sfalcio dei prati dipianura preparava il foraggio per l’inverno. Inquesta ottica va interpretata l’aggregazionedelle proprietà terriere intorno alle grange(Chiappa Mauri 1985, 1990). La scelta dei mo-naci orientata verso l’allevamento e il com-mercio del bestiame emerge, anche per Staf-farda, dalla lettura dei documenti, nel solcodelle analoghe soluzioni intraprese dalle prin-cipali comunità monastiche piemontesi (Com-ba 1996). Le bolle papali di Celestino II e diEugenio III (1144, 1146) confermano questeipotesi in quanto esentavano i monaci dalpagare il fodro regale, gli oneri signorili e ladecima sacramentale per le terre lavoratedirettamente e per gli animali. L’allevamentoera per lo più di ovini come testimonia il furtodi alcune pecore di proprietà della grangia diPomerolo nel 1228 (Panero 1999). Per tutto il XII secolo la formazione delle gran-ge è funzionale all’aggregazione del patrimoniofondiario, come grangia in fieri, stazione pasto-
rale facilmente realizzabile e punto di partenzaper ulteriori investimenti fondiari. A questa sicontrappone, tra la fine del XII e l’inizio delXIII secolo, il sistema della grangia “compiu-ta”, intesa come azienda agricola destinata allacerealicoltura e alla praticoltura, con struttureinsediative maggiormente definite.Tra il 1140 e il 1148 i monaci di Staffarda rice-vevano altre donazioni da Manfredo I di Sa-luzzo, fra le quali alcune terre a Torriana, nelterritorio di Envie.La politica di acquisto e di affitto di terrenidefinita dai monaci negli anni cinquanta delXII secolo portò alla costituzione del patrimo-nio delle principali grange cistercensi presentinel Saluzzese. Tra queste, quella di Lagnascopossedeva un ingente territorio di circa 90ettari tra seminativo e prato, ai quali si aggiun-gevano i precedenti arativi, destinati a un’atti-vità articolata tra la cerealicoltura e l’alleva-mento. A partire dal 1159 si registra una serie cospi-cua di nuovi acquisti di terre, prati e pascoli traCrissolo, Pomerolo, Solere, Lagnasco, Scar-nafigi, Envie, Torriana, Morra, Gerbola di Sa-luzzo, Revello, Saluzzo, Racconigi, Villafalletto,Brondello, Moncalieri, Stupinigi, Torino eCardè.Le iniziative assunte dall’abate Gugliemo IIricevettero una conferma dall’imperatore Fe-derico Barbarossa nel 1159: tra i beni ottenu-ti risultavano anche le proprietà mobili, qualile greggi, i prodotti dell’agricoltura e dell’alle-vamento, oltre ai beni immobili quali le gran-ge, le vigne e la sede monastica. Le successive acquisizioni di terre nel corsodel XII secolo consentirono all’abbazia di ac-
La costituzione del patrimonio fondiario del-l’abbazia di Staffarda appare come la prioritànei primi decenni di vita del cenobio. La ric-chezza delle testimonianze permette una pre-cisa ricostruzione della formazione del cospi-cuo latifondo originato dalla donazione deifigli di Bonifacio del Vasto nel 1138. Le suc-cessive acquisizioni, ricostruite sulla basedelle fonti a disposizione, incrementano inmaniera significativa i primi lasciti terrieri.Nel periodo di massima espansione, tra la finedel XII e l’inizio del XIII secolo, l’abbazia diStaffarda era caratterizzata da un patrimoniodi più di mille ettari distribuiti tra le comuni-tà limitrofe di Revello, Envie, Barge, Saluzzo,Cervignasco, Cardè, Falicetto, Villafalletto,Centallo, Venasca e Crissolo in alta Valle Po equelle più distanti di Casalgrasso, Moncalierie Stupinigi (Panero 1999).Lo sfruttamento diretto della terra, punto car-dine della regola cistercense, prevedeva chemonaci, conversi e lavoratori salariati curasse-ro direttamente la gestione agricola di queiveri e propri capisaldi dell’abitare, lavorare eraccogliere le provviste che erano le grange,strutture amministrative e architettonicheautonome. La loro costituzione è una tappa fondamenta-le nel processo di trasformazione dei territorirurali, contribuendo all’estensione dell’abita-to disperso in forma stabile e concorrendoallo sfruttamento di terre incolte o marginalirispetto all’economia del periodo (Palmucci1999).Il nucleo più antico del patrimonio dell’abba-zia è costituito dalle 120 giornate di arativo aLagnasco e dalle terre della Morra, alle quali
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crescere e costruire in maniera graduale dellevere e proprie aziende agricole, con struttureinsediative più riconoscibili. A partire dal1156 Lagnasco è testimoniata come domus e,nel 1173 come grangia (Cartario di Staffarda, I,p. 26, doc. 15; I, p. 60 e sgg., docc. 48-50), Po-merolo come domus nel 1175 e come grangianel 1182 (Cartario di Staffarda, I, p. 22, doc.11; I, p. 65, doc. 55), Gambasca (1185), Car-penetta (1185) e Torriana (1198) come grange. La Morra sembra entrare a pieno regime solonei primi anni del XIII secolo; infatti, a fron-te di numerose donazioni di terreni fra glianni sessanta e settanta del XII secolo, solonel 1209 è attestata come grangia (Cartario diStaffarda, I, p. 116, doc. 115).Nel corso del XIII secolo a seguito della poli-tica di recupero delle terre incolte si costitui-
rono le grange di Stupinigi (1201), la mansiodel Drosso (1203 e poi grangia nel 1248), lagrangia Fornaca (1242) nel territorio diScarnafigi, aggregando parte dei possedimen-ti di Lagnasco, e la grangia di Aimondino(mansio alla fine del XII secolo e grangia nel1244) su terre dissodate e nel bosco diStaffarda (Panero 1999, Comba 1985).Le strutture insediative delle grange vengonoricordate come domus o tectum e mansio,mentre i nuclei di terre accorpati a conduzio-ne diretta costituiscono le braidae che, aggre-gate ai prati e alle terre ubicati in prossimità diun stessa domus, definiscono la grangia. Ilcambiamento di terminologia impiegata indi-ca la piena maturazione dell’azienda agricolaappoderata, saldamente strutturata e orienta-ta verso la conduzione diretta, tra la seconda
metà del secolo XII e la prima metà del XIII.Spesso la politica di acquisto di terreni peruna grangia prosegue fino a quando non sipreferisce impiantare una nuova entità vicinamantenendone la totale indipendenza piutto-sto che unire possedimenti ad una strutturapreesistente. L’attività di bonifica dei territori ottenuti daimonaci procede con un attento sfruttamentodelle acque necessarie per irrigare i prati e icoltivi, ma anche con una regimentazione perprevenire le frequenti inondazioni. La neces-sità di dissodare terreni incolti era già in usoda tempo da parte di singoli contadini, mauna significativa opera di valorizzazione agri-cola dei terreni deve attribuirsi alle strutturemonastiche (Comba 1983). Va riconosciuto aimonaci che, pur avvalendosi di manodoperaesterna, hanno manifestato una grande capa-cità di convogliare e razionalizzare gli inter-venti di bonifica, in un «quadro di progressi-vo consolidamento del patrimonio terriero»(Gattullo 1999). L’attività di « idraulica monastica» condottadai monaci di Staffarda si inserisce in unamorfologia territoriale fortemente caratteriz-zata dalla presenza di numerosi corsi d’acquadi varia dimensione e natura. La donazionedel 1170 all’abbazia da parte del marchese diSaluzzo di una «magnia pecia terra» (Cartariodi Staffarda, I, p. 54, doc. 42) testimonia comeil territorio di impianto del complesso mona-stico fosse in origine paludoso e boscoso e isuoi confini delimitati da tre corsi d’acqua chespesso allagavano il terreno, e da un canale(vetus beale). La necessità di operare sistema-zioni idrauliche atte a limitare i danni delleesondazioni è evidente. La bonifica attraversola costruzione di sistemi di canalizzazione per-metteva una migliore regolazione delle acque.Alcuni canali erano stati già definiti in prece-denza come il vetus bedale, ma la costituzionedi un patrimonio fondiario così esteso richie-deva interventi maggiormente mirati rispettoall’impianto di un singolo canale.
La Grangia, 1739, Chiaffredo Scaramuccia agrimen-sore, Archivio Storico Ordine Mauriziano, STA. 9
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Un’attestazione del lavoro idraulico compiutodai monaci è relativo alla bealera detta dellaVentresina, tracciata tra l’ottobre del 1251 el’aprile del 1252, tra i territori di Envie eRevello, e ancora oggi presente, insieme aquella di Saccobonello. La bealera fu oggettocontinuo di liti: tra i monaci e i proprietari deiterreni da acquistare per la sua realizzazione,nei secoli seguenti con la comunità di Revelloper i diritti sul canale, nonché con i singoliproprietari accusati di deviare il corso delleacque. La bealera del mulino, citata nell’attodi donazione del 1170, risulta individuabilead est dell’abbazia (Gattullo 1999).La regimentazione delle acque per rendere ilterreno coltivabile ha caratterizzato le proprie-tà più vicine al centro monastico, mentre nellealtre zone i monaci necessitavano di opere diadduzione delle acque. Nel 1176 sono registra-ti acquisti di terreni nei pressi della grangiadella Morra, per poter realizzare una bealeraderivante dal Po, a monte del guado «deCranico» (Cartario di Staffarda, I, p. 70, doc.61; I, p. 52, doc. 58). La necessità di irrigare icampi portò anche all’acquisto di opere dicanalizzazione già funzionanti, come nel casodi una proprietà nei pressi della Morra, e diun’altra nel territorio di Scarnafigi, dove esiste-va il canale di San Giovanni.
L’importanza rivestita dal bosco nell’econo-mia della pianura e collina saluzzese nel XIIsecolo è documentata da testi relativi a liti trapersone e comunità confinanti. Alcuni scrittiforniscono una dettagliata descrizione di co-me era caratterizzato il paesaggio medievalepiemontese in un’area pedemontana, e di qua-le sia stata la portata del cambiamento opera-ta dai monaci cistercensi nei territori dei loroinsediamenti.La storia del bosco di Aimondino nei pressi diMoretta, lungo il corso del Po, è la testimonian-za della rilevante frattura creata nell’economia enella vita della popolazione a seguito dell’arrivodei monaci, conseguente alla trasformazione
del bosco in superficie coltivata. All’inizio delXIII secolo il possesso del bosco è conteso trai signori di Moretta e i monaci di Staffarda chehanno ricevuto la proprietà dai marchesi diBusca. Di fronte agli arbitri chiamati a dirime-re la questione – Giacomo vescovo di Torino,e Uberto, giudice di Testona – sfilano unaquarantina di testimoni che raccontano laprassi e le consuetudini di utilizzo del bosco(Grillo 1999, Comba 1985). La selva di Aimondino costituiva una risorsadi primaria importanza per gli abitanti del-l’area, fornendo frutta, erba, legname e carne.L’uso del bosco era vincolato da precise leggie soggetto al consenso dei marchesi di Busca,che trattenevano una parte delle prede caccia-te (capo, spalle, zampe dei maiali selvatici e ilquarto dei caprioli e dei cervi) e mandavano
guardie a controllare e verificare che il tuttovenisse eseguito in maniera corretta. L’usodella legna era strettamente regolamentato;solo i sudditi marchionali, o chi pagava l’affit-to poteva prelevare legna, pena la confiscadegli attrezzi e degli animali da tiro.La caccia costituiva un’attività primaria peruna parte della popolazione che si dedicavacon assiduità a tale pratica. Cinghiali e maialiselvatici erano le prede maggiormente caccia-te, ma anche i cervi e altri ungulati presentinel bosco. I contadini si dedicavano saltuaria-mente alla caccia, in modo assai più sporadicorispetto ai nobili, con la partecipazione a bat-tute di gruppo. Il taglio del legname era un’altra fonte prima-ria di reddito e di sussistenza fornita dal bo-sco. Erano frequenti le verifiche da parte dei
La cascina Fornaca alla metà del XVIII secolo, Archi-vio Storico Ordine Mauriziano, STA. 1
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funzionari marchionali e numerosi i sequestriper persone non autorizzate provenienti dallecomunità vicine, che prelevavano legna daiboschi. Le rigide regole imposte sfociavano inepisodi di vera competizione tra gli abitanti dilocalità confinanti per l’uso degli incolti.Spesso le tensioni sfociavano in atti violenticome quando il forestarius del marcheseBerengario di Busca arrestò un abitante diVillafranca e lo condusse via; appena saputodell’arresto, alcuni vicini si mossero in suoaiuto minacciando di uccidere il messo deldominus. L’organizzazione di spedizioni dipiù uomini per far legna nei boschi facilitavail lavoro e garantiva una maggiore possibilitàdi fuga in caso di scoperta da parte dei guar-diani (Grillo 1999). Il paesaggio rurale delle selve di Aimondinocambiò radicalmente con la presenza deicistercensi e con la realizzazione della grangia.L’acquisizione della foresta da parte deimonaci è databile intorno al 1180 e la costitu-zione della grangia dovrebbe essere immedia-tamente successiva; lo scambio della proprietàavvenne all’incrocio di Lagnasco, tra l’abateAnselmo di Revello, con i monaci e il marche-se Berengario di Busca a cavallo con i suoi
vassalli. La creazione della grangia di Aimon-dino «non fu, come in altri casi, destinata adorganizzare un nucleo di terre già gradual-mente passate nelle mani del monastero, mafu sostanzialmente contestuale all’acquisto delbene e destinata a guidarne la riduzione a col-tura» (Grillo 1999).L’opera di disboscamento inaugurata imme-diatamente dai monaci e dai conversi avevabisogno di un’ingente manodopera che il mo-nastero non riusciva a coprire. Diversi abitan-ti di Soave, Moretta e di altri villaggi oltre lariva del Po e oltre il Tanaro furono impiegaticome aroncatores nel disboscamento dell’area.Il contratto pluriennale prevedeva l’affido diun pezzo di selva, da una a tre giornate dalavorare e rendere coltivabile (ASTo, Solaro diMoretta, m. 109bis, 17 agosto 1209, in Merati2007, pp. 47-87). In cambio del lavoro doveva-no corrispondere solo la decima, godendo deifrutti della terra fino al momento di lasciarla aimonaci.I dissidi con le comunità locali e i signoricaratterizzarono l’impianto della grangia, eanche i monaci dovettero assumere dei guar-diani per difendere le superfici erborate dalleintrusioni degli abitanti dei villaggi vicini, che
entravano per portare al pascolo gli animali oasportare fascine e legname.
Dalle citazioni documentarie è possibile ipo-tizzare la consistenza materiale dei complessirurali dipendenti dall’abbazia di Staffarda.Oltre al tectum, struttura abitativa precaria,già ricordata per Pomerolo, le fonti della finedel XIII secolo rivelano a Lagnasco, Pome-rolo e Morra la costituzione di edifici in formastabile, segnalando specifiche parti come ilporticum a Lagnasco e a Pomerolo, un porti-cum e una coquina a Morra (1291), un ostalume una cusina a Lagnasco (1247, 1260), domus,viridario e granerium (Palmucci 1999, Comba1983, Rapetti, Rolfo 1994). La struttura dellegrange di pianura non sembra prevedere inuna prima fase una cinta muraria; così comeinterpretato da Palmucci (1999, p. 288), il ter-mine “moenia” per la grangia di La-gnasco,sembra piuttosto riferibile ad una parte specifi-ca del complesso, che verrà circondato da unrecinto murario solo a partire dagli anni trentadel Settecento. Diversa sembra essere la solu-zione adottata nella grangia di Torriana neipressi di Envie, costruita sulle pendici delMontebracco, che conserva ancora tracce
Tipo dei beni della cascina di Pommarolo tenuta dalsignor Conte Alessandro Gerolamo Saluzzo di Monte-rosso, Chiaffredo Scaramuccia agrimensore, ArchivioStorico Ordine Mauriziano, STA. 10
Cabreo della grangia di Lagnasco, Chiaffredo Scaramuccia agrimensore, 27 giugno 1739, Archivio StoricoOrdine Mauriziano, STA. 9
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materiali consistenti ascrivibili ad una fasemedievale: frammenti della cinta muraria e unportale di accesso in laterizio e pietra. Delresto la struttura risulta differente rispetto aquelle di pianura, sia per tipologia, sia permateriali impiegati. I pochi fabbricati presen-ti nel 1716 (una stanza con un focolare e unpavimento a lose, e una stalla “senza voltinicon li soli travi”, un caso da terra, tettoia privadi pavimento, coperto a lose), risultano co-struiti in pietra con “creta e calcina inbocata”(ASOM, Staffarda, m. 11, fasc. 296bis, 9 genna-io 1716).Le grange dipendenti da Staffarda dovevanoessere, in origine, composte dalla casa delmassaro e da una tettoia per gli attrezzi.Questo tipo edilizio costituisce lo schema piùcomune nei complessi rurali della pianura pie-montese. La casa da massaro generalmente èstrutturata da un blocco in linea di due piani,dove si dispongono gli ambienti principaliquali l’abitazione, la stalla-fienile e la tettoia.Leggermente separati dal nucleo centrale, ilpozzo e il forno completavano il complesso. Iltermine cassina, spesso riscontrato nei docu-menti, identifica non solo l’abitazione e gliannessi rurali ma, come indicato da Comba(1980, 1988), anche l’insieme dei possedimen-ti terrieri, definiti dal seminativo, dal prato edal bosco.I successivi ampliamenti, legati al variare dellaproduzione agricola e dell’allevamento, deter-minano nuovi corpi di fabbrica che vengonoaggiunti in linea e disposti in successione, adefinire corti aperte che verranno progressi-vamente chiuse tra la fine del XVII e l’iniziodel XVIII secolo. Le diverse porzioni dei fab-bricati tendono a chiudere progressivamentelo spazio aperto, l’ajra, fino a determinare inetà moderna il profilo di una corte chiusa.All’inizio del XIV secolo era ancora prevalen-te la conduzione diretta delle grange attraver-so l’opera di conversi e familiari come confer-mano numerosi atti riferiti alla vita economicadell’abbazia. Nel contempo si definisce unsignificativo cambiamento gestionale legatoalla decisione di dare in locazione alcunegrange, come quella di Carpenetta, data a Per-civalle da Pavia, e quella del Drosso, aCorrado di Gorzano nel 1334. Nel 1349 fu Cascina Milona, Michele Richiardi misuratore, metà XVIII secolo, Archivio Storico Ordine Mauriziano, STA. 1
Progetto di Tommaso Prunotto per una nuova casa da massaro alla cascina Fornaca, febbraio 1764, Archiviodi Stato di Torino, Archivio Chiablese, Atti non soggetti ad insinuazione, 1764-68
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concessa in locazione anche la grangia di Mor-ra (Comba 1983).Le prime crisi della produzione agricola e dimortalità della metà del XIV secolo contribui-rono alla diffusione del metodo di gestioneindiretta per i possedimenti di Staffarda.Con l’inizio della commenda, nel Quattro-cento, le grange vengono concesse in locazio-ne e in affitto; i contratti risultano conclusiall’inizio del XVI secolo, a seguito della nomi-na a commendario dell’abate Giovanni Lu-dovico di Saluzzo. Le grange di Fornaca, La-gnasco, Pomerolo, San Marco e Torrianafurono affittate a partire dal 1511, con con-tratti di sette anni che prevedevano, a caricodel concessionario, migliorie di carattere agra-rio, come l’obbligo di piantare viti e salici, edove necessario la realizzazione di nuovi cana-li d’irrigazione o il mantenimento di quelli esi-stenti (ASTo, Protocollo Stanga, ff. 102v, 104r,
108v, 171r, 101r). Per quanto attiene agli edi-fici, i contratti specificano che qualsiasi inter-vento è subordinato ad un permesso scrittorilasciato dal commendatario che avrebberimborsato i costi detraendoli dall’affitto. L’accordo sottoscritto con i fratelli Pistoni perla grangia di San Marco prevedeva di piantaree coltivare 400 salici ogni anno e di provvede-re a riparare i tetti degli edifici e i danni arre-cati dalle inondazioni del Po, con la possibili-tà di una spesa massima di 25 fiorini l’anno(ASTo, Protocollo Stanga f. 110r; Mangione1999).Alla metà del Quattrocento, quando la con-duzione passa dal controllo diretto alla gestio-ne pluralistica, le grange dell’abbazia diStaffarda sembrano ascriversi, così comedocumentato ancora nel XVII secolo, princi-palmente a due tipi: quello più semplice dellecascine di Pista, Roncaglia, Paolero, Melasso,e Robiolo, definite da una casa da massarocon abitazione, crotta, stalla, portico, e piùisolati pozzo e forno, e un modello più artico-lato che caratterizza le cascine maggiori, qualila Grangia, probabilmente intesa come gran-gia maior posta nel complesso dell’abbazia, laFornaca e San Marco, con la definizione dimaniche di edifici disposti a corte parzialmen-te chiusa e la moltiplicazione degli spazi abita-tivi e di servizio. Nel 1679 la cascina SanMarco risulta costituita da tre case da massa-ro, un porcile e una cappella, i complessi dellaCassinasse e della Fornaca da quattro case damassaro, a cui si aggiunge, per l’ultima, ancheun palazzo, una cappella, la casa del prete e lafucina (ASOM, Staffarda, m. 6, fasc. 173, 8-16luglio 1679, Giovanni Battista Guglino). L’iconografia storica e le descrizioni del XVIIsecolo (ASOM, Staffarda, m. 6, fasc. 173,Abbozzo dei tipi delle cascine, 1679, 8-16 lu-glio 1679, Giovanni Battista Guglino) mo-strano la consistenza delle strutture dellegrange antecedente alla significativa trasfor-mazione attuata nel corso del Settecento. Uninventario degli immobili, redatto alla mortedell’abate commendatario Francesco Martinodi Agliè, elenca 34 cascine, di cui 7 nel recin-to di Staffarda, 10 alla Grangia di Lagnasco, 7alla Fornaca, 3 dette le Cascinasse, 2 a SanMarco, 1 a Envie, 2 al Murtizzo, la cascinetta
e la Vigna di Saluzzo, mentre la grangia diPomerolo risulta già alienata ai Della Chiesa(19 aprile 1678, Savio 1932, pp. 135-136).La Grangia, che fin dalle sue origini sembraessere una delle maggiori, si articolava in unaserie di fabbricati disposti intorno ad unadoppia corte aperta, che accoglieva nella posi-zione centrale il palazzo suddiviso al pianoterra nella casa del prete, nella scuderia, neltinaggio e nella crotta dell’Abate. Una scalainterna in muratura conduceva all’alloggiopadronale superiore provvisto di un granaio,mentre ad una certa distanza si trovavano lacappella, il forno e la bottega del ferraro. Nel 1668 la costruzione di una nuova cascina,in regione Prato Piovano a Scarnafigi, dettaBaiotta, documenta la consistenza materiale ela tipologia edilizia degli edifici rurali in que-sto periodo (ASOM, Staffarda, m. 5, fasc. 147,27 agosto 1668; m. 11, fasc. 296 bis, 1716). Ilcorpo di fabbrica principale, ripartito su trepiani, era articolato in diversi spazi, con oriz-zontamenti lignei per gli ambienti superiori evolte in muratura per le cantine, con pavimen-ti in sternito di pietra e di mattoni. Le scale dicollegamento e le lobbie erano in legno, i muri“infrescati” all’interno e “razati” all’esterno.La copertura del corpo principale era incoppi, mentre negli annessi rurali si utilizzava-no paglia e frasche. Nel 1716 risultavano pre-senti una cappella e una casa del prete. Gli adeguamenti architettonici e strutturalidelle grange nel corso del XVIII secolo –ormai divenute, dalla metà del secolo,Tenimenti dell’Ordine Mauriziano – seguonole trasformazioni in atto nelle strutture ruralidelle campagne piemontesi (Palmucci, Sirchia2009). Le nuove esigenze produttive e gliinterventi di ristrutturazione a seguito deglieventi bellici della fine del XVII secolo (batta-glia di Staffarda, 18 agosto 1680, e guerra disuccessione spagnola, 1701-1713) definironoampliamenti e variazioni delle cascine.L’incremento dell’allevamento determinò lacostruzione di nuove stalle e l’ingrandimentodelle preesistenti, come documentato dallerelazioni di visita. Le strutture con orizzonta-mento in legno, vengono progressivamentesostituite da volte a botte ribassata in muratu-ra, spesso lunettata in corrispondenza delle
Pianta della cascina San Marco, 1857, Archivio Sto-rico Ordine Mauriziano, A. 8
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aperture, o da volte a crociera, fino alle solu-zioni più tarde delle volte a vela su arconi(Palmucci 1999). Alla fine del Seicento Pomerolo, concessa inenfiteusi ai Saluzzo di Monterosso, risultavain pessime condizioni, visto che il tutto appa-riva “abbruciato in maniera tale che non si èritrovato altro che le sole muraglie maestre”(ASOM, Staffarda, m. 8, fasc. 208, 18 febbra-io 1694-1699). La struttura si espande attra-verso successivi accorpamenti di più cortirurali, parzialmente chiuse, aggiunte verso este ovest al nucleo quattro-cinquecentesco. Trail 1696 e il 1699 le cascine che compongono lagrangia di Pomerolo vengono riparate utiliz-zando i materiali provenienti da un altro teni-mento a Villafalletto. I lavori si concentranosulla ricostruzione di alcune volte, di muri e diquattro casi da terra. Nel 1716 la parte piùantica che comprende la casa d’abitazione delcavaliere di Monterosso, con una piccola cap-pella, dei granai e una chiesa, versa in pessimecondizioni. A questa parte si uniscono le abi-tazioni di quattro massari, con la stalla, lafenera e i casi da terra, e il forno. Nei pressinegli edifici principali viene realizzata unanuova cascina, a Campo Lungo, con abitazio-ne, stalla-fienile e tettoia (ASOM, Staffarda,Mappe e Cabrei, STA n.10, Tipo dei beni dellaCassina di Pommarolo […], 26 novembre1716, Chiaffredo Scaramuccia agrimensore). Anche la cascina Pista, a nord-est della For-naca, nel territorio di Scarnafigi, articolata ad Lcon un casa da massato, crotta, stalla, tettoia, eforno, subisce danni e distruzioni, tanto darichiedere interventi sia nel 1679 sia nel 1753quando verrà radicalmente ricostruita (ASOM,Staffarda, m.8, fasc. 213; m.18, fasc.423, m.19,fasc. 437, m. 13, fasc. 334). Simile sorte seguela cascina Cassinasse a Cardè, danneggiata dal-l’esondazione del Po nel 1679, riparata nel1687, ma di nuovo in pessimo stato di conser-vazione nel 1729 (ASOM, Staffarda, m.7, fasc.177, 1679-1686, m. 12, fasc. 317 8-17 ottobre1722, m. 13, fasc. 338, 27 luglio 1729, m. 21,fasc. 498, 7 agosto 1752).La cascina San Marco, già grangia Aimon-dino, a nord-ovest dell’abitato di Moretta, nel1679 risulta definita da una corte aperta eregolare, con tre case da massaro, due stanze
dominicali, cappella e forno (Palmucci 1999).Nel 1716 viene ricostruita a seguito dei dannisubiti nella battaglia di Staffarda, diventandouna cascina chiusa da mura con due ported’ingresso a levante e a ponente, con abitazio-ne per due massari e una cappella, con un gra-naio e un colombaro (ASOM, Staffarda, m.6,fasc. 173, 8-16 luglio 1679, m. 7, fasc. 177, da1679-80 a 1786, m. 8, fasc. 213, 1-7 giugno1696, m. 12, fasc. 323, 1725-26, m.18, fasc.423, 12 novembre 1749, Mappe e Cabrei, [Pian-ta della cascina San Marco], s.a, 1857). Nuoviambienti per il ricovero degli animali vengonoprogettati dall’arch. Castelli, tra il 1726 e il1729, con un sistema di copertura in muraturaa botte ribassata con lunette in corrispondenzadelle aperture (Palmucci 1999).Negli anni ottanta del XVII secolo si procedecon la parziale ristrutturazione del palazzodella Grangia di Lagnasco, dove al pianoterra, si conservano ancora soffitti lignei sumensole ascrivibili al XVI secolo. A fiancodella residenza principale, tra il 1722 e il 1725si abbatterono alcuni edifici sostituiti dalGranaio grande, con il tinaggio coperto da
volte e sostenuto da pilastri, ancora oggi visi-bile (Comba 1983). Si tratta di un edificioinnovativo per la sua dimensione e per le solu-zioni costruttive adottate: si articolava, alpiano terra, in un ampio locale a tre navatecoperto da una successione di volte a crocie-ra, e uno corrispondente al piano superiore,collegato tramite una scala esterna con gradi-ni di pietra, sostenuta da quattro pilastri. Nelfrattempo s’incrementava anche il numerodelle case da massaro, si costruiva una nuovacappella con sacrestia e con portico antistan-te, e una casa per il cappellano, racchiudendoil tutto con una cinta muraria realizzata con imateriali di recupero della stalla demolita(ASOM, Staffarda, m.12, fasc. 317, 8-17 otto-bre 1722, fasc. 321, 13 gennaio-5 dicembre1725, m.13, fasc. 338, 27 luglio 1729, m. 14,10 giugno 1730, m. 18, fasc. 423, 12 novembre1749).Nello stesso periodo anche la Fornaca di Scar-nafigi è oggetto di significativi lavori di ristrut-turazione. Dal cabreo del 1679 (ASOM, Staf-farda, m.6, fasc. 173, 8-16 luglio 1679, GiovanniBattista Ruglino) emerge una struttura già
Pianta regolare del mulino di Staffarda divisa per piani […], 1867 Giuseppe Reviglio geometra, Archivio StoricoOrdine Mauriziano
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organizzata a corte chiusa, con tre lati occupa-ti dalle case da massaro e nell’angolo sud-ovest la cappella, la bottega del fabbro, e leg-germente staccati il pozzo e il forno. La con-servazione di questi edifici risulta, però, assaiprecaria alla fine del XVII secolo, richiedendointerventi radicali nei primi decenni del seco-lo seguente, che portarono alla demolizione dimolti dei corpi di fabbrica più antichi, sosti-tuiti da nuovi edifici. Tra questi si registranouna nuova cappella, un tinaggio e diverse abi-tazioni per i massari, delineate dai nuovi siste-
mi di copertura voltati in muratura. Le vastevinaie di Lagnasco e di Scarnafigi (38x13 e25x11 metri) uniscono il deposito per le gra-naglie al piano superiore con l’ambiente alpiano terra usato per la lavorazione e la con-servazione del vino. Questi nuovi edifici sonoprogettati in sostituzione delle primitive crot-te delle strutture cistercensi caratterizzate daspazi angusti coperti da assiti lignei o da pic-cole voltine.Il fervore edilizio che connota la prima metàdel XVIII secolo è indicativo di una significa-
tiva crescita economica e produttiva delleaziende agricoli saluzzesi, che determina unincremento degli spazi dedicati alla produzio-ne. Parallelamente si moltiplicano i cantieriper la ricostruzione e l’ampliamento deglispazi abitativi. Le storiche grange cistercensi,ormai diventate tenute ad alta produttività,sono anche luogo di raccolta e di stoccaggiodei prodotti provenienti dalle cascine diminori dimensioni sparse sul territorio e po-tenziate negli stessi anni. L’attività edilizia e di controllo delle tenute èaffidata all’arch. Tommaso Prunotto, cheinsieme a Carlo Maria Castelli, redige progettie relazioni di visite, tra gli anni dieci e cin-quanta del XVIII secolo (ASOM, Staffarda, m.13, fasc. 334, 29 marzo 1729, 27 luglio 1729,fasc. 338, Mappe e Cabrei, STA n. 1, sd, [sec.XVIII], Michele Richiardi, m. 19, fasc. 463, m.20, fasc. 468, m. 21, fasc. 511). Da questi docu-menti emerge spesso la necessità di valorizzarel’aspetto produttivo, con la rinuncia all’utiliz-zo di strutture ormai considerate obsolete,come la cascina Cassinasse di Cardè, la Pista ela Mortisso di Scarnafigi, sostituite ben presto,da nuovi complessi più moderni, come laGerbolina, maggiormente adatti all’intensifi-carsi della produzione agricola.I miglioramenti introdotti sono legati allosfruttamento di nuove parti di territorioboschive, trasformate in seminativo o in pratoper le necessità dell’allevamento, irrigate danuovi canali e bealere che ridisegnano il terri-torio delle campagne cuneesi. L’esigenza di nuovi spazi abitativi, a seguitodell’incremento della manodopera vitale all’an-damento dell’azienda agricola, determinanuove soluzioni per le cascine, che completa-no, ingrandendone la superficie, il perimetro
Individuazione delle grange cistercensi dell’abbaziadi Staffarda tra XII e XIII secolo.
La croce con sfondo grigio indica la localizzazioneincerta. Tra parentesi sono riportate le date in cuirisultano attestate come grange; quando sono due laprima è riferita alla citazione del possedimento.Le grange del Drosso e di Stupinigi non sono statelocalizzate per i limiti della cartografia di riferimento
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del complesso con la disposizione degli edificiintorno alla grande corte centrale. In conclusione, emerge una sostanziale diffe-renza per gli impianti produttivi cistercensisaluzzesi rispetto a quelli delle altre abbazie:non sembra prendere forma, (o non ne rima-ne traccia materiale), l’edificio isolato dellegrangia a carattere monumentale, costruito inmuratura litica o lapidea, e concluso da siste-mi complessi di carpenteria lignea o da strut-ture voltate, così come testimoniato nellegrange di numerose abbazie europee in Fran-
cia, Belgio, Germania, Spagna e Gran Bre-tagna (Platt 1969, Moratti 1993, Gullino2006). In molti casi sono ancora conservatiedifici di grandi dimensioni a pianta rettango-lare con divisione in campate, che riprendonol’uso del modulo, impiegato nella progettazio-ne della chiesa e degli ambienti monastici.Spesso arricchiti da finiture di alto pregio escanditi da lesene e contrafforti in facciata,con aperture a bifore, questi edifici assolvonoalle funzioni di granai e depositi rurali. Se neconservano esempi significativi a Preuilly,
Fourcheret, Vaulerent, Maubuisson, Haute-rive, Hautecombe, Fontanay, Fontcalvi, Pou-jouls, Ter Doest, ma anche a Fossanova e Col-lalto, alle dipendenze di Chiaravalle di Fiastra(Righetti Tosti Croce 1993a).Nel caso di Staffarda e degli altri esempi pie-montesi sembra essere più diffuso il modellocronologicamente contestuale, degli edificirurali costruiti nei pressi del recinto abbazia-le, quasi a voler connotare maggiormente ilnucleo originario della fondazione con un lin-guaggio architettonico unitario.
Individuazione delle cascine dei Tenimenti dell’abba-zia di Staffarda tra XVII e XVIII secolo.
I Tenimenti erano delle vaste proprietà terriere che rac-coglievano al loro interno diverse cascine.Un documento del 1678 elenca 34 cascine, di cui 7nel recinto di Staffarda, 10 alla Grangia di Lagnasco, 7alla Fornaca, 3 dette le Cascinasse, 2 a San Marco, 1a Envie, 2 al Murtizzo, la cascinetta di Saluzzo, e laVigna di Saluzzo (Savio 1932, pp. 135-136)
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I conversi: il ruolo dei laici all’interno dell’abbazia
metalli, dei sali minerali e di quello marino, lapiscicoltura, la lavorazione del vetro, dellalana e delle pelli, tutte attività che richiedeva-no edifici specifici, talora ancora conservati(come ad esempio l’edificio della forgia aFontanay) o testimoniati da scavi archeologici(Righetti Tosti Croce 1993b). Spesso il numero dei conversi si rileva insuffi-ciente per far fronte a tutti i lavori; risultaquindi necessario assumere manodoperaesterna salariata o legata a vincoli signorili perfar fronte alle esigenze della produzione. Legrange costituiscono quindi, per i contadini,un’ottima occasione di impiego saltuario oduraturo. I conversi adottano spesso la fun-zione di guida e di amministratori di una co-spicua manodopera laica, come ormai è accer-tato in numerosi casi (Beccaria 1998).Il ruolo dei conversi assume aspetti interessan-ti e variamente articolati, in alcuni casi rico-prendo questi anche incarichi di responsabilitàe con una certa autonomia nella gestione dellagrangia e dei possedimenti afferenti. La posizione dei conversi nell’ambito dellacomunità di Staffarda è rilevante; i monacilaici risultano attestati con il nascere dei priminuclei fondiari strutturati a partire dagli annisettanta-ottanta del XII secolo, come protago-nisti di transazioni economiche e negoziazionipatrimoniali (Rapetti 1999a). La posizione diresponsabile di una grangia poteva esserericoperto da un converso per molto tempo,raggiungendo la durata di quaranta anni circaper il grangerius di Pomarolo, Robaldo di Sa-luzzo o della Morra, che rivestì il suo incaricodagli anni 1180 al 1220. La lunga durata del-l’incarico permetteva di raggiungere rilevanti
livelli di autonomia gestionali, così come docu-mentato per Berardo, grangiere di Lagnascotra il 1239 e il 1254, e per Arnaldo responsabi-le del Drosso a partire dagli anni ottanta delXII secolo e per una ventina di anni a seguire(Rapetti 1999a, note 79-81, p. 122).Il ruolo svolto dai vertici monastici nei proget-ti di espansione è discretamente documentato,con un significativo incremento nei primi annidel XIII secolo. Sembra emergere una notevo-le frammentazione delle funzioni nella comu-nità delle grange cistercensi, con alcuni di par-
Per seguire i lavori ed organizzare le numero-se proprietà terriere di cui era dotata un’abba-zia cistercense, i monaci riformati introduco-no la figura del converso, o laicus barbatus,religioso laico, membro dell’ordine a tutti glieffetti, vincolato alla vita religiosa pur essendoescluso dall’ufficio liturgico. La conduzione diretta delle terre, tramitel’impiego dei conversi, fu la vera e proprianovità delle comunità monastiche cistercensi,consentendo ai monaci di procedere nella col-tivazione senza contravvenire al voto cheimpediva loro di usufruire delle ricchezzeprovenienti dal lavoro altrui. In questo modo la comunità monastica pote-va tenere terre, vigne e boschi purché fosserocollocati lontano dai centri abitati, ed era rico-nosciuta la possibilità di possedere grange daaffidare alla custodia dei conversi. Era pre-scritta una distanza minima tra grange didiverse abbazie (11,50 km circa), con deroghefrequenti, e non si potevano costruire all’in-terno dei nuclei rurali altari e cimiteri, finoalla autorizzazione del papa Alessandro IVche, nel 1255, concesse la possibilità di cele-brare messe nelle grange distanti dall’abbazia. Il termine grangia, mutuato dal latino classicogranarium (il luogo che conserva il grano),indicava non solo il singolo edificio, ma ilcomplesso di costruzioni che costituivano lastruttura agricola, e in senso più ampio, l’in-sieme della proprietà agraria comprendentetutti i terreni e gli edifici presenti. Tra le produzioni svolte dalle comunità cister-censi non vi erano solo l’agricoltura e l’alleva-mento, ma anche la produzione del vino edella birra, l’estrazione e la lavorazione dei
Apparizione della Vergine ai monaci durante la mieti-tura, pala d'altare della chiesa di Zwettl (Austria),dipinta da Jorg Breu il Vecchio, XV secolo
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ticolare prestigio, come quelli ricoperti daPietro Rancura, rappresentante di Pomerolo, eIsnardo di Torriana, scutifer di frate Martino.Tra gli incarichi presenti, è documentato il cana-varius, ossia il responsabile della caneva, i depo-siti della grangia, ruolo svolto da Enrico di Albaad Aimondino nel 1209 (Merati 2007).Alcuni conversi provenivano da famiglie illustridella corte marchionale saluzzese e del territo-rio, come Guivanni Richelmi, grangere dellaMorra, nel 1230, mentre ai domini di Saviglianoapparteneva Ottone Beggiamo, grangere diStaffarda negli anni cinquanta del XIII secolo.Altre posizioni autorevoli furono ricoperti da
conversi nei casi in cui gli abati affidavanoimportanti missive a loro, oppure quandorappresentavano l’abbazia in importanti tran-sazioni economiche e patrimoniali. Potevano,inoltre, collaborare con il cellerario interve-nendo come testimoni nei rogiti notarili.Questi ruoli con il passare del tempo furonoricoperti solo dai grangeri e non da sempliciconversi, ai quali spettavano diverse mansioninella vita comunitaria dell’abbazia e dellegrange, come l’attività di allevamento, l’assi-stenza ai poveri e ai pellegrini. Sono infattidocumentati conversi ostalarii, impiegati nel-l’accoglienza dei viaggiatori e dei forestieri che
chiedevano asilo nel monastero, come Gu-glielmo di Envie nel 1214 (Cartario di Staf-farda, I, pp. 126-127, doc. 125, 1214), e gran-geri che curavano l’ospitale pauperum, comePelerino, grangere di Torriana dal 1244 al1253 (Cartario di Staffarda, I, pp. 277-278,doc. 307, 1244; II, p. 59, doc. 436, 1253).Figura di spicco nel panorama dei conversi diStaffarda fu Guglielmo Duc, di famiglia torine-se, che porterà alla comunità saluzzese la suaesperienza di ricco signore fondiario, offrendo“la sua autorevolezza di civis […] su un impor-tante mercato e su un nevralgico nodo stradaletra le Alpi e la pianura” (Patria 1999, p. 131).
La regola di san Benedetto fornisce precise indicazioni sugli aabbiittii iinnddoossssaattii ddaaii mmoonnaaccii, che variano a seconda del clima locale. Per le attivitàquotidiane era sufficiente una tunica, una cocolla, di maggior spessore per l’inverno e minore d’estate, uno scapolare per il lavoro, calze e scar-pe, nel numero di due per ogni capo, in modo da garantire il cambio per la notte e per il lavaggio. Gli abiti erano per lo più di tela grezza, ruvi-da e poco costosa, ad eccezione della versione che il monaco prendeva a prestito per il viaggio, che poteva essere di maggior pregio e dotatadi biancheria intima. Ogni monaco era fornito di un coltello, fissato con la cinghia all’abito, utilizzato oltre che per le necessità quotidiane, perprendere una porzione di sale.La tunica era una camicia di lana grossa che dalle spalle scendeva fino verso le caviglie, con le maniche lunghe e il collo largo, fermato da unlaccio. La tunica veniva coperta dalla cocolla e/o dallo scapolare a seconda delle circostanze. La cocolla era la veste esterna del monaco, carat-terizzata dal mantello con il cappuccio indossato abitualmente dai lavoratori all’esterno del convento. La versione cistercense ripristinava la sem-plicità della Regola, evitando imbottiture di pelo, come era in uso per i cluniacensi, ma mantenendo ampio il cappuccio in modo che potessecoprire il volto del monaco durante i servizi. Il colore della cocolla dipendeva dalla materia prima: la lana non sbiancata e non tinta presenta infat-ti innumerevoli variazioni di colori, e non è così bianca, almeno in origine, come si è soliti tramandare. Lo scapolare era un lungo grembiule nero che pendeva davanti e dietro e arrivava appena sotto le ginocchia. Il suo uso era necessario per pro-teggere la tunica quando il monaco lavorava. I tre indumenti erano fermati in vita da una cintura di semplice corda o in cuoio. Le calzature dif-ferenti per il giorno e per la notte, prevedevano degli stivali in cuoio resistenti e adatti ai lavori manuali durante il giorno e pantofole in feltroper la notte.I conversi vestivano una tunica, un mantello, calze, scarpe da giorno e da notte e una minicocolla che copriva le spalle e il petto. Le variabilierano maggiori rispetto a quelle degli abiti dei monaci, anche a seconda del lavoro che veniva svolto da ognuno. Verso la metà del XII secolo lacocolla e la tunica normalmente più scure di quelle dei monaci, tendevano ai colori grigio scuro e al marrone, tanto da diventare in seguito unatradizione, che attribuiva ai monaci il colore bianco e ai conversi il marrone (Kinder 1997).
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Sulla base delle fonti documentarie è possibi-le ricostruire le fasi principali della nascita edello sviluppo dell’abbazia cistercense neisuoi primi secoli di vita.I primi documenti legati alla fondazione, risa-lente al periodo compreso tra il 1127 e il 1138,non forniscono riferimenti precisi sulle strut-ture della chiesa. Nel 1154 nel documento dinomina di Pietro nel ruolo di abate, Staffardaè definita «basilice monasterii quod est con-structum in honorem Sancte Marie, in locoqui dicitur Stapharda» (Cartario di Staffarda,I, p. 22, doc. 11). Nel decennio tra il 1158-1167 una quindicina di documenti ricordanol’abate del monastero «quo est aedificatum inloco qui dicitur Stapharda», e «quod est con-structum et aedificatum in loco qui diciturStapharda» (Cartario di Staffarda, I, p. 30,doc. 18, 1158; I, p. 35, doc. 23, 1161). I docu-menti sembrano dunque essere concordi nel-l’attestare negli anni cinquanta del XII secolouna basilica costruita. È plausibile che neiprimi anni l’abbazia abbia accresciuto il pote-re economico raccogliendo i fondi necessariper il finanziamento del cantiere, aperto quin-di nel corso del quarto decennio del secolo.Le indicazioni dei documenti sono vaghe enon forniscono la misura di quanto della fab-brica sia stata realizzata nei primi anni. Nonsappiamo quindi dalle fonti la successionecronologica del cantiere. La possibile rico-struzione della cronologia costruttiva puòavvenire dall’analisi diretta dell’architettura. La chiesa di Santa Maria di Staffarda è stata,presumibimente, la prima parte del comples-so monastico ad essere costruita. L’assettomedievale della chiesa non viene mai sostan-
zialmente alterato; nonostante alcune aggiun-te, eliminate nel corso dei restauri del XVIII eXX secolo, che ne hanno reinterpretato i di-versi elementi architettonici, è ancora possibi-le leggere la struttura originaria dell’edificio.La chiesa si presenta ancora oggi con la strut-tura scandita dalle tre navate terminanti conaltrettante absidi orientate con uno pseudo
transetto, non sporgente in pianta, collocatoin corrispondenza della penultima campata. Ipilastri polistili si compongono di un nucleoquadrangolare sul quale si addossano quattrosemicolonne sui lati. Sui sostegni si impostanogli archi delle crociere e le nervature deicostoloni. In corrispondenza del presbiterio lesemicolonne si interrompono tramite peducci
Chiesa
L’architettura della chiesa: il primo impianto della comunità cistercense
62 L’ABBAZIA CISTERCENSE DI SANTA MARIA DI STAFFARDA
per accogliere gli stalli del coro monastico.Gli archi sono a pieno centro, alcuni a sestoleggermente ribassato, senza elementi acuti.Un accenno di profilo acuto si rileva nelle veledella navata centrale in corrispondenza delpresbiterio. I costoloni sono a sezione rettan-golare nella maggior parte dei casi, ad eccezio-ne delle ultime tre campate occidentali dovele nervature assumono una sezione arrotonda-ta. Volte a botte si rintracciano in corrispon-denza dello pseudo transetto e delle absidilaterali. Il transetto interseca le navate in cor-rispondenza del coro originario collocato difronte all’altare maggiore, nello spazio recinta-to, vero centro sacrale e liturgico della chiesamonastica, dove un tramezzo divideva lo spa-zio delle navate dal coro dei monaci. Le campa-te rettangolari della chiesa sono disposte in
senso trasversale nella navata centrale e longi-tudinale nelle laterali.Il sistema di sostegni delle volte nelle navatelaterali è differente tra il lato nord e quelloopposto: a nord l’usuale sistema delle semico-lonne addossate alle pareti garantisce l’im-pianto di scarico delle forze, mentre nellanavata sud singole mensole di appoggio s’in-seriscono in un muro perimetrale rettilineo. Èpossibile che questa anomalia sia imputabile afasi di cantiere che si sono succedute neltempo con l’impiego di maestranze di diversaformazione tecnica che hanno scelto soluzioniper l’elevato più vicine alla loro capacità co-struttiva. I sostegni che scandiscono lo spazio internodelle navate mostrano una successione regola-re in corrispondenza della serie a sud, con
pilastri a sezione quadrangolare con semi-colonne addossate, mentre sul lato opposto, iprimi tre sostegni sono di sezione maggiorecon base di altezza considerevole rispetto aquelle di fronte. Il secondo pilastro che acco-glie il pulpito è stato sagomato per facilitarel’innesto della struttura lignea, mentre i terziin corrispondenza del coro risultano con lesemicolonne volutamente interrotte per acco-gliere lo jubè, tramezzo divisorio tra il coro ela navata. Il pilastro successivo verso l’abside,sul lato nord, è di sezione irregolare con untratto del setto murario che in origine divide-va il coro. La maggiore sezione dei pilastridella navata nord corrisponde perfettamenteall’intero ordine architettonico; la successionepilastro, capitello, nervatura della volta seguele medesime dimensioni mantenendo una
Pilastro polistilo con semicolonna addossata verso lanavata centrale
Area del coro con le semicolonne interrotte terminaticon peducci a cono rovesciato o cilindrico
Transetto terminante a filo con le navate laterali, coper-to da una volta botte trasversale
CHIESA 63
certa armonia costruttiva. L’articolazionecomposita e differenziata dei sostegni, nonsolo data dalla sezione geometrica differentedei pilastri, ma anche dalla diversa dimensio-ne non è un elemento raro nei monastericistercensi di area lombarda; esempi analoghisi riscontrano a Rivalta Scrivia, a Morimondoe a Lucedio (Moratti, 1998). Questa articolazione può in alcuni casi esseresegno di diverse fasi di cantiere, che si adatta-no, con soluzioni tecniche anche empiriche, asingole problematiche emerse nel proseguodella costruzione.I capitelli mostrano analoga diversità nell’im-piego dei materiali, laterizi e pietra, e nellescelte decorative. Nella navata centrale ilprimo e il secondo capitello del lato nordverso la facciata sono in laterizi sagomati adoppio cubo scantonato, mentre il terzo è acubo semplice. L’incrocio della navata nordcon il transetto segna un elemento di discon-tinuità nelle semicolonne addossate terminan-ti con capitelli litici a semplice cubo scantona-to. L’ultima campata prima dell’abside pre-senta capitelli in pietra fogliati di ricca esecu-zione. Lungo la navata centrale dal lato sud, lasequenza dei capitelli riprende, verso la fac-ciata, con un elemento a doppio cubo scanto-nato dipinto, a cui segue un capitello confasce a foglie lisce semplici sovrapposte, chedefiniscono un disegno a rombi alternati bian-chi e rossi, mentre l’ultimo prima del transet-to è a cubo semplice dipinto. L’incrocio della navata con il transetto segna,anche per questo lato, una cesura: i capitelliverso la campata del transetto sono in pietracon decorazione a foglie doppie, mentre nell’ul-tima un capitello presenta elementi litici a fogliesovrapposte e l’altro è di semplice fattura.I capitelli delle semicolonne verso le navatelaterali sono di varia tipologia: si riscontranoelementi cubici scantonati semplici o doppi inmuratura e in pietra senza una riconoscibiledisposizione in rapporto a quelli della navatamaggiore, mentre le mensole litiche dellanavata destra sono semplicemente modanate.In corrispondenza della navata sinistra i capi-telli cubici sono posti su semicolonne addos-sate al perimetro murario.Le semicolonne pensili realizzate in corri-spondenza del coro sono concluse da menso-
le a tronco di cono, ad eccezione di quella anord-ovest definita da una decorazione a cer-chi concentrici. Le absidi, di dimensioni differenti, sono stateoggetto di interventi di restauro all’inizio delXX secolo che hanno interessato in modoparticolare le aperture. Quella centrale, dimaggiore dimensione, presenta un originariocoronamento a galleria cieca con colonnineconservato solo in parte. Ogni abside s’inne-sta, tramite una volta a botte longitudinale,sull’ultima campata est della chiesa.Il prospetto est verso l’esterno dell’edificiomostra ancora la fila di archetti pensili chesegue l’originaria andatura delle falde deltetto, che univano tutte le navate secondo unprofilo lineare a capanna.Una facciata analoga doveva essere presentesul lato ovest dove oggi si conserva un pro-spetto a falde interrotte. Analizzando il murodi controfacciata è leggibile ancora il profilooriginario del tetto a capanna, che presentauna lieve discontinuità in corrispondenzadelle falde delle navate laterali. La facciata “avento” sopraelevava parzialmente l’altezzadelle navate laterali.Sull’ultima campata est venne aggiunto ilcampanile intorno alla fine del XIII secolo, inuna fase distinta da quella del cantiere dellachiesa.Nella costruzione dell’edificio si rileva fin daiprimi tempi un grave problema statico dovu-to alla pressione dell’orditura del tetto sullevolte; i costruttori hanno appoggiato diretta-mente l’orditura lignea sull’estradosso dellevolte, privandola dei monaci e dei puntoninecessari per l’equilibrio statico, e gravando lastruttura di scarico di un peso diretto maggio-re. Questo sistema costruttivo, detto “volte acarico”, era ampiamente diffuso nell’architet-tura romanica. Ricorrente nelle chiese lom-barde e in Piemonte è attestato per i secoliXII e XIII (Peroni 1969). La relazione scritta da Ernesto Melano nel1841 rivela perfettamente il sistema costrutti-vo evidenziando le criticità che verranno risol-te solo all’inizio del secolo seguente. Egli rife-risce che «il tetto [è] costrutto in forma dicavalletti, ma privi dei soliti monaci e tiranti,non permettendolo l’estradosso del volto,
Volta a crociera della navata laterale trasversale rispet-to a quella centrale con arco d’imposta a pieno centro
Volta a crociera della navata centrale con decorazionebicroma negli archi traversi e nei costoloni
Volta a crociera della navata centrale con costoloni echiave di volta scolpita
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essendo questo più alto dei muri laterali chesorreggono il volto medesimo» (ASOM,Staffarda, m. 50, fasc. 1258, 27 ottobre 1841).Sarà solo l’intervento dell’ing. Camusso, allafine del XIX secolo, che risolverà il problemaacuitosi con il passare del tempo e con i feno-meni di dissesto.L’analisi dei sottotetti rivela ancora l’esistenzadi blocchi lapidei costruiti sugli estradossidelle volte in corrispondenza delle reni peraccogliere le travi in appoggio. Il vano scala,che si apre in corrispondenza della navatasinistra della chiesa, permette di accedere aisottotetti, con un percorso che si snoda al disopra degli estradossi delle volte e all’internodi alcuni ambienti secondari. La perfetta ese-cuzione e posa in opera della muratura, conlaterizi striati e giunti stilati, denota comeanche in parti secondarie, la precisione dellacostruzione venga mantenuta inalterata. L’e-sistenza di un percorso accessibile ai vani al disotto delle coperture è attestata in molte altreabbazie: Rivalta Scrivia e Chiaravalle Milanesesono casi in cui il corpo scala si apre in corri-spondenza del transetto (Beltramo 2009,Nocentini 1995). Il sovraccarico del tetto e la non sufficientecontraffortatura delle pareti laterali, sonoall’origine dei ricorrenti dissesti statici docu-mentati nel corso del tempo. La costruzionedegli arconi rampanti ha migliorato, ma nonrisolto il problema. Infatti gli archi presentinelle planimetrie storiche dell’inizio delXVIII secolo e probabilmente costruiti neicantieri tardomedievali, hanno tamponato lasituazione, rivelatasi disastrosa a seguito deiterremoti del XIX secolo. Il problema della contraffortatura sembraessere il nocciolo della questione costruttivaaffrontato nei cantieri lombardi della metà delXII secolo prima dell’introduzione dell’arcogotico rampante nel territorio. In questa dire-zione i cantieri cistercensi sono stati luoghi disperimentazione; la soluzione del diaframma
murario trasversale inserito nella navatellalaterale, sporgente dal tetto come contraffortee applicato al cleristorio, risulta essere effica-ce e avere una notevole diffusione. In Pie-monte viene impiegata a Casanova e a RivaltaScrivia, ma anche a Morimondo e Chiaravalledella Colomba (Negri 1981, Valenzano, Guer-rini, Gigli 1994) per citare altri esempi di abba-zie cistercensi.A Staffarda però la struttura della chiesa nonpermetteva questa soluzione: la decisione didiminuire lo sviluppo del cleristorio e avvici-nare la quota d’imposta delle tre navate ren-deva insufficiente lo spazio a disposizione. Ifregi continui di archetti pensili, ancora con-servati sul prospetto nord, indicano i livellioriginari della linea di gronda del muro peri-metrale e del cleristorio. Il sistema scelto daicostruttori “a gradinature” necessitava quin-di di robusti contrafforti da collocare in cor-rispondenza di un muro perimetrale forte-mente sviluppato in altezza. Tale funzionevenne assolta dagli archi rampanti aggiunti inuna prima seria crisi statica del complessodopo diversi secoli dalla costruzione del pri-mo impianto. Il sistema di contraffortatura realizzato nelprimo cantiere medievale è ancora visibilesotto il tetto della manica nord dell’edificio.In corrispondenza degli archi traversi dellanavata maggiore, i costruttori realizzarono deicontrafforti, poggianti sugli archi sottostantidelle navate laterali, forati da monofore chegarantivano l’accessibilità del sottotetto. Le originarie monofore del cleristorio furonoripristinate dall’intervento di Bertea neglianni venti del XX secolo, permettendo la cir-colazione dell’aria nel sottotetto, oltre a scan-dire l’architettura interna della chiesa. Il livello della copertura del corpo longitudi-nale era differente rispetto a quello della parteest senza interruzioni delle falde in corrispon-denza dell’ultima campata. Il transetto era
privo di cleristorio, presente invece, ma conun’altezza minore, nella parte successiva dellenavate ad oriente. Questa soluzione così arti-colata nelle altezze delle diverse parti dellafabbrica, mostra una varietà di scelte costrut-tive che trova frequenti parallelismi nel conte-sto lombardo.La facciata leggermente a vela del transetto sullato sud mantiene i livelli originari come testi-monia la fascia continua di archetti pensili con-servata su di uno sfondato intonacato di bian-co. Dall’interno è evidente come la coperturadel braccio del transetto in origine fosse piùbassa, arrivando al limite superiore dell’apertu-ra a croce aperta in facciata. Questo prospettoè stato oggetto di importanti interventi di ripri-stino nel cantiere di Bertea, come testimonial’iscrizione con la data 1923, visibile su uno deilaterizi dell’apertura quadrilobata.Il lato nord del transetto non conserva il fre-gio ad archetti pensili e la muratura sopral’apertura ovale mostra segni di ripristino. La crociera d’innesto del transetto, che nellachiesa medievale sovrastava il coro monastico,presenta una soluzione ancora del tutto diffe-rente. Questo corpo di fabbrica era caratteriz-zato da un’altezza maggiore rispetto a quellicircostanti quasi a voler far emergere il bloccodalla fabbrica. All’interno del sottotetto, l’e-stradosso della volta è segnato da gradoni inmuratura che sembrano costituire un appog-gio per una possibile torre nolare che a Staf-farda non verrà mai realizzata, ma che ritro-viamo invece nelle altre fondazioni cistercensipiemontesi (Rivalta Scrivia, Casanova). L’e-sterno è scandito da una mensola continua inlaterizio estesa anche ai bracci del transetto,indice di una fase successiva rispetto allaprima di costruzione della chiesa. La defini-zione della copertura della crociera si prolun-ga nel tempo, rimanendo a lungo senza unassetto definitivo, fino alla gettata della voltaesistente che mostra, in corrispondenza dellevele, un primo accenno di spigolo acuto.
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La chiesa di Santa Maria di Staffarda presen-ta pochi elementi tipici della cultura architet-tonica cistercense, notevolmente sviluppati inaltre chiese dell’ordine costruite in Piemontenel corso del XII secolo, come Casanova eRivalta Scrivia.L’architettura della chiesa è strettamente lega-ta alle tradizioni tipologiche e costruttive loca-li dell’Italia nord occidentale, del romanicolombardo, ampiamente diffuso nelle regionidella pianura padana. Gli unici elementiricorrenti negli edifici cistercensi e riconosci-bili anche a Staffarda sono l’impiego dellesemicolonne pensili nel coro, i costoloni asezioni torica delle volte e alcuni degli ele-menti scultorei, come i capitelli in pietrafogliati. Non sembra possibile rintracciarenella chiesa di Staffarda, se non in parte, quelproficuo intreccio tra i modelli borgognoniveicolati dai monaci di Citeaux e le tecnicheproprie delle maestranze locali. L’anomalia di Staffarda, già individuata dallacritica, non è un unicum tra le abbazie fonda-te dall’ordine riformato nell’Italia occidentale(Toesca 1965, Fraccaro de Longhi 1958, Sco-lari 1978, Carità 1992). In Piemonte il caso diLucedio, presso Vercelli sembra avere diversielementi in comune con le scelte attuate nelcantiere saluzzese (Tosco 1999). Il confrontomaggiormente stringente tra i due edifici èlegato alla terminazione absidale che inentrambi i casi è conclusa con un’abside cen-trale curvilinea, alla quale, a Staffarda, se neaffiancano due della medesima geometria. ALucedio in corrispondenza delle navate late-rali si introduce il tema della terminazionepiatta. Le tecniche costruttive impiegate nei
due cantieri sono molto simili, e nella testatasud del transetto di Lucedio, unico elementomedievale riconoscibile, insieme a parte delcampanile, si conserva una fascia di archettipensili molto vicina a quella di Staffarda.La cultura artistica e architettonica che per-mea le scelte operate a Staffarda e a Lucedio èdecisamente più “lombarda” che “cistercen-se”, differenziando le due fabbriche dal grup-po costruito tra Piemonte e Lombardia, chedenota caratteri maggiormente omogenei e
vicini alle regole cistercensi. Solo con i cantie-ri di Casanova e di Rivalta Scrivia, il Piemonteaccoglie i modelli borgognoni e le tematichedel plan bernardin nell’impiego dell’unicaabside rettangolare in posizione centrale edelle cappelle a terminazione piatta e simme-triche affiancate sul transetto (Tosco,Beltramo 2006, Chauvin 1992).Anche il sistema uniforme utilizzato nellevolte e nei pilastri a Staffarda si diversifica daquello seguito nelle abbazie cistercensi lom-
I modelli di riferimento e la cronologia delle fasi di cantiere della chiesa
Campanile con fregi ad archetti pensili a delimitare ilivelli e la bifora della cella campanaria
Sistema di accesso al sottotetto: percorso di servizio cheunisce gli ambienti sopra le navate laterali e centrale
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barde, che in genere adottavano l’alternanzadelle coperture, dove alla volta della navatacentrale ne corrispondono due in quelle late-rali. Lo schema delle crociere alternate carat-terizzano le prime chiese cistercensi lombar-de, Chiaravalle Milanese, Cerreto Lodigiano,Chiaravalle della Colomba, e quelle piemon-tesi di Rivalta Scrivia e di Casanova (Chiara-valle. Arte e storia 1992, Scolari 1990). Per Staffarda quindi un punto di riferimentopuò essere individuato in quel consistentegruppo di chiese che impiega il modellocostruttivo “a gradinature”, basato sul sistemauniforme che avvicina il livello delle voltedella navata centrale a quelle laterali, riducen-do l’altezza del cleristorio (Tosco, 1999).L’impiego di questa metodologia costruttiva siaffina nel corso di tutto il XII secolo, arrivandoa proporre soluzioni, come nel San Bernardo diVercelli del 1164, di chiese “a sala” (Hal-lenkirche), dove viene abolito del tutto il cleri-storio, costruendo uno spazio uniforme illumi-nato da aperture sulle navate laterali e sulla fac-ciata (Meglio, 2005). Staffarda elimina il cleri-storio nella parte orientale del corpo longitudi-nale, dove un unico spiovente del tetto uniscele tre navate. Le vicinanze con la chiesa vercel-lese sono rintracciabili anche nella sezione deipilastri e nel tipo di costoloni impiegati, eoffrono un riferimento cronologico e geografi-co vicino al cantiere saluzzese. La fertilità delterritorio vercellese nel recepire le dinamichecostruttive in atto nell’ambito del romanicolombardo e pavese, sono state da tempo sotto-lineate dalla critica storiografica (Porter 1914-17, Verzone 1934). Il tramite nella circolazionedei modelli architettonici può essere stato ilcontemporaneo cantiere dell’abbazia diLucedio, ma anche il priorato cluniacense diSan Valeriano a Robbio, dove si sperimentanonegli stessi anni le forme delle chiese “a sala”(Scevola 1991, Tosco 1999).Le affini soluzioni costruttive tra Staffarda e lechiese pavesi di San Teodoro e Santa Maria inBetlem sono state recentemente puntualizza-te; si possono enunciare il sistema uniformedelle crociere di copertura delle navate, lecampate rettangolari disposte in senso tra-sversale nella navata centrale, e longitudinalenelle laterali, la sezione dei pilastri, i capitelli
cubici e l’inserto del finto transetto non spor-gente in pianta e coperto a botte sui bracci(Segagni Malacart 1996). Una differenza è ri-scontrabile nell’inserimento di una campata trail transetto e l’abside, definito a Staffarda, manon così frequente nei casi citati. Si tratta di unadattamento per le esigenze liturgiche, peravere lo spazio necessario ad accogliere il corodei monaci, centro spirituale della comunità.
Il confronto con le chiese pavesi e con SanBernardo di Vercelli conferma la cronologiaipotizzata sulla base documentaria: dal cantieredi Santa Maria in Betlem della metà del XIIsecolo a quello dell’edificio vercellese del 1164,sembra essere possibile attribuire, anche sullabase dell’analisi architettonica, la fabbrica dellachiesa di Staffarda alla metà del XII secolo.Inoltre l’assenza di archi acuti nelle volte del-l’edificio consente di porre un termine all’an-damento del cantiere che non dovette supera-re gli anni settanta del secolo, in quanto iprimi esempi di archi acuti in Piemonte com-paiono tra il 1180 e il 1190 in situazioni in cuile maestranze locali intrecciano rapporti conl’oltralpe. Alla fine degli anni ottanta si ritro-vano archi a terminazione acuta nelle chiese diVezzolano e di Rivalta Scrivia. Anche la pre-senza della galleria cieca con colonnine nelcoronamento dell’abside centrale ben si adat-ta all’architettura lombarda della metà del XIIsecolo.È possibile ipotizzare dunque che, la chiesacitata nel 1154 come costruita, avesse impo-stato la sua struttura portante ma non avessecompletato ancora il sistema di copertura. Levolte delle prime due crociere presentano unassetto compositivo e strutturale più arcaico,definito dall’utilizzo dei costoloni diagonali asezione rettangolare e da chiavi di volta congeometrie a stella, mentre nelle tre successiveverso la facciata, le nervature hanno un profi-lo torico e terminano al centro con chiavi divolta raffiguranti l’Agnus Dei e un angelo. Icostoloni rettangolari continuano ad essereusati per tutto il XII secolo, ma vengono pocoper volta sostituiti con quelli a sezione curvili-nea, che non si trovano però prima del 1160(Fraccaro De Longhi 1953). L’impiego di que-sti nella chiesa di Staffarda si deve ascrivere
Capitello a due corone sovrapposte di foglie uncinatecon caulicoli e piccole volute
Capitello con foglie angolari terminanti in volute
Capitello cubico a doppio scudo
Capitello con elementi romboidali
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all’ultima fase di costruzione verso il settimo-ottavo decennio del XII secolo. Il procedere del cantiere per fasi era prassiconsueta nei cantieri cistercensi in Italia: sononoti i casi di Chiaravalle di Fiastra con unasuddivisione della fabbrica in cinque fasi, dal1142 al 1193, di Casanova con almeno tregrandi momenti costruttivi che salgono a cin-que nel caso della chiesa di Rivalta Scrivia(Romanini 1990).I costoloni a sezione torica sono un motivo diimportazione francese che si diffonde nelpanorama dell’architettura lombarda graziealla mediazione cistercense e quelli di Staffardasembrano essere i primi presenti in Piemonte.Nelle prime sperimentazioni dell’arco ad ogivanon sempre ritroviamo anche l’impiego delcostolone a toro; a Vezzolano, dove vengonointrodotti gli archi acuti come primo caso oggiconosciuto in Piemonte, non si ritrovano icostoloni torici, mentre a Staffarda non vieneutilizzato l’arco acuto nella chiesa, ma sul ter-mine del cantiere fanno la loro comparsa iprimi costoloni ogivali. Pochi decenni doponella chiesa dell’abbazia cistercense di RivaltaScrivia questo tipo di nervatura viene assuntain maniera regolare nella fabbrica.Nella fase successiva di annessione del porticoalla chiesa, anche a Staffarda si utilizzeranno
con diffusione gli archi ad ogiva con costolonitorici, arrivando a perfezionare le tecnichecostruttive con l’assottigliamento dei concidelle nervature diagonali all’imposta in mododa ottenere uno spigolo vivo. Questa soluzio-ne verrà adottata anche in altre parti del mo-nastero (come nella sacrestia) realizzate a con-clusione del cantiere della chiesa.L’altro elemento connotante l’architetturacistercense adottato anche nella chiesa di Staf-farda sono i sostegni pensili in prossimità delcoro. Le esigenze liturgiche dettate dalla pre-senza degli stalli del coro dei monaci hannoportato a questa soluzione costruttiva che in-terrompe la semicolonna addossata al pilastrotramite l’inserzione di un peduccio. Questasoluzione si riscontra in tutte le chiese cister-censi piemontesi e lombarde, ma anche in edi-fici appartenenti ad altri ordini religiosi, dovela presenza del coro riveste un ruolo rilevante(come ad esempio per i frati Predicatori).L’ultima fase del cantiere della chiesa, alla finedel XIII secolo, si concludeva con la realizza-zione della torre campanaria, inserita in corri-spondenza dell’ultima campata sud, nellaparte terminale a filo delle absidi, intervenen-do in modo radicale sull’originario profilo acapanna che risulta interrotto dall’inserzionedella torre. Le fasce di archetti marcapiano e
le aperture che si sviluppano su quattro livellisono state più volte riprese. Nella ricostruzio-ne del 1716 anche il campanile è stato ogget-to di intervento, mentre nel cantiere deglianni venti del XX secolo furono ripristinate lebifore dell’ultimo livello, prendendo ad esem-pio quelle conservate nei lati nord ed ovest, ela cuspide terminale. Il divieto di erigere torri campanarie nei mo-nasteri cistercensi, esplicitato negli Statuti del1157 (Canivez 1933-41) venne rispettato inuna prima fase dell’edificazione del comples-so. In un secondo momento, così come la mag-gior parte delle abbazie che derogavano questaregola, anche a Staffarda fu costruito il campa-nile, assumendo come riferimento i modelli delterritorio circostante, che si diffondono allafine Duecento, in particolare assonanze sonoriscontrabili con il campanile dell’abbazia diVillar San Costanzo (Beltramo 2003).
Gradoni in muratura per una torre nolare non docu-mentata
Esterno del transetto con fregio ad archetti paralleloalle falde del tetto ed elemento a croce
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Crocifisso fiancheggiato dalle figure di Maria e Giovanni nella navata sud: le tre figure lignee sono ascrivibili al degli anni trenta del XVI secolo
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Alla fine dell’età medievale si colloca un primointervento di recupero di alcune parti delmonastero e della chiesa di Staffarda. Non èpossibile stabilire con precisione l’entità e ladurata dei lavori, ma alcune testimonianzesono ancora riconoscibili dalla lettura degli ele-menti architettonici e dallo studio delle fontidocumentarie. Nel Cinquecento il complessodi Staffarda, passato attraverso la crisi del XIVsecolo, che compromise con un forte indebita-mento parte del patrimonio fondario, richiede-va interventi di ripresa delle opere murarie, diadeguamento liturgico e di arricchimento arti-stico. Secondo lo storico Muletti, l’abate Gio-vanni Ludovico di famiglia marchionale maentrato nell’ordine cistercense, come l’omoni-mo anch’esso parente stretto di Ludovico I(erano fratello e nipote naturale del marchese),nella metà del XV secolo «fece ristorare quelmonistero per vecchiaia e per l’incuria de’ pre-cedenti abati quasi intieramente rovinato»(Muletti 1828-33, IV, p. 371).Il XVI secolo è l’anno durante il quale anchel’abbazia di Staffarda è sottoposta alla com-menda; questo provvedimento era di normanecessario per risanare gli aspetti economici espirituali dei monasteri. Si tratta spesso di unamanovra politica per permettere a qualche si-gnore locale di impadronirsi delle considere-voli rendite che forniva il patrimonio fondia-rio dell’istituto religioso. Nel caso di Staffardanon stupisce che questa carica sia stata rivesti-ta dal figlio secondogenito del marcheseLudovico I, Federico, protonotario apostolicoe pochi anni dopo vescovo, che mantenne iltitolo di abate commendatario dal 1462 al1482 (Muletti, V, p. 150, Savio, 1932, p. 58).
Nel 1510 la carica passa a Giovanni Ludovico,figlio di Ludovico II, protonotario apostolico eabate commendatario, oltre che di Staffarda, dinumerosi altri centri religiosi del Marchesato.Il periodo della commenda di GiovanniLudovico fu uno dei più tormentati della storiadel marchesato, ma nonostante ciò, gli storicisono concordi nell’attribuire alla sua commit-tenza importanti opere di arredo liturgico com-missionate negli anni trenta del XVI secolo(Gentile 1999).La semplicità degli spazi cistercensi si arric-chisce di una serie di immagini funzionali allapreghiera corale della comunità, alla liturgiadella messe alle quali assistevano i fedeli e allapietà individuale. Il centro nevralgico di que-sto insieme è costituto dall’area presbiteriale,dove il coro dei monaci era racchiuso all’inter-no di un recinto che lo divideva nettamentedalle altre parti della chiesa. Di questa suddi-visione, che avveniva verso la navata tramiteun tramezzo, rimane traccia nella muraturadei pilastri e sul pavimento della chiesa. Nellaparte anteriore lo jubè era aperto al centro perpermettere la vista dell’altare maggiore daifedeli raccolti nella navata, che potevano inquesto modo partecipare alle fasi più impor-tanti della celebrazione eucaristica. Sopra altramezzo era collocato, rivolto verso il popolo,il Crocifisso fiancheggiato dalle figure di Mariae Giovanni, a ricordo del Calvario, con l’inten-zione di ricostruire un percorso spirituale checollimava con la vista dell’altare sul quale si rin-novava il sacrificio di Cristo. Le tre figurelignee che si conservano nella navata destra,sono l’esito della cultura figurativa di area fran-cese proveniente dalla Champagne, che lega
tali figure alla stessa mano che ha realizzato leimmagini antropomorfe allungate e con abiti apanneggi riscontrabili negli stalli del coro.Secondo Guido Gentile (1999) «l’estenuata sti-lizzazione delle figure, in cui taluno ha scortoun influsso germanico, e il patetismo dei volti edegli atteggiamenti» si armonizzano con icaratteri della scultura dell’area francese.All’interno del recinto del coro si addossava-no alle pareti longitudinali e allo jubè, due filedoppie di stalli lignei che permettevano aimonaci di seguire le celebrazioni religiose.L’interruzione della semicolonna addossata aipilastri polistili consentiva ai postergali (la pa-rete verticale degli stalli dei cori lignei), coro-nati da un baldacchino, di raggiungere un’al-tezza significativa di diversi metri da terra. Ilcoro ligneo spostato nell’abside nel corso delXVIII secolo, è stato definitivamente smonta-to e trasferito a Pollenzo nella chiesa parroc-chiale per volere di Carlo Alberto nel 1846.L’operazione, il cui incarico fu affidato aGabriele Capello, il Moncalvo, non fu indolo-re, in quanto per adattare gli stalli ai nuovispazi si rese necessario eliminare alcune parti.Una serie cospicua di pezzi furono trasferiti aTorino nel Palazzo Reale e di qui, nel 1871, alMuseo Civico di Arte Antica di Palazzo Ma-dama, dove trovarono una definitiva colloca-zione nell’allestimento voluto da Vittorio Via-le nel 1932, e ora ripristinato nell’ambito delrecente intervento di recupero delle collezionimuseali nella Sala Staffarda.Tra i pezzi torinesi si conservano due simmetri-ci gruppi angolari, provenienti dalla zona adia-cente all’antico jubè, composti da cinque stallimaggiori e parti minori, ognuno concluso dal
L’adeguamento liturgico degli arredi della chiesa in età moderna
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lato del passaggio, da un’alta fiancata intaglia-ta e traforata, con la rappresentazione dell’Al-bero di Jesse, un’iconografia diffusa in Fran-cia e nelle Fiandre tra Quattrocento e Cin-quecento, e nella parte inferiore di un santoabate con la mitra tra due monaci in preghie-ra. L’altra fiancata è decorata con tre sequen-ze verticali della vita di Maria: l’Annun-ciazione, la Natività di Gesù e l’Assunzione.Nei due gruppi rettilinei di stalli torinesi,composti ognuno da tre maggiori e tre minorichiusi da fiancate di ridotta altezza, si ritrovarappresentata l’iconografia dell’Annuncia-zione attraverso le figure dell’Angelo e dellaVergine, che in origine si fronteggiavano l’unacon l’altra. Tra i diversi pezzi conservati sidistinguono altre due fiancate intagliate e tra-forate con scene rappresentanti una candela-bra che regge, tra volute floreali, una Verginecon il Bambino, in basso la figura di sanGiovanni, e un albero allegorico nella partesuperiore; in quella inferiore, all’interno di
due nicchie sono presenti san Pietro e sanPaolo. L’albero spoglio è popolato di angiolet-ti che cacciano animali di diverse specie, leg-gibili nella simbologia dei vizi e delle virtùpresenti nel bestiario medievale. Delle figuredi diavoli coronano la scena nella parte supe-riore. I temi ricorrenti nell’iconografia del coro,legati alla vita della Vergine e alla rappresen-tazione simbolica di vizi e di virtù, si riscon-trano nella tradizione cistercense strettamentelegata al culto mariano che ritorna anche nellapala d’altare. L’apparato decorativo degli stal-li, arricchito da sculture a tutto tondo di dra-ghi, chimere, centauri, sfingi e un tritonecavalcato da una sirena, rientrano pienamentenel mondo figurativo tardogotico.Gli elementi gotici contagiati da partiti deco-rativi rinascimentali si riscontrano in alcuniarredi d’oltralpe datati verso il 1530, come glistalli del coro di Brou di maestri franco-fiam-minghi (Gentile 1999). Il cantiere complesso e
articolato del coro ligneo di Staffarda ha vistoimpegnate maestranze di diversa mano e for-mazione con riferimenti ascrivibili all’ambitofrancese. Se l’Albero di Jesse è stato avvicina-to ad un pannello ligneo con la stessa rappre-sentazione conservato al Museo di Cluny diParigi, di carattere borgognone e con una cro-nologia legata al regno di Luigi XII, le rigidefigure umane si accostano, invece, ai rilievi deicori rintracciabili nella Francia orientale e nel-l’are alpina (Gentile 2002). Alla scultura della Champagne della primametà del Cinquecento sembrano rifarsi la can-delabra con l’esile Madonna che s’inchina conil Bambino e le sculture di san Giovanni, sanPietro e san Paolo della fiancata con l’alberoallegorico, e alcune figure di piccole dimen-sioni allungate e avvolte in vesti con panneggi.Piretta propone di riferirsi per le stesse parti-ture a maestranze della Piccardia, regioned’origine di molti maestri scultori attivi suc-cessivamente in Provenza. In questo modo, ilcommittente Giovanni Ludovico avrebbeoperato con carattere di forte continuità versole scelte dei suoi predecessori che già si eranorivolti a maestranze piccarde come lo stessoHans Clemer (Piretta 2008, p. 431).Le tarsie che decorano i postergali degli stallimaggiori, definite da spazi prospettici tipicidella tradizione di ambito lombardo della finedel Quattrocento, sono da attribuire allamano di un artista subalpino o padano(Gentile, 1996, 1999). Un recente parallelo trail coro di Staffarda e le porte lignee della cat-tedrale di Saint-Sauveur di Aix-en-Provence èstato suggerito, sottolineando l’origine del-l’opera come «incontro e confronto fra goticoe proposte di matrice rinascimentale» (Piretta2008, pp. 430-431). I numerosi artefici attivinel cantiere del coro ligneo di Staffarda sareb-bero, dunque, del sud della Francia, bacino diraccolta di artisti provenienti da differentiaree del nord della regione. Alla stessa manosono da attribuire anche le figure intagliatedella pala dipinta da Pascale Oddone e ilCalvario ligneo, nella navata laterale dellachiesa (Gentile 2008). Ad una fase cronologica leggermente prece-dente, ascrivibile agli anni venti del XVI seco-lo e alla stessa bottega, sembrano risalire ilPulpito ligneo degli anni Venti del XVI secolo
Pala d’altare di Pascale Oddone: le scene della partecentrale sono racchiuse in spazi d’impostazione rina-scimentale
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pulpito ligneo conservato nella navata centra-le, lato nord della chiesa, e i tre stalli del corospostati anch’essi a Pollenzo all’interno delcastello e successivamente pervenuti al MuseoCivico di Torino insieme al resto del coro. Glistalli sono definiti da alti postergali e baldac-chino, realizzati a finissimo intaglio con moti-vi a finestroni, accolades, fogliami frastagliati edentelli, rintracciabili nel gusto maturo delgotico flamboyant (Gentile 1999). La funzionedel pulpito è legata alla predicazione rivolta aifedeli e al personale laico dell’abbazia che nonaveva accesso al coro. Alla base del pulpito,ben visibile dai fedeli nella navata, si conservauno scudo con lo stemma dei Saluzzo riferibi-li sia alla committenza di Giovanni Ludovicosia al patronato che i marchesi esercitavanosull’abbazia (Gentile 2004). La grande pala d’altare scolpita e dipinta conle sue finiture dorate attraeva lo sguardo deifedeli attraverso lo spazio del coro racchiusonel tramezzo, ma lasciato aperto nel centroper convogliare la vista sull’opera posizionatasopra l’altare maggiore. La struttura centrale,interamente scolpita, è racchiusa in spazi digusto rinascimentale scanditi in tre livelli conquattro nicchie nel primo, due nel secondo euna nella parte terminale. I sette fornici rac-colgono scene definite da piccole figure ligneedorate. La tematica delle piccole scene è lavita della Vergine ricollegandosi alla tradizio-ne mariologica cistercense e alle rappresenta-zioni del coro ligneo. Le figure sembrano rife-rirsi alla stessa bottega dello scultore del grup-po della Crocifissione e di parti del coro; lapropensione alla miniatura avvicina la parteinterna della pala a quelle analoghe di matricefiamminga (Gentile 2002). La struttura e la plastica architettonica dellacassa sembrano avvicinarsi ai modi degli inta-gliatori piemontesi e lombardi vicini ad un gustoclassico, che si riscontra anche negli ornamentidella pala della Madonna della Misericordia,dipinta da Oddone Pascale nel 1535 per il SanGiovanni di Saluzzo (Caldera 2008a).Nella predella si conservano una serie di tondidipinti con scene della vita della Vergine e delCristo. Il tutto è racchiuso in una cassa defini-ta da un’alta trabeazione dorata e da un fregiosuperiore a volute. La struttura aperta mostra
4 pannelli dipinti nella parte anteriore e altret-tanti figurano a sportelli chiusi. Le immaginicon scene della vita di Cristo e di Maria e disan Benedetto, san Bernardo e l’Annuncia-zione in quella posteriore, portano la firmadel pittore Oddone Pascale di Trinità diSavigliano e la data 1531. Un’ulteriore iscri-zione con l’anno 1533 si rintraccia nei duemedaglioni raffiguranti Davide e Isaia; si trat-ta probabilmente del momento conclusivo delcantiere artistico per la realizzazione dellamaestosa pala d’altare. L’attività del pittoresaviglianese indagata da numerosi studi nelcorso degli ultimi anni, risente delle esperien-ze di Defendente Ferrari e di GirolamoGiovenone nella definizione dei volti, nellagentilezza dei gesti e delle espressioni, e nelcangiare della gamma cromatica. Le figure deiDottori della Chiesa e dell’Annunciazionesono invece inseriti in una imponente quintaarchitettonica che riprone temi cari aGandolfino da Roreto presente a Saviglianocon un polittico per la chiesa di San Pietro neiprimi decenni del XVI secolo (Baiocco 1998,Caldera 2008a).Il recente restauro della pala d’altare ha per-messo di verificare le numerose integrazioni
accorse all’opera nel corso dei secoli. In tuttele grandi fasi dei restauri che hanno interessa-to la chiesa di Staffarda, sembra si sia interve-nuto anche sulla pala, in modo particolaresulla parte di scultura lignea, tanto che pocodell’apparato plastico si può dire originale(Ciliento 1999). La relazione scritta da CarloBorda, regio ispettore degli scavi e monumen-ti del circondario di Saluzzo, a seguito delsopralluogo del 29 luglio 1895, documenta ilprecario stato di conservazione dell’opera diOddone. Egli afferma: «È peraltro a deplora-re che sì cospicua opera d’arte abbia soffertoper le ingiurie del tempo e degli eventi […],poiché molte delle figurine in legno sonomancanti, altre sono monche o deturpate etutto il trittico è tenuto in tale stato di sordi-dezza e noncuranza, che di certo non onorachi ha la fortuna di possederlo. Aggiungasiche l’enorme mole del trittico trattenuto agrande elevazione dal suolo con semplicimensole di legno ormai vetuste presenta uncontinuo pericolo di rovinare e di sfracellarsiinteramente, né poi a quella distanza dal pavi-mento può essere ammirato dai visitatori nétenuto in perfetto stato di conservazione enettezza» (Macera 1999). La descrizione del-
Affreschi dell’abside con una fascia inferiore a velario, una parte a grisaille dipinta a bugnato, raccordata dauna decorazione ad intreccio su sfondato giallo
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l’ispettore ha suscitato un certo interesse vistoche sono testimoniati dalle fonti gli interventidegli anni 1919-1927 ad opera dei restaurato-ri Carlo Cussetti e Francesco Medici. Unaconsiderevole campagna di ricostruzione del-le figure dorate deve essersi svolta nei cantierisettecenteschi di committenza sabauda, aseguito degli ingenti danni subiti anche dagliarredi sacri della chiesa durante gli eventi bel-lici della fine del XVIII secolo. Il posizionamento del polittico all’interno delvano absidale non è casuale, ma è il frutto diun preciso disegno che porta anche alla ride-finizione delle aperture verso l’esterno, vistoche gli sportelli aperti coincidono perfetta-mente con lo sguincio delle finestre. È possi-bile ipotizzare che lo spostamento delle fine-stre, visibile sulla muratura e rilevato daBertea, che riporterà le aperture nella loroposizione originaria, negli anni venti del XXsecolo, sia stato necessario per permettere ilribaltamento delle porte della pala, anche sequesto avveniva solo nelle occasioni solenni,in concomitanza con le principali celebrazionidel calendario liturgico.L’abside della chiesa di Staffarda propone unciclo di affreschi a carattere decorativo, forte-
mente riplasmato negli anni venti del No-vecento, con temi figurativi ricorrenti nei can-tieri signorili del marchesato di Saluzzo, tra lafine del XV e l’inizio del XVI secolo. Lasuperficie dell’abside, divisa dalle tre grandimonofore, è decorata con una fascia inferioretrattata a velario, una parte a bugnato a grisail-le raccordata da una decorazione ad intrecciosu sfondato giallo, conclusa da una fascia sufondo arancio con racemi e spirali vegetalifino all’imposta della semicupola. Il catino ab-sidale è arricchito di un cielo azzurro dipintocon un sole raggiante nel centro, che ripropo-ne uno dei temi araldici ricorrenti in tutti icantieri di Ludovico II e dei suoi familiari,dalla cappella marchionale di Revello, all’absi-de di Sant’Agostino, cantiere di Hans Clemer1500-1504, e alla cappella Cavassa in San Gio-vanni (Gentile 2004, Beltramo 2009, Pianea2003).Gli intrecci su sfondo giallo recuperano quan-to realizzato da Hans Clemer nelle storie diDavid nel cortile d’onore di Casa DellaChiesa, tra il 1500 e il 1507, mentre la decora-zione a grisaille in bugnato è vicina a quellaritrovata nel cortile interno della Castiglia neirecenti lavori di restauro (Pianea 2002a). La
partitura architettonica riprende un’analogasuddivisione dello spazio che lascia spazionella parte interna a trofei di armi per il castel-lo di Saluzzo e rosoni nella chiesa di Staffarda. La più ricca e articolata decorazione a grisail-le su fascia rossa con racemi vegetali, masche-roni, nastri svolazzanti, candelabri e figuremostruose le cui code si trasformano in giralifitomorfi, ripropone quanto presente nellacappella Cavassa in San Giovanni della metàdegli anni venti del XVI secolo. Anche questointervento pittorico, in qualche modo prepa-ratorio alla pala di Pascale Oddone, è da ascri-versi ai primi due decenni del secolo e allacommittenza di Giovanni Ludovico. Si ripro-pongono molti dei temi pittorici e decorativiin uso nella corte marchionale saluzzese,mostrando un perfetto sincronismo con i tem-pi e un carattere di continuità con le scelteoperate da Ludovico II e da Margherita diFoix, nel segno del linguaggio pittorico diHans Clemer. L’ultimo rilevante intervento di rinnovo del-l’apparato liturgico della chiesa di Staffarda,risalente alla prima metà del Cinquecento, è ilretable fiammingo intagliato, dorato e dipinto,ascrivibile ad un periodo compreso entro ilquarto decennio del XVI secolo. La prove-nienza sembra essere testimoniata dai marchidi garanzia di Anversa presenti all’esternodella cassa sul lato destro. La diffusione intutta Europa di queste opere fiamminghe, inmodo particolare in Germania e in Francia,potrebbe confermarne l’esistenza a Staffarda,visti gli orientamenti francofoni della commit-tenza marchionale attiva nel Saluzzese (Gen-tile 1999). Il retable venne spostato a Pollenzoall’interno del castello nell’ambito della politi-ca di Carlo Alberto di recupero di opere d’ar-te di particolare pregio per allestire chiese eresidenze sabaude (ASOM, Staffarda, m. 50,fasc. 1280, 1843-1847, Traslocazione nel corodella chiesa di Pollenzo degli stalli esistenti inquello dell’antica Abbazia di Staffarda). Re-centemente acquisito sul mercato antiquariocostituisce parte delle collezioni del MuseoCivico di Torino.Il responsabile di questa regia organica «inte-sa ad articolare e integrare lo spazio liturgicocon un sistema di strutture e immagini», in un
Decorazione dell’abside a grisaille su fascia rossa, con racemi vegetali, mascheroni e figure mostruose le cuicode si trasformano in girali fitomorfi
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arco cronologico compreso tra il secondo e ilquarto decennio del XVI secolo, sembra esse-re l’abate commendatario Giovanni Ludovicodi Saluzzo (Gentile 2001). Agli inizi degli anniventi, egli raggiunge la maggiore età e la con-seguente autonomia che gli permise di acce-dere ai cospicui fondi derivanti dal patrimo-nio fondiario dell’abbazia. Giovanni Ludovi-co poteva quindi procedere agevolmente conil rinnovo dell’apparato liturgico della chiesasecondo canoni artistici aggiornati ai primidecenni del secolo. Ma il committente nonriuscì a seguire con attenzione e costanza l’e-volversi dei cantieri artistici in quanto, a par-tire dal 1526, venne rinchiuso in diversi castel-li del Marchesato e a Parigi fino al 1536. Il coro e l’ancona dell’altare vennero portati acompimento durante la prigionia francese diGiovanni Ludovico, sotto l’egida del prioredel monastero, vista l’impossibilità dell’abatedi seguire personalmente le vicende artistichein corso. Anche il retable fiammingo dovetteessere commissionato ben prima del 1538,data della rinuncia del titolo di abate com-mendatario da parte di Giovanni. Le fontinon ricordano tra i suoi immediati successorinessuno particolarmente attento e vicino allevicende artistiche di Staffarda. Il ruolo diGiovanni Ludovico, abate commendatario eprezioso committente per l’abbazia nei primidecenni del Cinquecento, s’inserisce a pienonella tradizione che vede in tutta Europa figu-re di grandi mecenati occupati ad incrementa-re il corredo artistico delle chiese e delle abba-zie di cui erano titolari. L’esempio diMargherita d’Austria che investe per arredarela chiesa mausoleo di Brou, destinata allasepoltura propria e del marito Filiberto diSavoia, officiata da una comunità di cistercen-si, costituisce un utile elemento di paragone(Gentile 1999).Nell’intervento di riplasmazione della chiesa eadeguamento dell’apparato liturgico, legatoalla committenza dei Saluzzo, rientra anche lafacciata della chiesa. Un nuovo ciclo di affre-schi, notevolmente ripreso dai restauri diBertea, trasforma l’aspetto medievale del pro-spetto d’ingresso in un maestoso arco trionfa-le a tre fornici, con finte architetture dipintenello spazio superiore al portico d’ingresso
della chiesa. I tre archi incorniciati da volte abotte a cassettoni racchiudono scene ambien-tate in un paesaggio dove, nella parte centra-le, gli apostoli dipinti a monocromo assistonoall’assunzione in cielo di Maria e nella partedestra pregano sul sepolcro della Vergine. Ilfornice sinistro, con un’analoga suddivisionespaziale, non conserva la raffigurazione pitto-rica originaria. Staffarda con la committenzadei Saluzzo, diviene negli anni trenta “il luogodove si avvertono più chiaramente le primeaperture verso il manierismo”, come confer-ma la presenza della pala di Oddone Pascalenegli stessi decenni (Caldera 2009).Alla fase storica compresa tra la fine del XV el’inizio del XVI secolo si deve far risalire ilrilevante cantiere architettonico che cambiò laconfigurazione interna della chiesa, arricchen-do la navata laterale nord di una serie di cap-pelle laterali, testimoniate nell’iconografia sto-rica settecentesca e demolite durante i restau-ri del XIX secolo.A questo momento sarebbe, inoltre, da ascri-vere anche l’intervento relativo alla trasforma-zione delle monofore aperte nelle pareti delcleristorio e delle navata sud, con le finestreovali, occultate e trasformate dal progetto diGerolamo Re dell’inizio del XVIII secolo.Infatti nella relazione nel 1713, l’architettoprevede la sostituzione delle finestre ovali esi-stenti in aperture semicircolari con un lin-guaggio maggiormente consono ai temi delbarocco (ASOM, Staffarda, 1711-13, m. 10,fasc. 276). La chiesa è stata riconsacrata nel 1506 comeattestava un’iscrizione, oggi scomparsa, marilevata da Casalis (1847), dipinta sul murod’ingresso della sacrestia. L’evento dellanuova consacrazione della chiesa è statoseguito dal rito di murare nei pressi dell’alta-re una pergamena a ricordo della dedicazionedella chiesa (Donadei 1827). Il documento furitrovato dal parroco Gioffredo Donadei, nel1826, a seguito dei lavori condotti nel pavi-mento del presbiterio, «vicino alla sommitàdel coro» nei pressi delle fondamenta di unaltare. Oltre alla pergamena furono rintraccia-te diverse reliquie «secondo l’uso antico». Iltesto del documento fu riportato sul murodella sacrestia e ricordato anche da Savio
(1932). La nuova consacrazione della chiesafu celebrata da Baldassarre Bernezzo, vicariogenerale dell’arcidiocesi di Torino, conceden-do un’indulgenza per la visita della chiesa nel-l’anniversario commemorativo. La data del 1506 si ritrova anche incisa sul-l’acquasantiera in pietra collocata all’ingressodella chiesa, confermando il momento digenerale riallestimento della chiesa.
Alla fine del XVII secolo Staffarda subiscegravi danni a seguito delle guerre tra il ducatodi Savoia e il Regno di Francia. Nell’estate del1690 le truppe del maresciallo Catinat ebberola meglio sull’esercito piemontese, e il Saluz-zese fu oggetto di azioni vandaliche e di di-struzione. Anche l’abbazia di Staffarda fudanneggiata dagli incendi e dal saccheggiooperato dai militari francesi il 1 agosto, pochigiorni prima della battaglia decisiva avvenutanei pressi di Staffarda il 18 dello stesso mese.Nella descrizione del priore al cardinaleD’Estrèes, abate commendatario, del 4 otto-bre 1690, si legge tutta la drammaticità deigiorni di guerra: i soldati francesi «bruciate lesacre reliquie e candelieri, rubarono la mede-sima Pisside col Santissimo in essa racchiuso,e dopo aver saccheggiato il Monastero, l’in-cendiarono» (Savio 1932, p. 136).La fine della guerra portò ad una fase di rico-struzione voluta dal duca Vittorio Amedeo II,come ricorda la lapide all’interno della chiesa,che operò stanziando finanziamenti specificiper le istituzioni monastiche colpite daglieventi bellici, e anche Staffarda e Casanovarientrarono nel piano di recupero (Occelli2006). I lavori interessarono sia la chiesa sia ilcomplesso monastico. Il termine dei restauriviene segnalato da un lapide che Casalis(1847) ricorda posizionata sulla porta diaccesso al chiostro, oggi murata nella contro-facciata della chiesa. Nel 1716 si poteva direconclusa la prima fase del cantiere che, graziealla munificenza di Vittorio Amedeo II, attri-buiva un nuovo decoro alla chiesa, all’altare,alla sacrestia e al campanile, ma anche unaumento delle rendite e un incremento delpatrimonio della biblioteca monastica (SegreMontel 1994, 1999). Parte del finanziamentoper la ricostruzione si deve anche al cardinale
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D’Estrées così come ricordava un’epigrafe nonpiù visibile (Savio 1932).Gli interventi proseguirono per i decenni suc-cessivi interessando diverse parti del comples-so e del territorio circostante: si riplasmaronogli edifici residenziali monastici e nel contem-po si attuò una campagna di bonifica dellearee paludose circostanti.Un’altra iscrizione dipinta nel 1734 di frontealla scala del dormitorio dei monaci ricorda iltermine del cantiere, necessario per recupera-re le fabbriche monastiche che suscitavanorammarico per il “vetustas squallore”.I lavori di restauro condotti nella chiesa dal-l’architetto Carlo Gerolamo Re sono docu-
mentati da una serie di disegni e di descrizio-ni rintracciate negli archivi di Stato di Torinoe in quello della Fondazione Ordine Mau-riziano. Si tratta di un disegno datato 1711 edi una relazione di visita risalente al 1710, fir-mati da Carlo Gerolamo Re (ASTo, Ministerodelle Finanze, Tipi sezione II, n. 244, Indicedella chiesa abbaziale di Staffarda, e ASOM,Staffarda, 1711, m. 10, fasc. 276, Pianta dellachiesa abbaziale di Staffarda col parere coloritoin giallo per il rimodernamento della medesimae in rosso sono le muraglie vecchie del corpod’essa da me fatto sotto li 9 settembre 1711) neiquali sono evidenti gli interventi da attuareper restaurare la chiesa.La planimetria del 1711 rappresenta il proget-to ideato da Re con le indicazioni a coloridegli interventi di nuova costruzione e lepreesistenze. La lettura della relazione e lostudio del progetto permette di attribuire aquesto cantiere diversi elementi: la creazionedi due cappelle laterali, la sistemazione dell’al-tare maggiore alla romana, secondo il proget-to di Antonio Bertola nel 1712, eseguito dalpiccapietre Antonio Casella (ASOM, Staffarda,m. 10, fasc. n. 276, 9 settembre 1711 a 17 giu-gno 1713), la modifica delle finestre che illu-minano il cleristorio, variando la geometriaovale in semicircolare, la costruzione di unfonte battesimale e il posizionamento del coroligneo nell’abside centrale dietro all’altaremaggiore. Nel preventivo di spesa, redatto nel1713, si specifica che la trasformazione dellefinestre prevede la rottura delle undici apertu-re esistenti della navata della chiesa «perridurle da rotonde a semicircolo» (ASOM,Staffarda, m. 10, fasc. n. 276, 9 settembre 1711a 17 giugno 1713, Pianta della chiesa abbazia-le di Staffarda, col calcolo dell’Architetto CarloGerolamo Re, della spesa occorrente in ripara-zioni e ricostruzioni di essa).A fronte della realizzazione di tutti questiinterventi, la proposta di rialzare il pavimentodella chiesa con la creazione di voltini su pila-stri, fornendo la giusta ventilazione alla partesottostante tramite alcune aperture, rimaneun’idea progettuale non portata a compimen-to (Di Piramo, Fiorini, Sansotta 1999). Daidocumenti emerge che le strutture della chie-sa necessitano di ulteriori opere di consolida-
mento, e le coperture sono da rifare, a seguitodei danni arrecati dalla battaglia del 1690. Gliarchi rampanti sul fianco sud e nord dellachiesa risultano lesionati in alcuni punti, cosìcome sono registrate delle fessurazioni nellevolte della chiesa. Erano previste anche duenuove costruzioni legate alle necessità dellacomunità monastica: una sacrestia di maggio-ri dimensioni e un atrio a tre arcate da formar-si accanto alla chiesa. Della realizzazione del-l’atrio non rimane traccia nella documentazio-ne d’archivio, mentre la sacrestia viene am-pliata nei decenni successivi come testimoniauna planimetria della prima metà del XVIIIsecolo (ASOM, Staffarda, m. 10, fasc. n. 276,9 settembre 1711 a 17 giugno 1713, n. 269, 20ottobre 1710 e 1711, e Pianta delle fabbrichedel recinto di Staffarda, [ante 1749]). La nuova caratterizzazione dell’arredo liturgi-co nello spazio presbiteriale della chiesa pre-vede, oltre all’altare barocco, una recinzionein ferro per la balaustra che racchiudeva l’areasacra in sostituzione di quella in pietra presen-te il cui disegno è attribuito a Gian GiacomoPlantery (Cavallari Murat 1957). L’altare mag-giore di Antonio Bertola rimase nella chiesafino ai restauri dei primi decenni del XX seco-lo quando venne smontato e trasferito a Pol-lenzo insieme a parte degli stalli del coro. Ladefinizione dell’altare maggiore esistente “allaromana” fornita da Gerolamo Re è l’indice diuna tradizione, ormai considerata superatanel periodo barocco, che richiama le basilichepaleocristiane dove l’antica schola cantorumera posta di fronte all’altar maggiore circon-data da transenne. Nel 1749 i due arconi a sud e i tre posti lungoil prospetto nord, devono ancora essere restau-rati, così come testimonia il “calcolo delle ripa-razioni dei suddetti cinque archi” allegato allarelazione della visita dello stesso anno (ASOM,Staffarda, m. 18, fasc. 423, 1749).
Acquasantiera in pietra con la data della riconsacra-zione della chiesa (1506)
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All’inizio del XIX secolo si colloca la terza fasedei restauri che hanno interessato la chiesa diSanta Maria. A seguito dei due terremoti, del1801 e del 1814, si dovette procedere ad alcu-ni lavori strutturali di particolare rilevanza vistele pessime condizioni di alcune parti dell’edifi-cio (Archivio Diocesano Saluzzo, Saggi antichie moderni sopra l’abbazia e la parrocchia diStaffarda del parroco Donadei 1826-40, in Mo-mo 1999). Gli interventi documentati dal par-roco Donadei (1827), furono promossi dalconte di Gattinara, cavaliere dell’ordine mau-riziano, e rivolti al recupero di alcune partidella chiesa o del complesso. Si procedette allasostituzione della pavimentazione rintraccian-do la base dell’altare del 1506, al rivestimentodel portico d’ingresso tramite lesene di gustoclassico (ancora presenti fino all’interventodegli anni venti del XX secolo) e alla completaintonacatura delle pareti interne «in modo chedeposto il vecchio squallore la chiesa ha ricevu-to nuova decenza» (Donadei 1827, p. 47).Per la verifica della stabilità degli edifici, a se-guito dei danni riportati in occasione dei terre-moti, si richiede l’intervento di due professio-nisti di spicco del panorama torinese ottocente-sco: Carlo Bernardo Mosca e in un secondotempo Ernesto Melano, che a seguito di miratisopralluoghi si esprimevano con precise rela-zioni sugli interventi necessari. L’ingegnerMosca evidenziava la necessità di otturare lelesioni delle volte della navata destra, di risana-re la copertura e di creare un sistema, definitoa “cunetta selciata”, per risolvere il problemadell’umidità di risalita (ASOM, Staffarda, m.44, fasc. n. 1082, 27 giugno 1826). Portato a compimento il cantiere degli anniventi, si deve procedere ad ulteriori interventi
strutturali, inserendo delle chiavi in ferro nellevolte, a seguito di un successivo terremotoavvenuto nel 1828 (ASOM, Staffarda, m. 50,fasc. n. 1258, 14 giugno 1841, Registro Sessioni,vol. 61, 6 dicembre 1841, pp. 119.141.142).Il 13 agosto 1841 l’architetto Melano presen-tava un progetto per il risanamento del pavi-mento della chiesa, prevedendo di rialzare ilpiano con una struttura a volte sostenuta dapilastri. Egli sottolineava che la presenza diumidità nella chiesa, alla quale si accede scen-
dendo tre gradini, è dovuta alla falda acquife-ra posizionata a solo un metro dal suolo, cau-sando, in alcuni momenti, l’allagamento delpavimento. L’analisi presentata dall’architettosi completa con una descrizione storico-archi-tettonica della chiesa (ASOM, Staffarda, m.50, fasc. 1258, 27 ottobre 1841). La sopraelevazione venne portata a termine,rendendo inservibili gli altari sui quali si dovràintervenire nel 1850 (Di Piramo, Fiorini, San-sotta 1999).
Pianta della chiesa abbaziale di Staffarda, col calcolodell’Architetto Carlo Gerolamo Re, Archivio Storico Or-dine Mauriziano, Staffarda, m. 10, fasc. n. 276, 9 set-tembre 1711-17 giugno 1713
Disegno dell’altare di Antonio Bertola del 1712, Archi-vio Storico Ordine Mauriziano, Staffarda n. 10, fasc. n.276, 9 settembre 1711-17 giugno 1713
I cantieri di restauro della chiesa dell’Ottocento e del Novecento
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Dal rilievo del 1845, sono visibili alcuni parti-colari che denotano lo stato di fatto alla metàdel secolo, che ha mantenuto solo più unadelle cinque cappelle sul lato nord, aggettanterispetto al muro perimetrale. Dalla pianta èevidente la sezione maggiore dei pilastri versola navata nord, in precedenza non documen-tata dagli altri rilevatori.Il terremoto del 23 febbraio 1887 è la causa diulteriori danneggiamenti alla chiesa; la relazio-ne dell’ingegnere Ernesto Camusso registra lelesioni strutturali subite e le soluzioni intrapre-se con opere provvisionali (ASOM, Staffarda,m. 129, fasc. n. 1983, 28 febbraio 1887). Pochimesi dopo si completarono le opere di sotto-murazione degli archi al piano terra e si abbat-terono le tre volte al secondo piano della mani-ca est. L’11 maggio 1887 i restauri della chiesa,svolti dagli impresari Musso e Coppi, furonoportati a compimento. La situazione di degrado dell’orditura dellanavata maggiore del tetto era stata rilevata datempo, ma non era stato possibile intervenire
in maniera sostanziale. Alcuni pilastri in matto-ni a sostegno delle travi di colmo del tetto sonoancora presenti a testimoniare gli interventiprovvisionali di rinforzo attuati. Già ErnestoMelano nella sua relazione del 1841 aveva sot-tolineato le problematiche presenti dovute allacostruzione della struttura lignea principalecon semplici puntoni privi di catene e monaci econ una sola controcatena di rinforzo (ASOM,Staffarda, m. 95, fasc. 1731 bis, 1869-1880).Questa particolarità costruttiva deriva dal fattoche l’estradosso della volta, anche in corrispon-denza degli archi traversi delle crociere, checostituiscono il punto più basso della struttura,superava il piano d’imposta dell’orditura suimuri laterali. Questo aveva a suo tempo impe-dito l’inserimento di catene lignee trasversalialla base dei puntoni. Alcuni interventi aveva-no cercato di risolvere il problema tramite l’uti-lizzo di legature orizzontali e di staffature a rin-forzo dei puntoni revelatisi insufficienti.A seguito della relazione stesa dall’ing. Ca-musso, che evidenziava il degrado strutturale
della fabbrica inserendo anche le problemati-che riscontrate nelle coperture, l’ordine mau-riziano decise di procedere con un interventodi ripristino della statica dell’edificio. La com-mittenza affida il progetto per il rifacimentodel tetto all’ingegnere, che prospetta tre pos-sibili soluzioni. Nel primo caso si prevede unoschema strutturale simile all’esistente, ma dinuova fattura, mentre nella seconda ipotesi siprocede con la sostituzione delle antichearmature con capriate, rialzando i muri latera-li sino al colmo delle volte. La terza soluzione,poi adottata, propone di costruire due grandicapriate sui pilastri esistenti, in corrisponden-za del passo delle campate, collegando lecapriate tra di loro e ai muri di facciata trami-te travi di colmo. In questo modo le catenedelle capriate si trovano sopra gli archi traver-si delle crociere, nel settore più basso del-l’estradosso della volta (Momo 1999). Perpoter realizzare il progetto fu necessario rial-zare la muratura dei due prospetti laterali dicirca un metro e venti centimetri, innalzandoi pilastri di sostegno agli archi trasversali e aiparamenti murari perimetrali. Su questonuovo tratto murario si costruiscono delleaperture, più ridotte sul lato nord, e piùampie su quello sud, consentendo l’aerazionee l’illuminazione degli ambienti del sottotetto.Il restauro delle coperture può dirsi conclusonei primi decenni del XX secolo (ASOM,Staffarda, Chiese e cappelle, Ristauro tettochiesa, relazione dell’economo di StaffardaDonadio, 2 gennaio 1912).Nelle fotografie di inizio Novecento e nellapianta disegnata da Alessandro Goffi nel 1845,la chiesa presenta struttura e impianto architet-tonico analoghi allo stato attuale (Staffarda.Abbazia: interno della chiesa, Fondazione Mu-sei Civici, Archivio Fotografico, n. 218, in Mal-lè, 1973, ASOM, Mappe e cabrei e volumi diver-si, Staffarda [edifici], 41 arm. 8, Pianta del pia-no terreno di tutti i fabbricati componenti l’abi-tato di Staffarda, 24 dicembre 1845). Le apertu-re delle finestre dei prospetti laterali risultanodi forma semicircolare, l’area presbiteriale èdefinita dalla balaustra e dall’altare di Bertola,mentre sullo sfondo dell’abside emerge il tritti-co di Pascale Oddone che chiude la monoforacentrale dell’abside. La chiesa è interamente
Pianta delle fabbriche del recinto di Staffarda, [ante 1749], Archivio Storico Ordine Mauriziano, Mappe e Cabrei,Staffarda
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dipinta di bianco, con uno strato di intonacoche copre la muratura, mentre un alto zoccolonella parte inferiore decora pareti e pilastri. Il presbiterio, delimitato da una balaustra,occupa la navata centrale a partire dalla terzacampata, in posizione rialzata rispetto alla na-vata. L’altare marmoreo settecentesco è posi-zionato tra i sostegni della quarta campata; ilciborio sopra il tabernacolo è collegato da unascala a due rampe posta dietro l’altare.Lo spazio del coro è occupato da un doppiogiro di stalli lignei voluti da Carlo Alberto insostituzione di quelli originali portati aPollenzo nel 1846. Addossate alla facciata in-terna si trovano una bussola in posizione cen-trale e sulla destra, una scaletta in pessimostato di conservazione che permetteva di rag-giungere l’organo (Momo 1999). A metà dellenavate laterali si trovano due altari: a destraquello dedicato al Beato Amedeo, mentre asinistra rimane una cappella delle cinque ad-dossate al lato sinistro della chiesa, con l’alta-re di S. Antonio. All’esterno la cappella erariconoscibile nella tamponatura del murosotto al primo arco rampante. Una fotografianel 1865-1870 (Ferrari 1871), documenta ilprospetto nord con i finestroni a mezzalunaaperti sulle navate e i tamponamenti dellefalde del tetto che coprivano le cappelle sullafronte settentrionale. Un capitolo significativo per la storia dellachiesa e del monastero di Staffarda riveste ilXX secolo. Grazie alla politica di tutela porta-ta avanti dal primo segretario dell’ordinemauriziano, Paolo Boselli, presidente del con-siglio dei ministri negli anni della PrimaGuerra Mondiale, dal 1916 al 1917, molti deibeni di proprietà dell’istituzione sabaudafurono in quegli anni, oggetto di interventi diconservazione (Olivero 1927). Il pensiero chesottende i cantieri di restauro emerge da alcu-ni scritti del senatore Boselli, dove giudicacon toni duri, le scelte attuate in precedenza:«Malauguratamente nei due ultimi secoli,dove si volle restaurare si compì opera incre-dibile di profanazione e di devastazione. Sicoprirono con imbianchimenti e con sconcetinture le belle opere dei pittori antichi, sitrassero a rovina le opere mirabili dell’anticaarchitettura. Così avvenne nell’Abbazia di
Prospetto nord della chiesa prima dei restauri di Cesare Bertea (Boselli 1917)
Interno della chiesa intonacato nei primi anni del XX secolo (Boselli 1917)
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Staffarda, così in quella di S. Antonio diRanverso». Nella prefazione del volume sul-l’ordine mauriziano Boselli ripercorre le fasistoriche e costruttive dell’abbazia e ricorda:«Ma quando nel 1826 e nel 1848 si volle porreriparo ai danni del passato, si sconvolse l’ele-gante architettura, si oltraggiarono in quellaChiesa tutte le ragioni dell’arte. È quindinecessario compiere colà opera riformatrice,né la tralascerà l’Ordine Mauriziano, appenabasteranno le entrate alla spesa non lieve»(Boselli 1917). Il cantiere per Staffarda deveperò ancora attendere la conclusione delrestauro di Sant’Antonio di Ranverso e primache l’istituzione possa accollarsi le spese perun altro lavoro così significativo passerannosei anni. Nel giugno del 1922 l’ordine decidedi iniziare gli interventi e di affidare la direzio-ne al soprintendente Cesare Bertea che avevaappena concluso, per la stessa committenza, ilcantiere di Sant’Antonio di Ranverso e lavora-to a Saluzzo nel San Giovanni. Le linee pro-
grammatiche del cantiere sono ricostruibiligrazie alla cospicua documentazione conser-vata nell’archivio della Fondazione OrdineMauriziano e della Soprintendenza per i BeniArchitettonici e Paesaggistici del Piemonte.La volontà di Bertea e le scelte attuate, nonsempre lineari, ma che si adattano alla specifi-ca situazione, emergono dalla lettura dellacorrispondenza tra i due uffici coinvolti delcantiere, la soprintendenza e l’ordine (ASOM,Abbazia di Staffarda. Restauri Quadri dellavia Crucis, 1923-26), faldone 4299, e Abbaziadi Staffarda. Restauri – Preventivi (1923-27).In una lettera del 1 agosto 1923 e nel primopreventivo del luglio dello stesso anno, Berteaspecificava i caratteri metodologici impiegatinel cantiere, che dovranno seguire un’attendafase di analisi preliminare ai lavori e una cam-pagna di saggi condotti sui pilastri e sui murid’ambito della chiesa (Momo 1999). Gli esitidi questi primi studi evidenziarono sotto letinteggiature che ricoprivano la chiesa, alcunitratti di decorazione antica ritenuta da Berteaoriginale e di considerevole «importanza arti-stica». Le scelte operate furono rivolte nelladirezione di riportare l’impianto della chiesaalla sua conformazione originaria o ritenutatale a seguito delle ricerche condotte. Si pro-cedette alla riscoperta dell’antico pavimentorimuovendo quello di Melano nella metàdell’Ottocento, alla demolizione dell’altare diAntonio Bertola della metà del XVIII secolo ealla costruzione di uno nuovo sulle fondamen-ta di quello antico. Si decise, inoltre, condubbi e incertezze che prolungarono i tempidel cantiere, di scoprire le partiture murarie ele decorazioni, di riaprire le finestre tampona-te e di riportare quelle ricostruite in formeimproprie ai modelli ritenuti originari.La fase di conoscenza e le incertezze sullescelte da operare non sempre immediate por-tarono ad una conduzione lunga del cantiere,dal 1922 al 1928, nonostante le numerose sol-lecitazioni da parte della committenza. La prima fase dei lavori interessa la parte cen-trale della chiesa; vengono montati i pontegginelle prime tre campate della navata principa-le che permettono di proseguire i saggi e, alrestauratore Ovidio Fonti, di procedere con lacampagna di ripristino della decorazione a
partire dall’autunno del 1923 (Momo 1999).Fonti, che già aveva lavorato insieme a Berteaa Sant’Antonio di Ranverso (Curto 1981,Gritella 2001), si occuperà pochi anni dopodel reintegro degli affreschi nella chiesa di SanGiovanni (Beltramo 2009) e del cantiere nelDuomo di Torino negli anni 1926-28. In real-tà le volte e le pareti della chiesa non presen-tano un ricco apparato decorativo; in questosenso le aspettative di Bertea, che riteneva diritrovare sulle volte e sulle pareti «sotto letinte moderne» le decorazioni a motivi orna-mentali, rimarranno deluse in quanto la granparte delle murature presentano solo uno stra-to d’intonaco a calce (ASOM, faldone 4299,Abbazia di Staffarda. Restauri e Contabilità,1922-28). L’analisi diretta delle volte mostra la presenzadi numerose lesioni e dissesti a seguito del ter-remoto del 1887, che secondo la relazione dal-l’ing. Camusso sono state risarcite in manierasuperficiale nei cantieri della fine del secolo. Bertea consegna alla committenza una relazio-ne dettagliata sullo stato di conservazionedelle strutture di copertura con un nuovo pre-ventivo di spesa per far fronte ai danni strut-turali. A seguito delle indagini svolte, nell’au-tunno del 1923 si procede alla risarcitura deigiunti di malta di allettamento delle voltedella prima e della seconda campata dellanavata centrale e, in alcuni casi, soprattuttonelle prime tre campate, risulta necessarioricostruire alcuni tratti dei costoloni e delleunghie delle volte (Momo 1999). Il catinoabsidale richiede un intervento delicato diripresa delle lesioni, vista la presenza degliaffreschi cinquecenteschi. Una parte rilevante del cantiere di restauro diBertea è quella del ripristino delle semicolon-ne dei pilastri della chiesa. Nella primaveradel 1924 il direttore dei lavori forniva preciseindicazioni sulle operazioni da effettuare,campionature e confronto dimensionale deilaterizi in opera, per poter procedere alle inte-grazioni necessarie dove l’apparato murariodenuncia mancanze e lacune. Viste le quanti-tà di materiali necessarie per procedere allerisarciture sulle murature esterne e internedella chiesa, circa 8000 mattoni per i muriesterni e 3000 per le semicolonne interne, si
Absidi e campanile in una fotografia dell’inizio del Nove-cento (Boselli 1917)
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suggerisce alle maestranze di verificare l’oppor-tunità di far preparare i mattoni sagomati in for-nace prima della cottura, piuttosto che procede-re alla lavorazione direttamente sul posto(Momo 1999).
L’apparato decorativo della chiesa è oggetto diun intervento radicale volto, nell’indicazione diBertea, al ripristino della decorazione pittoricaantica, riportando a vista ciò che ancora si con-servava e integrando le parti lacunose (Letteradi Bertea al Gran Magistero dell’Ordine Mau-riziano, 4 dicembre 1923, ASOM, Faldone4298, cart. Abbazia di Staffarda, RestauriContabilità, 1922-28). Alcuni saggi effettuatiavevano portato in luce una decorazione suipilastri, ma si ipotizzava di trovare un apparatodi pitture murali sulle volte maggiormentesignificativo (ASOM, Faldone 4298, cart.Abbazia di Staffarda, Restauri Contabilità,1922-28). Nella realtà le pareti e le volte dellenavate non rilevarono grandi cicli pittorici: lafinitura ad intonaco accoglieva alcune fascedecorate in corrispondenza degli archi longitu-dinali e trasversali. Giovanni Vacchetta attivo nel vicino cantieredi restauro della chiesa di San Giovanni di Sa-luzzo, descriveva le pitture di Staffarda, presead esempio per il cantiere della chiesa saluzze-se, in quanto “doveva essere stata dipinta inmodo assai simile al S. Giovanni nello stessoperiodo e dove nel generale recente restaurotali pitture furono distrutte per mettere in valo-re quelle del periodo anteriore che apparveropiù consone colla ben conservata fabbrica dellachiesa” (Vacchetta 1931, p. 99, Beltramo2009). Il giudizio di Vacchetta sembra esserefinalizzato ad avvalorare il metodo d’interventoper San Giovanni che prevedeva la rimozionedelle ridipinture delle superfici interne dellachiesa. Contraddice quanto emerge dai docu-menti d’archivio, che testimoniano una presen-za scarsa di finiture superficiali per la chiesa diStaffarda ascrivibili all’età moderna. La reintegrazione delle coloriture del cantierenovecentesco sottolinea la cromaticità del late-rizio rispetto alla finitura ad intonaco a calcebianco, e la policromia delle partiture sui pila-stri e sui costoloni. I sostegni verticali, che arti-colano lo spazio della navata centrale, presen-
tano una decorazione a fasce orizzontali bian-che alternate ad altre più sottili grigie e rosse.Anche la coloritura del laterizio è stata ripresa,rendendo uniforme la superficie del pilastro.L’intervento a firma del pittore Francesco Me-dici è stato rilevante da quanto emerge dallalettura dei preventivi presentati (ASOM, faldo-ne 4299, Staffarda, Restauri Preventivi 1923-27); ad oggi risulta difficile comprendere l’enti-tà effettiva del cantiere, anche se tasselli di stra-tigrafia visibili sui pilastri mostrano una preesi-stenza molto più labile rispetto all’integrazione.Solo operando con un cantiere di conoscenzache precede una fase di restauro, sarebbe pos-sibile ricostruire meglio l’intervento dell’iniziodel Novecento. Gli archi longitudinali e trasversali, e i costolo-ni delle volte sono decorati con una bicromiache alterna partiture in bianco a quelle in mat-tone. In alcune campate i costoloni intervallanoil grigio con i corsi in mattoni dipinti. Sui bordie all’interno delle fasce la decorazione è arric-chita da sottili liste bianche o grigie. La decorazione assume valenze pittorichenelle pareti e sulla volta dell’abside centrale.Come asserito da Bertea il ritrovamento dellepitture originarie, risalenti alla riplasmazionedell’inizio del XVI secolo, ha permesso alrestauratore di reintegrarle sulla base dellapreesistenza. Le pareti sono dipinte con fini-ture a cassettoni e ornamenti a grisaille con unvelario nella parte inferiore della muratura,mentre la volta si illumina di un cielo azzurrocon stelle dorate con al centro un grande soleraggiante.
La volontà di ristabilire l’originario rapporto traarchitettura e luce della chiesa cistercense por-tarono Bertea ad occuparsi delle aperture dellachiesa, che nel corso dei secoli erano state tam-ponate o riplasmate, riaprendo le finestre chiu-se e ripristinando le geometrie originarie deltransetto, delle navate e delle absidi. La situazione si presentava differente tra i dueprospetti nord e sud, la testata settentrionale ele absidi. Nelle pareti laterali, a causa del rialza-mento del tetto, le monofore che illuminavanola navata centrale erano tamponate, ma eraancora leggibile la sagoma sulla muratura. Suiprospetti esterni erano state aperte le finestre a
profilo semicircolare ben visibili nelle fotografieantecedenti all’intervento di Bertea, cancellan-do le tracce delle precedenti aperture. Sul fron-te settentrionale e sulle absidi le preesistenzeerano maggiormente conservate e permetteva-no un intervento con migliori certezze. Bertea sceglie di esprimersi con un ripristinoche si integra con la preesistenza, anche conoperazioni d’integrazione in stile, non diffe-renziando ciò che è storicamente assestatocon la nuova architettura. Sulla navata centra-le vengono riaperte le monofore sulla paretenord, mentre su quella sud vengono ripropo-sti gli ovali rintracciati nei muri perimetralidelle navate centrale e laterale, che illuminanol’interno della chiesa. Sulla muratura esternadel prospetto nord l’intervento è perfettamen-te riscontrabile nel profilo della tamponaturain laterizi a vista che contorna la monoforariaperta.Sul prospetto sud, Bertea ripropose le finestreovali rintracciate nelle operazioni di pulitura,
Facciata della chiesa antecedente ai restauri di Ce-sare Bertea (Boselli 1917)
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lasciando il segno delle monofore e definendodegli stipiti dipinti nella parete in affacciosulla navata centrale e su quella laterale. L’abside centrale e quelle laterali sono stateoggetto di una fase successiva di restauro voltaa rinnovarne l’aspetto medievale sul modello diSant’Antonio di Ranverso così come sottolinea-to dal direttore dell’ordine mauriziano che, invisita a Staffarda, commenta: «I finestroni del-l’abside sono magnifici e danno alla chiesa unabellezza e un’importanza nuova» (Momo1999). L’apertura della monofora centrale, lospostamento e la ricostruzione parziale delledue monofore laterali, regalano un aspetto dimaggiore coesione allo spazio interno dell’absi-de dove di recupera anche l’apparato decorati-vo pittorico (ASOM, faldone 4299, Abbazia diStaffarda, Restauri – Preventivi (1923-27),Preventivo di spesa pei lavori di ristauro da ese-guirsi in economia alla Abbazia di Staffarda[…], 1923). Nonostante la segnalazione del-l’ispettore Carlo Borda del precario stato diconservazione della galleria cieca con colonni-ne dell’abside centrale, il soprintendente deci-de di non intervenire ricostruendo le partimancanti. Nel 1925 Borda suggeriva di proce-
dere alla «restaurazione artistica del bellissimofregio a colonnette di marmo bianco di stilelombardo che corona la parte superiore ester-na dell’abside della chiesa del quale mancanomolti pezzi alcuni dei quali certamente sotter-rati nel sottostante terreno» (Macera 1999).L’interno dello spazio absidale e presbiterialeviene ricomposto sulla base di quelle istanzestoriche che Bertea riteneva essere preesistentialle trasformazioni subite nel corso delSettecento e dell’Ottocento. L’idea progettua-le, chiara e precisa nelle sue componenti, pre-vede la liberazione della grande finestra centra-le dal tamponamento murario e dal politticoche la ostruiva, spostando la pala verso il pre-sbiterio. Le due monofore laterali sono stateriportate nella posizione originaria ed è statoriproposto l’impianto spaziale del coro con leantiche decorazioni. Eliminando l’altare baroc-co si annulla completamente l’intervento volu-to da Vittorio Amedeo II all’inizio del Sette-cento per recuperare gli spazi danneggiati dallabattaglia del 1690 e per adeguare l’arredo litur-gico ai nuovi canoni dell’età moderna.L’area presbiteriale viene smontata rimuoven-do il pavimento ligneo, voluto dal conte di
Gattinara nel 1826, la balaustra e l’altare; ven-gono riscoperte le fondazioni dell’anticamensa e su queste si impianta un nuovo picco-lo altare in mattoni in posizione arretratasotto al catino absidale. Su di esso viene posi-zionato il polittico in legno scolpito e doratoeseguito da Pascale Oddone (1531-1533).Per riportare l’interno della chiesa alle dimen-sioni e alla spazialità originaria, Bertea si trovaa dover affrontare ancora il tema della quotadel pavimento. Dopo l’intervento voluto daErnesto Melano nella metà dell’Ottocento,che ha portato ad una nuova altezza il pianodella chiesa, Bertea decide di ripristinare illivello iniziale riportando l’architettura alleproporzioni originarie. I basamenti degli ottopilastri centrali della chiesa, annegati nellasopraelevazione del pavimento, sono statiriportati in luce, esaltando la forte diversitàesistente tra quelli sul lato sinistro con unabase in pietra di maggiore altezza e larghezzarispetto a quelli presenti sul lato destro.Il pavimento viene rifatto integrando le partioriginarie recuperate con altre in mattoni aspina pesce, con battuto di calce, sabbia ecoccio pesto. Sul prospetto laterale nord rie-mersero le soglie antiche, le aperture e gliarchi tamponati con la realizzazione della cap-pelle laterali. In corrispondenza della contro-facciata, il portale di accesso centrale e quellolaterale destro sono stati raccordati con lanuova quota di pavimento da alcuni scalini incotto. La parete interna viene liberata dallabussola in legno, dalla cantoria e dall’organo,del quale si da indicazione di mantenerne lafacciata in locali interni del complesso.
Il restauro diretto dal soprintendente interes-sa anche l’esterno della chiesa. In un primomomento il progetto prevedeva interventilocalizzati nella zona absidale e nel nartece,mentre per la facciata erano stati ipotizzatisolo «i lavori necessari per alcune riparazionidel muro di facciata e per assicurare la conser-vazione degli avanzi di affreschi» (lettera del 1agosto 1923, ASOM, faldone 4299, Abbaziadi Staffarda. Restauri Quadri della via Crucis,1923-26). Non erano stati previsti interventisui prospetti esterni nord e sud, ad eccezionedella demolizione del fabbricato costruito in
Sottotetto della navata centrale della chiesa con le aperture realizzate nel primo decennio del XX secolo
CHIESA 81
adiacenza alla fronte del transetto meridiona-le. Il “coretto” permetteva ai monaci di offi-ciare in un luogo più salubre e meno umidodella chiesa, era un edificio costruito sopra iltetto del chiostro, lungo come il transetto ecoperto da una falda appoggiata al muro peri-metrale, lasciando a vista l’arcata a tutto sesto.Il locale era illuminato da due finestre a sud eaffacciato sul presbiterio tramite le due mono-fore inferiori del transetto. Era collegato aldormitorio dei monaci da un corridoio a duebracci che correva sempre all’esterno dellastruttura e sopra la falda e raggiungeva l’atriodella scala dei monaci.La facciata della chiesa all’inizio del XX secolosi presentava nettamente suddivisa nelle dueparti che la compongono con gradi di con-servazione differenti. Nella parte alta si legge-vano tracce significative degli affreschi cin-quecenteschi che Bertea intendeva restaurareper conservarne la testimonianza. L’ampioportico al piano terra e le murature della fac-ciata si rivelano gravemente compromesse daldegrado prodotto da trasformazioni in-congrue e dall’incuria. Le pareti erano rico-perte da uno strato di intonaco bianco analo-
go a quello riscontrato all’interno della chiesa.L’accesso al nartece era garantito dalla campa-ta aperta in corrispondenza dell’ingresso,mentre le altre quattro presentavano un murodi chiusura. I portali laterali erano tamponaticon forme e geometrie che non rispecchiava-no quelle del primo impianto, mentre i pilastridelle arcate verso l’esterno erano definiti daparaste con una cornice continua esito dell’in-tervento di riplasmazione del 1826.Il restauro di Bertea prevedeva nella parteinferiore, la pulitura con l’eliminazione del-l’intonaco, attuato nel marzo del 1924 e la ri-definizione dei portali e delle quote del pianoin corrispondenza con quanto attuato all’in-terno della chiesa. Il cantiere riprese in conco-mitanza con quello del chiostro, probabil-mente perché il direttore dei lavori attendevadi definire gli spazi interni della chiesa perprocedere in modo analogo per l’ingresso. Ilconsolidamento delle volte è stato uno deipunti centrali del complesso intervento: lacopertura smontata ha messo in evidenza l’or-ditura del tetto del nartece, fortemente degra-data, e l’estradosso delle volte, permettendodi analizzare lo stato di conservazione delle
vele e l’andamento degli archi a sesto acutodelle campate e dei costoloni. Dove si ritennenecessario si sostituirono parti della muraturao conci degli archi, integrando lacune e man-canze materiche, e riprendendo le chiavi divolta dei costoloni (ASOM, faldone 4299,Abbazia di Staffarda. Restauri – Preventivi,1923-27). I pilastri e il muro superiore delle arcate vieneliberato delle cornici e la muratura lasciata afaccia a vista. L’apparato scultoreo del portalecentrale è stato ripulito e ripristinato, l’in-gresso settentrionale rimane tamponato, vistala presenza del battistero all’interno che o-struisce il passaggio, mentre per quello meri-dionale si è decisa la riapertura utilizzandolocome ingresso secondario alla chiesa. L’altezzadel pavimento è stata riportata a quella origi-naria, riducendo la quota di circa 30 centime-tri e liberando le basi dei semipilastri. I dipinti murali della parte soprastante il nar-tece vengono restaurati dal pittore Mediciimpegnato all’interno della chiesa e nei lavoridel chiostro. Al degrado diffuso delle pitturea chiaroscuro con decorazioni a finti marmi eornati, si accompagnano gravi lacune nellezone del rosone centrale e lungo il perimetrodegli sfondati. Il risultato del restauro non sembra soddisfa-re Bertea che, nel 1928, scrive una relazione aseguito del sopralluogo a cantiere ultimato,indicando la necessità di riprendere la super-ficie a intonaco (lettera del 31 luglio 1928,Momo 1999). Nonostante le perplessità e-spresse, la committenza non ritiene di proce-dere in tal senso, affidandosi al passaggio deltempo e ai successivi restauri che avrebberorimediato alla scarsa abilità del restauratore.Alla fine del 1927 il complesso cantiere direstauro è concluso, come testimonia l’econo-mo Gribaudi che alla vigilia di Natale: «avver-to che dalle ore 24 del 24 corrente la chiesaparrocchiale di Staffarda funziona regolar-mente e in regola con le prescrizioni religiose[…]. Mi è giusto affermare che detto altare èdavvero maestoso ed imponente e come l’in-sieme della chiesa, ora completamente liberatadai ponti, sia veramente grandioso» (ASOM,faldone 4298, cart. 317, Chiesa di Staffarda Fab-bricato, 1916-27).
Sopraelevazione del tetto della navata centrale costruita nei primi anni del XX secolo
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Staffarda è tra le abbazie cistercensi piemon-tesi quella che ha conservato maggiormentel’impianto architettonico originario del com-plesso monastico. Il passaggio dalla commendaall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, nel1750, sotto diretta protezione sabauda, ha evi-tato quella dispersione patrimoniale e la fram-mentazione delle strutture che invece a coin-volto, nell’età moderna, molti altri monasteri.Le costituzioni e gli statuti dell’ordine cistercen-se sancivano alcune prescrizioni per la realizza-zione degli edifici monastici che non fornisconoprecise indicazioni sulla forma e sulle sceltecostruttive da adottare per questi spazi.La formazione degli spazi deriva più che altrodal consolidato monastero benedettino, ai qualii cistercensi fecero riferimento, stabilendo inmaniera specifica la disposizione degli spazi e lamodularità, pur assorbendo le specificità mor-fologiche del sito e costruttive delle maestranze.Un monastero, secondo le indicazioni previste,doveva essere realizzato in modo da essere auto-sufficiente, permettendo ai monaci di svolgere lavita cenobitica al suo interno e non uscire dalrecinto monastico. Doveva quindi essere dotato,principalmente, di acqua, di un mulino, di unorto, e dei laboratori per i diversi mestieri dasvolgere (Carità 1999a, Carità, Schomann 1999). I monasteri devono prevedere la costruzionedi grange per la produzione agricola, curatedai monaci conversi, e provvedere ad allevareanimali domestici utili al sostentamento del-l’abbazia. Le grange sorgono sulle proprietàfondiarie dell’abbazia ad una distanza noninferiore a due leghe di Borgogna, mentre lemandrie al pascolo non possono allontanarsipiù di una giornata dalla propria grangia.
La presenza di alcuni spazi specifici, senza iquali un’abbazia non poteva essere costituita,era considerato indispensabile per la vitamonastica: un oratorium (per le celebrazioniliturgiche e la preghiera comunitaria), il refec-torium (per consumare i pasti in comune), ildormitorium (per il riposo in comune), la cellahospitum (per l’ospitalità dei pellegrini) e laportaria (per il controllo della clausura),necessaria per stabilire un filtro tra la parte diclausura e il resto dell’abbazia. Fra tutti rive-stiva un ruolo di primo ordine il chiostro, lo
spazio centrale del monastero, intorno al qualesi dispongono tutti gli ambienti per i monaci,vero nucleo spirituale del complesso. Nei primi anni a seguito della fondazione diun nuovo cenobio, le strutture architettonicherivestono spesso un carattere di provvisorietà,con l’utilizzo di materiali precari e di dimen-sioni limitate, così come verificato per la casamadre Cîteaux.Dall’analisi delle fonti documentarie è possi-bile ricostruire la presenza di alcuni di questispazi, testimoniati in anni successivi alla fon-
Monastero
Il monastero: edifici per il culto e per il lavoro
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dazione del complesso di Staffarda, quando ilcantiere avanza nell’attuazione degli edificiconventuali. La costruzione del monastero procede neglianni sessanta e settanta del XII secolo, comesembrano testimoniare alcune citazioni docu-mentarie: tra il 1161 e il 1167 molti accordivengono conclusi nel monastero, che risultaconstructum seu edificatum nel luogo di Staf-farda (Savio 1932). Dai primi anni del XIIIsecolo i documenti attestano la presenza didiversi luoghi che caratterizzano la vita mona-stica del complesso di Staffarda. Tra questi nel1204 si ricorda un ricovero, infirmitorium,(Cartario di Staffarda, I, pp. 111-112, doc. 109,1204), che successivamente risulta distinto traquello destinato ai monaci, infirmitorium mona-chorum (Cartario di Staffarda, I, pp. 247-248,doc. 268, 1239; II, p. 98, doc. 486, 1264; II, pp.104-105, doc. 495, 1266), e uno analogo, ricor-dato a partire dal 1234, utilizzato per i viandan-ti e per i poveri dotato di un portico (Cartario diStaffarda, I, pp. 195-199, doc. 213, 1232; I, pp.243-244, doc. 236, 1239). La cura dei monaci edi tutta la popolazione afferente al monasteroera demandata ad un cirogico, presente anche
a Staffarda, come risulta dai documenti; nel1281 mastro Galvagno di Saluzzo dichiara dicurare tutti i malati ed essere disposto a veni-re a Staffarda ogni volta che gli sia richiesto incambio dell’affitto di una vigna. L’accoglienza per i poveri era uno dei compitidei monaci come attesta la presenza di unadomo pauperum e di un hospitale pauperum apartire dal 1248 (Cartario di Staffarda, II, p.102, doc. 493, 1265; II, p. 22, doc. 392). Lestrutture destinate ad accogliere i visitatorierano distinte a seconda del rango: i marchesidi Saluzzo e quelli di Busca avevano proprispazi adatti ad ospitare persone del loro ceto,provvisti di scuderie e di stalle e di tutto quan-to necessario alla famiglia marchionale (Car-tario di Staffarda, II, p. 14, doc. 380, 1247).L’hospitale monasterii garantiva, invece, acco-glienza a tutti i pellegrini e i viaggiatori cheavessero necessità di una sosta durante il lorocammino (Cartario di Staffarda, II, p. 1, doc.361, 1246). Alla cura dei viandanti erano destinati un grannumero di edifici nel complesso abbaziale diStaffarda; molti documenti testimoniano lapresenza di un hostale, concluso da un porti-
co e da un terrazzo in affaccio su di un cortilecon olmi, che assicuravano l’ombra nella sta-gione calda (Cartario di Staffarda, II, pp. 45-47, doc. 423, 1251; II, pp. 69-72, doc. 447,1255; II, pp. 95-96, doc. 482, 1264; II, pp.160-161, doc. 576, 1278).Nel complesso monastico erano presenti ancheuna sartoria, ricordata dal 1242, e un edificioper la tessitura entrambi dotati di un portico(Cartario di Staffarda, I, p. 162, doc. 265, 1219;I, p. 163, doc. 266, 1220; I, pp. 272-273, doc.298, 1243; I, pp. 154-155, doc. 155, 1217; I, pp.266-267, doc. 292, 1242; II, pp. 12-13, doc. 378,1247; II, p. 14, doc. 380, 1247; Merati 2007, pp.105-106, doc. 35, 1303).I portici caratterizzano molti degli spazi con-ventuali; oltre a quelli ricordati, il noviziato, nel1251, ne aveva uno definito “lungo” (sub porti-cu longa novitiarie, Cartario di Staffarda, II, pp.41-44, doc. 420, 1251), e anche il parlatorio,detto anche locutorium, posto a fianco dellacantina, era provvisto di una struttura antistan-te coperta (Cartario di Staffarda, I, pp. 240-241,doc. 259, 1238; II, pp. 59-60, doc. 437, 1254;II, p. 7, doc. 369, 1247; II, pp. 7-8, doc. 370,1247). Nel 1238 si concluse un atto di vendita
Galleria del chiostro manica sud adiacente alla chiesa Interno della galleria sud del chiostro con un tratto della copertura lignea originaria
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davanti all’auditorium conversorum (Cartariodi Staffarda, I, pp. 156-157, doc. 257, 1218).Al chiostro del monastero si accedeva tramiteuna porta ricordata a partire dal 1234 comeportam monasterii o claustralis nel 1287(Cartario di Staffarda, I, pp. 295-296, doc. 230,1245; II, p. 194, doc. 610, 1287).Savio ricorda anche la presenza di un edificioutilizzato per fabbricare le ostie per le cele-brazioni eucaristiche (Savio 1932).L’integrazione tra le fonti documentarie e l’ana-lisi delle architetture conservate permette didefinire meglio il quadro dell’evoluzione delmonastero di Staffarda. La realizzazione di edi-fici stabili seguirà i tempi dettati dalle disponi-bilità economiche dell’abbazia, ma alcuni ele-menti ricorrenti indicano una progettualità pre-definita che si trasferiva da abbazia a abbazia,dalla casa madre alla nuova fondazione. La ricostruzione degli spazi monastici è possi-bile pur essendo state numerose le trasforma-zioni accorse al complesso. La distruzione el’incendio che, nel 1690, hanno preceduto labattaglia di Staffarda, hanno profondamenteinciso sul complesso. Il blocco degli edificidisposti lungo i lati est e sud del chiostro risul-tano profondamente rimaneggiati dagli inter-venti del XVIII secolo, volti alla ricostruzionedelle gallerie del chiostro danneggiate dalleguerre. L’estetica medievale degli spazi intorno alchiostro è stata recuperata dal restauro diCesare Bertea negli anni venti del XX secolo;gli interventi, in alcuni casi rintracciabili, in
altri sapientemente mimetizzati, sono stativolti ad eliminare le superfetazioni ritenuteincongrue e al ripristino di parte dell’appara-to decorativo plastico e scultoreo. Diversa è lasituazione degli edifici agricoli che fanno par-te dell’ampio recinto costruito intorno all’ab-bazia; il loro uso continuo da un lato ne hagarantito la sopravvivenza, ma ha anche impli-cato una serie di trasformazioni funzionalidegli ambienti rurali.Il grande recinto che racchiude gli spazi sacri,rurali e commerciali era accessibile tramiteuna serie di porte, rintracciate nei documentidi inizio XVIII secolo, e denominate San Cri-stoforo, San Pietro e di Saluzzo. All’interno diquesto spazio si trovavano edifici deputatiall’ospitalità come la foresteria posta all’ester-no del recinto della clausura e utilizzata peraccogliere i pellegrini, il grande edificio situa-to nei pressi del bedale del mulino e a chiude-re sul lato sud la loggia del grano. L’ingresso èsegnato dalla torre della pusterla, contraddi-stinta dalla croce in facciata che permetteval’acceso da settentrione. Il canale del mulinocostituiva una delimitazione tra la grande areadegli insediamenti agricoli-pastorali e la partecon architetture di servizio. Tra queste, lamanica a ovest della pusterla presenta caratte-ristiche architettoniche di pregio e la criticapropone un antico uso legato all’ospitalità deipellegrini vista la vicinanza con una delleporte (Schomann 1969), oppure un suo utiliz-zo prossimo a quelle attività, come la tessitu-ra, segnalate dai documenti per Staffarda, ma
Piastrelle in cotto invetriate del pavimento del chio-stro antistante la sacrestia e l’ingresso della chiesa
Bifora con colonnina e capitello fogliato di fronte all’ar-marium e alla sacrestia
Prospetto esterno della sala capitolare con portale diaccesso e le due trifore laterali
che non hanno ancora trovato una precisacollocazione. Il claustrum dell’abbazia, la parte della clau-sura accessibile solo ai monaci, viene costrui-ta a fianco della chiesa sul lato sud, come aCasanova e a Rivalta Scrivia. Il blocco orien-tale comprende al piano terra la sacrestia, lasala capitolare, un passaggio aperto versooriente, e la sala dei monaci; una scala posta afianco della sala capitolare permetteva l’ac-cesso al dormitorio comune situato al pianosuperiore con un accesso diretto dalla chiesa.L’articolazione degli ambienti, così comedescritti in corrispondenza del lato est delchiostro, segue un andamento canonico, chesi riscontra nella maggior parte dei monastericistercensi, esito della tradizione benedettina,aggiornato alle nuove esigenze funzionali.L’ambiente della sacrestia era in origine diminori dimensioni; appartiene a questa primafase costruttiva la colonna con capitello fo-gliato in parte tamponata nello spessore del-l’angolo del muro di attacco con la chiesa. Ilvano originario arrivava fino all’imposta dellacurvatura dell’abside laterale e una risega nelmuro interno della sacrestia testimonia l’ori-ginario attestamento. Le coperture a crocieraacuta costolonate sono l’esito di una delle fasidi restauro (probabilmente quella novecente-sca), che ha ripreso anche la facciata dellasacrestia vero l’esterno con le tre aperture.L’ingresso della sacrestia verso il chiostro èstato tamponato, definendo un vano proba-bilmente utilizzato come armarium. La pavi-
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mentazione del primo tratto della galleriaorientale presenta ancora le mattonelle incotto invetriate di colore giallo, verde e nero-marrone. Si tratta di una tipologia molto dif-fusa nelle abbazie cistercensi francesi, già apartire dall’ultimo decennio del XII secolo,mentre in Gran Bretagna e in Irlanda sonostati ritrovati dei frammenti nei complessi diBindon, Boxley, Byland, Buildwas, Mellifont,Sawley, Rievaulx e Waverley, probabilmenteda ascriversi agli anni venti del XIII secolo(Robinson 1998, Leroux-Dhuys 1998, Kinder
1997, Tobin 1995). Rimane in dubbio la cro-nologia di riferimento per il pavimento delchiostro di Staffarda, in quanto questo tipo dimattonella ebbe un notevole sviluppo e utiliz-zo, anche nella zona del Saluzzese, ma inepoca più tarda.A fianco della sacrestia, la sala capitolare sisviluppa in un vano a nove campate regolari,costruite sulla base di un modulo ad quadra-tum. La sala è suddivisa da quattro colonnecon altrettanti capitelli lapidei a crochet chesostengono il sistema delle volte a crocieracostolonate, con i conci sagomati allo spigolocome nel nartece. Le mensole lapidee allepareti hanno forme unghiate per quelle d’an-golo, elementi geometrici e vegetali (sovrap-posizione di più livelli di foglie, come nellachiesa) lungo le pareti. Le due ampie trifore,ai lati del portale d’ingresso sono arricchite dicolonne e capitelli in marmo, con decori afoglie a crochet, simili a quelli che si conserva-no nel chiostro. La forma dei capitelli, scandi-ta da elementi a foglia a corona superiore e lafinezza esecutiva dell’apparato murario edecorativo, portano ad attribuire la sala capi-tolare e il chiostro ad una fase di cantiere mag-giormente avanzata rispetto a quella dellachiesa, probabilmente ascrivibile ai primidecenni del XIII secolo, prossima a quella delnartece antistante alla chiesa. In questo perio-do si assiste a Staffarda ad un rinnovamentotecnico e culturale che si riflette sull’architet-tura e sull’apparato decorativo.La sala capitolare costituisce lo spazio di mag-gior rappresentanza all’interno di un mona-stero cistercense, ed è per questo motivo, chesi riuniscono in questo ambiente le sceltearchitettoniche e scultoree di maggiore signi-ficato e pregio dell’intero complesso. Unaparticolare cura nella realizzazione della sala èrintracciabile in tutti i monasteri appartenentiai cistercensi, ed esempi significativi si sonoconservati anche negli edifici piemontesi(Monciatti 1995). La medesima modularità dell’impianto è rico-noscibile a Staffarda, a Lucedio e a RivaltaScrivia: il disegno progettuale è eseguito conprecisa regolarità, andando a definire campa-te pressoché uguali con minimi scarti dimen-sionali, riprendendo il tema della composizio-
ne ad quadratum. Un ulteriore elemento ricor-rente è la bicromia dell’ambiente ottenutoaffiancando elementi lapidei, capitelli e colon-ne, a strutture voltate in laterizio, dove emer-ge in maniera evidente il rosso del mattone deicostoloni delle crociere.La sala capitolare di Lucedio ha mantenutointegri i caratteri architettonici e decorativi; lacura degli elementi costruttivi si riscontranella posa in opera della muratura rifinita conprecisione e competenza (Tosco 1999). I capi-telli che sorreggono le volte a crociera sonolapidei come le colonne e mostrano uno sche-ma articolato in un collarino poggiato sulfusto, e un blocco centrale definito da bacel-lature allungate che si concludono con unascozia profonda di appoggio all’abaco qua-drangolare. Anche i capitelli seguono unaconnotazione modulare che tende a ridurre lostesso schema scultoreo a metà nelle mensoledelle pareti e ad un quarto in quelle angolari.Si riproduce quindi lo stesso principio diaggregazione modulare dell’architettura nel-l’apparato scultoreo. La sala del Capitolo di Rivalta Scrivia, ascrivibi-le ai primi decenni del XIII secolo, ricalca lastruttura canonica nella suddivisione in novecampate, coperte da volte a crociera costolonatecon ogive a toro in cotto, legate da chiavi conmotivi floreali. I capitelli a fasci circolari rastre-mati inferiormente collegano le volte con quat-tro snelle colonne lapidee. Due trifore simmetri-che rispetto al portale d’ingresso introducononell’ambiente; sono costituite da tre archetti asesto acuto con doppia ghiera, sorretti al centroda due coppie di colonnine binate monolitiche,ornate da capitelli a fogliame liscio e mosso,polilobato (Beltramo 1999). Analoghe scelte compositive accostano diffe-renti apparati scultorei: i capitelli interni diLucedio e di Rivalta Scrivia sembrano appar-tenere al medesimo percorso formativo, men-tre quelli di Staffarda mostrano scelte ben piùcomplesse e definite. Un riscontro oggettivo èdato dalle soluzioni decorative dei capitellidelle trifore di Rivalta Scrivia molto vicini aquelli delle aperture d’ingresso a Staffarda.A fianco della sala capitolare di Staffarda unpiccolo vano ospitava la scala che permettevaai monaci di raggiungere il dormitorio. Sulle
Volte a crociera costolonate della sala dei monaci(sopra) e della sala capitolare (sotto)
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murature interne si leggono numerose traccedi trasformazioni del piccolo vano. Sul latosud si affianca un passaggio, coperto da volta abotte, che conduceva al palazzo della com-menda. All’interno sono ancora perfettamenteleggibili i portali di accesso, caratterizzati daun’accurata muratura in laterizio a profili incotto sagomati, con giunti sottili e stilati. La manica orientale è conclusa dal blocco dellaboratorio dei monaci, che nonostante lenumerose riprese, testimonia con la sua archi-tettura l’impianto originario dell’ambiente. Illaboratorio è diviso in due navate da quattropilastri posti lungo l’asse longitudinale delvano (Bovo 1999). I pilastri circolari con basilavorate a toro in parte interrate, hanno deicapitelli a calice con corona scolpita a due otre foglie con costola centrale, sovrastati da unabaco ottogonale o quadrangolare. Le primedue campate del laboratorio hanno delle men-sole a forma allargata, di dimensioni maggioririspetto a quelle conservate nelle campatesud, con una lieve sporgenza del peducciocentrale. Le chiavi di volta sono semplici, aforma circolare con dimensioni maggioririspetto a quelle delle parti meridionali del-l’ambiente. Queste difformità fanno supporreuna differenza cronologica nelle fasi di cantie-re, che avvicina la costruzione delle prime duecampate, quelle in corrispondenza della mani-ca del refettorio, ai primi anni del XIII secolo.I grossi pilastri circolari e i capitelli fogliati dianaloga fattura si riscontrano nella grande salaa piano terra della foresteria, avvicinando idue ambienti ad una medesima fase di cantie-re. Anche il sistema costruttivo delle volte acrociera acute, con l’impiego di costoloni tori-ci e chiavi di volta in pietra, sembra da ascri-vere allo stesso cantiere compreso tra i primidecenni del XIII secolo. I prospetti esterni del blocco orientale mo-strano tutte le trasformazioni accorse a questafabbrica. Nella parte inferiore della facciataovest, in muratura a vista, si leggono ancora iprofili degli archi che scandivano un portica-to antistante la manica. Un sistema voltato èstato realizzato per coprire il chiostro, convolte in appoggio su mensole lapidee, come idue esempi che si conservano a fianco dellasala capitolare. Il portale, che immette nel Prospetto nord del palazzo dell’abate commendatario
Prospetto orientale della sala capitolare con le tre monofore
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laboratorio dei monaci, presenta un profilo atutto sesto, poggiante su due mensole lapideesvasate con un elemento di cordonatura nel-l’abaco sopra al capitello. I profili dei portalidel passaggio verso l’esterno, del vano con lascala per il dormitorio e della sala capitolare,sono leggermente acuti, senza elementi dibicromia, ad eccezione del sistema di sostegnidelle trifore della sala capitolare. Al piano superiore una serie di monofore illu-minavano il dormitorio comune dei monaci.Ad una fase di inizio XVI secolo sono daascriversi le finestre a crociera con profili incotto successivamente tamponate lasciando ilposto a semplici aperture rettangolari di diffe-renti dimensioni. Questi elementi sono i segnidella trasformazione subita dal dormitorio: dauna prima fase medievale caratterizzata daun’aula unica, si è passati alla suddivisione insingole celle in affaccio su di un corridoio cen-trale, interamente riplasmato all’inizio delXVIII secolo. Il prospetto verso est, copertoda una superficie intonacata molto degradata,è il palinsesto delle stratificazioni storichedella manica. Il blocco dell’edificio iniziadalla sala capitolare con le tre monofore conmodanature in cotto alternate a contraffortimurari. A fianco si riscontrano l’apertura peril vano scala e la successiva porta dell’andito
che dal chiostro immette nel cortile est. Alpiano superiore si legge, come traccia didiscontinuità sulla superficie intonacata, il pro-filo delle originarie monofore e di alcune aper-ture quadrangolari sovrapposte alle attuali fine-stre rettangolari che scandiscono il prospetto alprimo e al secondo piano. A fianco della salacapitolare si innesta il corpo della sacrestia, spo-stato a filo della manica est, con tre monoforefrutto degli interventi attuati negli ultimi duesecoli. Al livello superiore si conserva un loggia-to aperto, con il filo di fabbrica rientrato ches’inserisce nel corpo della torre campanaria. Il prospetto del laboratorio dei monaci è inparte occultato dal corpo del palazzo dell’abate,in corrispondenza delle prime due campate del-l’edificio. L’ultima parte del cortile sud est,mantiene le testimonianze materiali delle mono-fore al piano terra e al primo piano, in parteoccultate dalle nuove aperture rettangolari e dauna semicircolare molto simile a quelle apertesui prospetti laterali della chiesa, cancellate dal-l’intervento degli anni venti del XX secolo.L’edificio dell’abate commendatario, dallevicende costruttive articolate, costruito su duelivelli, presenta ancora alcuni caratteri tardomedievali, inseriti nelle consistenti trasforma-zioni attuate nel periodo barocco e nell’Otto-cento. Sulla facciata esterna verso il cortile est,
si leggono le tracce delle curvature degli archidella galleria aperta al piano terra. Gli archi siappoggiano su pilastri in cotto circolari concapitello cubico scantonato rivestito di intona-co. Alcuni di questi sono stati incorporati all’in-terno della successiva muratura di tampona-mento. La loggia dell’abate è articolata su duecampate con volte a crociera; all’interno, neilocali al piano terra e seminterrati, si conserva-no elementi costruttivi attinenti a fasi medieva-li, ai quali si sovrappongono dei locali a est enord ovest, caratterizzati dalla presenza di ele-ganti sistemi a volta a padiglione con unghie. Lavolta del piano terreno si configura con una tec-nica costruttiva raffinata ed elegante che impie-ga sezioni architettoniche slanciate e sottili nellecreste e nelle vele, mentre quella superiore è piùsemplice con elementi asimmetrici. Questecaratteristiche denotano un processo costrutti-vo, che include sensibili variazioni sincroniche,che tra il XV e il XVI secolo hanno interessatoquesto edificio, ma anche parte del chiostro,con la costruzione del sistema voltato sui pro-spetti est e sud, e con diversificazioni nel siste-ma distributivo, che hanno portato all’elimina-zione della scala per raggiungere il dormitorio afianco della sala capitolare e la realizzazione diun vano di collegamento verticale nella “came-ra calda”, oggi non più conservato.
Affresco dell’Ultima Cena all’interno del refettorio dei monaci
Lactatio di San Bernardo al primo piano dell’edificiodell’abate (fine del XV-inizio XVI secolo)
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La nuova fase di trasformazione ha previstoanche l’introduzione di timidi momenti decora-tivi, come il dipinto murale rappresentantel’Ultima Cena sulla parete di fondo all’internodel refettorio, e la scena della Vergine che allat-ta il Bambino con san Bernardo (Lactatio di SanBernardo), conservata all’interno di una dellestanze ai piani superiori del palazzo abbaziale.Entrambi gli affreschi sono databili ad un arcocronologico compreso tra la fine del XV secoloe l’inizio di quello successivo (Savio 1932,Gabrielli 1973, Ciliento 1999). Di maggiore pre-cisione è la proposta di datazione della Lactatioal secondo decennio del Cinquecento, con l’ipo-tesi di una attribuzione a Bartolomeo Debanis,pittore di Venasca, in Valle Varaita, attivo nelSaluzzese, tra Villafalletto, Verzuolo e Bene Va-gienna. L’affresco era protetto in origine da dueante mobili raffiguranti sul verso, i santi Pietro ePaolo e, sul retro, la Consegna dell’Indulgenzapapale (Caldera 2008a). Il linguaggio pittorico,pur mantenendo connotati di chiara matriceprovenzale, come gli sfondati di broccato, deidue santi, e “il loro intenso vigore plastico”,denuncia elementi piemontesi nella figura dellaVergine presa a modello da Defendente Ferrari(Galante Garrone, Ragusa 2002). Il lato sud del chiostro è caratterizzato dalla pre-senza rilevante del refettorio dei monaci, con afianco la sala calda (scaldatoio). La disposizionedello spazio in rapporto al chiostro, ad occupa-re il lato opposto alla chiesa, sembra ritrovarsianche nelle altre abbazie piemontesi (Casanova,forse Lucedio e Rivalta Scrivia) e in alcune tede-sche e inglesi, nello Yorkshire a Fountains,Rielvaulx, Kirkstall, e in Portogallo ad Alcobaça(Leroux-Dhuys 1998). Il corpo del refettorio, manica sud del chio-stro, parallela alla chiesa, si presenta come ungrande vano suddiviso da pilastri e copertocon volte a crociera. Lo spazio rispetta ledimensioni originarie della sala, ma il sistemadi copertura voltato è da far risalire al XVIIIsecolo. Dell’ambiente monastico rimane latraccia di semicolonne pensili appoggiate almuro perimetrale, e intere all’angolo dellasala, con basi e capitelli in pietra, che sostene-vano l’originaria copertura a volte a crocieracostolonate. Si conserva ancora parte dellascala che serviva per raggiungere il pulpitoposizionato nel centro del refettorio e le
monofore che illuminano l’ambiente. Le basidelle semicolonne pensili sono a tori sovrap-posti o fogliati, e i capitelli cubici. Il prospettoesterno mostra i segni di una copertura a voltedel portico del chiostro e il profilo acuto del-l’arco del portale d’ingresso al refettorio. Unafascia marcapiano ad archetti intrecciati incotto divide il piano terra da quello superiorecostruito in un secondo tempo, probabilmen-te in concomitanza con la ristrutturazionebarocca denunciata dalle aperture rettangola-ri con piattabande in laterizio. All’interno dello spazio quadrangolare delchiostro trova riscontro la presenza di un lava-bo nei pressi del refettorio. Durante il cantie-re di restauro degli anni venti del XX secolosono emerse le tracce della fondazione delpadiglione poligonale che copriva il lavabo,con contrafforti agli spigoli e con aperture ailati che permettevano l’accesso alla strutturain maniera simile a quanto rilevato nelle abba-zie borgognone e tedesche.Chiudeva il perimetro del chiostro la manicaposta ad ovest, caratterizzata da un andamen-to leggermente obliquo con una disposizionedegli spazi interni notevolmente variata nelcorso dei secoli. A metà della manica è statoaperto un passaggio diretto al chiostro, cheinterrompe la scansione originaria degli spazi,probabilmente destinati a magazzini e localiper i conversi (Carità, Schomann 1999). Rimane traccia dell’originaria struttura me-dievale nel primo tratto verso la chiesa, defini-to da un grande vano coperto da volta a botte,con una mensola in pietra e un grande cami-no. I fabbricati di questa ala dovevano essereutilizzati dai conversi, che nella maggior partedei monasteri cistercensi occupavano lo spa-zio ortogonale alla manica del refettorio.Nell’iconografia storica alla manica dei con-versi, definita da un unico vano, si addossavauna tettoia o un portico poggiante su sei pila-stri (ASOM, Pianta delle fabbriche del recintodi Staffarda [ante 1749]) La lettura degli spazimonastici evidenzia alcuni elementi costrutti-vi comuni che, nonostante gli scarti cronologi-ci, sottolinea l’impiego di maestranze specia-lizzate nella lavorazione dei materiali, laterizie lapidei, attente a cogliere le innovazioni tec-niche del periodo tra le fine del XII e l’iniziodel XIII secolo. La lavorazione delle murature
riveste un carattere di maggior pregio tramitel’attenzione all’impiego di laterizi posti inopera con una tessitura che alterna mattoni ditesta e di taglio, legati da una malta molto fine,con giunti sottili e a volte stilati. I laterizi mo-strano spesso la graffiatura obliqua della super-ficie a vista come carattere di finitura dellalavorazione.In tutto il cantiere del chiostro si utilizza ilsistema voltato acuto su costoloni a sezionetoroidale con la parte iniziale sagomata a spi-golo vivo. Gli archi traversi acuti mantengonoper le nervature una sezione rettangolare. Leaperture, trifore o monofore, impiegano analo-ghi elementi decorativi: cordonature in cottoalternate a conci in pietra per riprodurre labicromia così diffusa nei cantieri cistercensi enel romanico lombardo. Ulteriori specializza-zioni prevedono l’uso di laterizi con fasce arombo e a doppio rombo, a greca, intrecciatead arco sui fronti nord e sud del dormitorio. A fianco della chiesa, sul lato nord vi era lospazio destinato al cimitero dei monaci, conun accesso diretto nella campata in fondo vici-no all’ingresso.Al di fuori dal recinto che raccoglieva i monacisi trovano l’edificio della foresteria e la cosiddet-ta loggia del grano; entrambi conservano ancorai caratteri architettonici propri della primitivafase cistercense, recuperati dall’intervento diBertea dell’inizio del XX secolo. L’edificio della foresteria è articolato su duepiani e presenta una serie di aperture a mono-fore strombate verso il prospetto sud. Sul latonord al prospetto originario si addossa un a-vancorpo che contiene la scala per raggiunge-re il piano superiore. L’ambiente al piano terra, ascrivibile all’iniziodel XIII secolo, riprende l’articolazione dellospazio e le scelte costruttive delle volte dellasala capitolare. I pilastri sostengono delle vol-te a crociera con costoloni a sezione torica,mentre gli archi trasversali sono rettangolari.Le chiavi di volta sono in pietra e hanno deco-razioni scultoree geometriche. L’edificio si con-clude con una facciata a capanna con un’al-ternanza ritmica di aperture, monofore e oculi,ai livelli inferiori e ai superiori. Due feritoie euna croce concludono la facciata in corrispon-denza del colmo del tetto.
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Nel XVII secolo non sono attestati significati-vi cantieri di restauro per il complesso mona-stico. Dall’inventario della Camera Apostolica(1678), eseguito alla morte dell’abate com-mendatario Francesco Martino di Agliè,emerge che il palazzo dell’abate, «ampio e no-bile», era stato da poco ristrutturato (ASTo,19 aprile 1678, in Savio 1932, p. 134). Verso lafine del XVII secolo, Monsignor Morozzo,priore della Consolata, ricorda che l’abbaziadi Staffarda «risplendeva ancora per la bellez-za del tempo e degli edifici, per la copia delleofficine», sottolineando la ricchezza degli stal-li in noce lavorato, ricoprenti il coro, «ma giàdegli edifici spesseggiavano le rovine» (Mo-rozzo 1690, p. 188).L’inizio del Settecento comporta una serie ditrasformazioni agli edifici del monastero; idanni subiti dalla presenza francese della finedel XVII secolo vengono riparati e l’aperturadel cantiere permette alcune modifiche signi-ficative ai diversi corpi di fabbrica.Dalla visita effettuata il 20 ottobre 1710 dalconte Ferrero e dall’architetto Gerolamo Re,appare evidente la situazione di precaria sta-bilità di parti di edifici, a cui fanno seguitoalcune proposte per migliorare il complessomonastico. Uno dei punti posti all’attenzioneè la necessità di ampliare la sacrestia, che ter-minava a filo con la curvatura dell’absideminore sud (Pianta delle fabbriche, e recinto diSanta Maria di Staffarda […], Conte Ferrero,ASTo, Tipi sezione II, n. 326, [1710-1749]).Nel disegno senza data Pianta di monistero diStaffarda con siti al medesimo adiacenti, lasacrestia risulta ingrandita, così come è oggi,composta da due campate con volte a crocie-
ra su costoloni, sporgente dal filo esternodelle absidi (ASTo, Tipi sezione II, n. 374,s.d.). Nel 1926, tra i luoghi del monastero chenecessitano di un restauro è citata anche lasacrestia, ma non si è trovata traccia nelladocumentazione dei lavori effettuati. Lo stato precario degli ambienti monastici ètestimoniato anche dalla lapide dipinta nel 1734di fronte alle scale di accesso al dormitorio deimonaci che ricorda il termine del cantiere, perrecuperare le fabbriche monastiche di “vetustas
squallore”. Le maniche est e sud al primo pianovengono completamente ristrutturate e unnuovo apparato decorativo riprende gli spazidel dormitorio. Gli interventi previsti non con-vincono del tutto la commenda; infatti, nel 1732viene redatto un documento “Rimostranza fattaai monaci residenti nel monastero riguardantela fabrica nuova” (ASOM, Staffarda, m. 15, fasc.370, 15 maggio 1732), che rivedeva nei terminialcune parti del progetto. Risultava che le modi-fiche apportate agli edifici avrebbero sottratto
Le trasformazioni del complesso monastico in età moderna
Pianta delle fabbriche, e recinto di Santa Maria di Staffarda, poste nel territorio di Revello, Conte Ferrero,[1710-1750] Archivio di Stato di Torino, Tipi e sezione II, n. 326
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luce al salone principale del palazzo abbaziale,creando una servitù nel prospetto e, nel con-tempo, privato i monaci del corretto isola-mento claustrale. L’atto di visita del 1749 descrive in manierapuntuale il monastero ed è utile per ricostruirela situazione degli ambienti del palazzo dellacommenda che proprio in quegli anni è oggettodi importanti trasformazioni (ASOM, Staffarda,m. 18, n. 423, 12 novembre 1749). La manica aponente che ospita il palazzo è caratterizzata dauna galleria al piano terra e dalla residenza alpiano superiore. Il porticato a piano terra erasostenuto da “pilastrini” in laterizi e coperto davolte, con il pavimento in cotto e dei setti mura-ri che costituivano i parapetti tra un sostegno el’altro. All’interno della galleria, verso la termi-nazione nord, era stata costruita una camera. Apiano terra si apriva anche una scuderia coper-ta da volta a botte. Il palazzo risulta compostoda tre vani al piano superiore e da altri al pianoterra, coperti da volte in muratura. L’ingressoera situato a ponente tramite un vestibolo cheimmette nello scalone che conduce al piano
Pianta del monistero di Staffarda con siti al medesimoadiacenti, Archivio di Stato di Torino, Tipi sezione II,n. 374, s.d.
Prospetto est della sacrestia realizzato nei primi decenni del XVIII secolo
superiore. Il passaggio dell’ingresso, che per-mette di collegare il palazzo con la chiesa, èoggetto di una diatriba tra i monaci e l’abatecommendatario, in quanto i primi avevanodeciso di costruire delle stanze a ridosso delmuro della scuderia, occultando l’andito.L’abate ordina la demolizione delle volte giàcostruite (ASOM, Staffarda, m. 24, n. 579, 11settembre 1755, Ideale pianta e spaccato e profi-lo dimostranti il sito della scuderia e superiorigranaj della commenda di Staffarda, sito tra essae il chiostro tenuti dal monistero di Staffarda).Il palazzo della commenda è stato oggetto diinterventi di ristrutturazione negli anni cin-quanta del XVIII secolo. La planimetria del1752, firmata da Giovanni Tommaso Audi-fredi, viene realizzata per presentare il proget-to di una scala che pone in comunicazione ilsalone del piano terreno con l’appartamento alpiano superiore (ASOM, Staffarda, m. 21, n.498, 7 agosto 1752). La costruzione del corposcala è testimoniata in un altro disegno, del1796, che rappresentata le successive modifi-che accorse al corpo di fabbrica (ASTo, Tipi
sezione II, n. 136, 1796, Stefano Angelino eco-nomo). Il salone a fianco della scala è stato sud-diviso da un tramezzo murario, così come unastanza di più piccole dimensioni collocataall’estremità dell’edificio.La situazione del complesso monastico all’ini-zio del XIX secolo si presentava alquantocompromessa, anche a seguito del terremotodel 1814 che ha causato ingenti danni (DiPiramo, Fiorini, Sansotta 1999). Dal 1826sono conservati diversi documenti che attesta-no la necessità e la volontà di procedere adestesi interventi di restauro. A metà secolo unulteriore evento sismico renderà la situazionemaggiormente critica.Carlo Bernardo Mosca nella relazione del1841 ricorda i danni subiti dal monastero aseguito del terremoto del 1828 quando lamaggior parte degli edifici viene abbandonatae i portici del chiostro demoliti. Dal sopral-luogo emerge che solo l’alloggio del parrococontinua ad essere abitato. Il progetto strutturato da Ernesto Melano nel-l’agosto del 1841 evidenzia la necessità di prov-
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vedere al restauro della sacrestia e del porticodel chiostro, del quale rimangono solo i lati aponente e parte di quello nord, ripristinando lecolonne, i capitelli e le basi mancanti (ASOM,Staffarda, m. 50, fasc. 1258, 27 ottobre 1841).Dai rilievi effettuati dal geometra AlessandroGoffi nel 1845 emerge chiaramente lo stato difatto e il confronto con le planimetrie del seco-lo precedente consente di ricostruire le trasfor-mazioni attuate alle fabbriche monastiche inquesto periodo.A fianco del refettorio dei monaci è stata rea-lizzata una nuova scala per accedere al primo
piano, durante il cantiere del 1734. La plani-metria del piano superiore consente anche dileggere l’importante trasformazione deglispazi privati del monastero: i due corpi est esud sono ridisegnati con un lungo corridoio adoppia manica sul lato orientale e semplicesopra il refettorio, lungo il quale si dispongo-no le camere coperte da volte a padiglione.In corrispondenza del lato del chiostro sudviene attestata la presenza di un “coretto”,utilizzato dai monaci per celebrare le funzioni“private”, collegato al dormitorio dei monacitramite un passaggio.
Nel 1887 ulteriori interventi sono documenta-ti nell’alloggio del parroco, che come la chie-sa ha subito dei danneggiamenti a causa delterremoto avvenuto nel febbraio dello stessoanno. La relazione dell’ing. Camusso segnaladistacchi di pareti e la rottura di tre volte alsecondo piano dell’alloggio ad est, che verran-no abbattute nei mesi seguenti. Nel progetto di recupero di Cesare Berteadegli anni venti del XX secolo il restauro delchiostro compare solo relativamente tardirispetto agli altri interventi previsti. Eppure ivertici dell’ordine mauriziano sottolineano in
Pianta del piano terreno di tutti i Fabbricati componenti l’abitato di Staffarda, Alessandro Goffi 1845, ArchivioStorico Ordine Mauriziano, Cabrei e disegni, Staffarda, 41 arm. 8
Sala capitolare in una fotografia dei primi anni del XXsecolo (Boselli 1917)
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più occasioni la necessità di preservare «unodei monumenti più belli e preziosi per l’arte»,come scrive il direttore Lanza al senatoreBoselli (Momo 1999). Anche l’ispettore CarloBorda, nel 1895 aveva sottolineato la necessitàdi definire «il compimento del grandioso log-giato a portico per la parte almeno prospicien-te a ponente, presso la sala od atrio così dettodel capitolo, con ritoccatura intelligente deglialtri lati dello stesso chiostro stati restaurati ecompletati in modo alquanto scorretto, verso lametà del corrente secolo» (Macera 1999).Dall’analisi dell’architettura è evidente come illavoro di Bertea sia stato cospicuo in alcuneparti del chiostro; molte delle murature sonostate riprese, così come il porticato con colon-ne e capitelli in pietra. Il settore del chiostroprevisto nel progetto di restauro era quellonord est, nel tratto compreso tra la testata deltransetto e la manica orientale della sacrestia,sala capitolare, laboratorio dei monaci al pianoterra e dormitorio al piano superiore. Il primointervento è stata la demolizione del fabbricatoaddossato al transetto, definito il “coretto”,costruito sopra al tetto del chiostro. L’incon-gruità formale dell’intervento di costruzionedell’elemento aggiunto e la provvisorietà dellavoro, definirono la scelta del soprintendenteper la demolizione di questa appendice dellafabbrica originaria. Nel 1926 l’edificio era statosmantellato, ma il tratto di chiostro corrispon-dente si presentava senza copertura. Nel 1927prende l’avvio la fase di ricostruzione del setto-re di porticato corrispondente, visto che aseguito della demolizione era rimasto privo ditetto. La scelta prevista da Bertea è di unifor-marsi alle maniche vicine con la costruzione diuna copertura lignea con l’orditura sostenutada arcate a doppia ghiera rette da colonninebinate. Il manto di copertura previsto è in losedi pietra. La decorazione delle tavole, dei co-prigiunti e delle testate delle travi, su progettodella soprintendenza, viene affidato al pittoreMedici che mette in opera anche lo strato difinitura a velatura previsto dal capitolato(Momo 1999).Secondo lo studio di Savio (1932), i lavori alchiostro furono compiuti in più riprese nel1921, 1926 e 1927. Verso la fine del 1930 siprocedeva al restauro della sala a piano terradella foresteria.Prospetto sud della chiesa e galleria del chiostro (2010)
Prospetto sud della chiesa e manica occidentale del chiostro prima dei restauri degli anni venti del XX secolo(Boselli 1917)
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In alto: angolo sud-est della chiesa e del transetto aconfronto tra lo stato attuale e una fotografia storica(Boselli 1917). Si notano le superfetazioni eliminatedai restauri degli anni venti del XX secolo
A lato: prospetto esterno della sala capitolare all’ini-zio del XX secolo
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Capitello fogliato del chiostro con volute angolari. Inalto nel calato elemento decorativo a rosetta
Capitello fogliato del chiostro. In alto nel calato ele-mento decorativo a giglio
Capitello fogliato del chiostro con volute angolari ecentrale. Nel calato elemento decorativo a triangolo
Capitello del nartece con volute angolari e centrali Lunetta del portale in pietra
Capitello della sala capitolare con foglie sagomateterminanti in volute
Capitelli su colonne binate del chiostro con foglielisce e sagomate
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sentano come luoghi di sperimentazione disoluzioni innovative (Cadei 1978).La scultura diventa quindi strumento per esal-tare l’architettura, per valorizzare la dignitàdegli elementi compositivi e strutturali pro-gettati e realizzati nel cantiere, dove grandicicli scultorei o pittorici avrebbero distoltol’attenzione dalla linea della severa scansionestrutturale. Gli elementi scultorei che si ritrovano nel com-plesso di Staffarda sono per lo più capitelli emensole in pietra che scandiscono gli spazi dirappresentanza del monastero e il sistemaarchitettonico dei sostegni nella chiesa. L’insieme dei capitelli costituisce l’apparatodecorativo scultoreo di maggiore rilevanzadella chiesa; i motivi geometrici presentanoun repertorio diffuso nell’Italia settentrionale.Il doppio scudo, si riscontra, oltre che nellachiesa cistercense di Fontenay, anche nellasala capitolare di Tiglieto, dell’inizio del XIIIsecolo, e in quella di Morimondo di poco suc-cessiva (Pagella 1999). Un altro tipo di capi-tello testimoniato a Staffarda è definito da unaserie di due corone di foglie lisce uncinate chesi sovrappongono, terminanti con caulicoli epiccole volute. Di fattura più fine e ricercata èla decorazione definita a sei fasce sovrappostedi piccole foglie triangolari, nei capitelli delpresbiterio di Staffarda, rintracciabile anchenel coro di Santa Maria di Vezzolano e neicapitelli della crociera della chiesa di RivaltaScrivia. La cronologia di riferimento complessiva peri capitelli di Staffarda è stata indicata nei de-cenni compresi tra gli ultimi anni del XII se-colo e i primi due decenni del successivo.
In questo arco temporale rientrerebbero anchele due chiavi di volta figurate con l’Agnus Dei el’angelo dell’Annunciazione, riprese dai restau-ri di Bertea. La cronologia proposta dovrebbeessere retrocessa di qualche decennio perseguire quello che è stato l’andamento del can-tiere della chiesa, che può considerarsi conclu-so intorno agli Settanta del XII secolo. L’ultimafase, quella della costruzione delle volte, deveaver visto anche il contemporaneo inserimentodei capitelli nella loro funzione di supportodell’imposta dell’arco della volta, garantendo ilcorretto funzionamento dell’elemento verticaledi sostegno.La serie di mensole e capitelli che completanol’architettura del chiostro e degli ambientidisposti intorno ad esso, si prospetta variega-ta, pur riproponendo temi comuni e radicatinella cultura cistercense. Gli edifici della foresteria e del laboratorio deimonaci mostrano analoghe soluzioni nellescelte scultoree dei capitelli; l’impiego di pila-stri circolari di rilevante diametro e di noneccessiva altezza, considerando le variantidovute alla quota dei pavimenti, impone lascelta di capitelli di sviluppo ridotto in altezzae ampio nella larghezza. I caratteri plasticidella scultura ripropongono, nell’echino, glielementi vegetali, foglie stilizzate bifide, e trale modanature dell’abaco, il toro o semplicilistelli. Un collarino definisce la base del capi-tello al sommoscapo del pilastro. Nella sala dei monaci la complessa articolazio-ne degli spazi si riflette sulla varietà dei capitel-li e delle mensole realizzate; la fila centrale disostegni, si arricchisce di soluzioni analoghe aquelle della foresteria per il primo capitello
Il concetto di decorazione nelle abbazie ci-stercensi è espresso chiaramente nel Capitologenerale dell’ordine nel 1134, dove si affermache «deformant antiquam ordins honestam».La scelta di bandire qualsiasi elemento sculto-reo intenzionalmente figurativo e di limitare oridurre al minimo necessario i temi decorativi,registra una pressoché totale assenza di appa-rati pittorici e una minima presenza di ele-menti plastici. L’apparato artistico nelle chiese e nei mona-steri cistercensi è spesso limitato ad elementimaterici che si alternano creando studiatieffetti di bicromia, dati dall’utilizzo di parti inpietra quali capitelli, mensole e chiavi di volta,o dipinti murali in forme geometriche, chedialogano con la superficie muraria in lateri-zio in un’attenta composizione plastica.Il repertorio ornamentale scultoreo recuperaspesso morfemi di origine altomedievale chenon hanno mai smesso di essere impiegati, matrovano, per i motivi della rinuncia ad unapparato decorativo innovativo, nei cantiericistercensi una ripresa significativa (Cervini1999). L’impiego di tematismi e di forme lega-te alla tradizione è stato letto come richiamoalla purezza del cristianesimo delle origini ealla spiritualità originaria (Raspi Serra 1994).In realtà l’arcaismo riscontrato in alcuni ele-menti scultorei e in generale l’onda dell’anico-nismo presente nei primissimi cenobi dell’or-dine, possono aver favorito la confluenza nellefabbriche cistercensi «di consuetudini localiche per secoli si erano nutrite di queste formenell’onesta routine di lapicidi non troppoambiziosi” (Cervini 1999), e che ora vengonoapplicate in contesti architettonici che si pre-
L’architettura scolpita: capitelli e mensole nell’abbazia cistercense
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vicino all’ingresso, mentre i successivi, dialtezza maggiore, sono del tipo a crochet, piùarcaici rispetto a quelli del chiostro. Le menso-le sono a cono rovesciato, con il corpo articola-to in fasci circolari bombati rastremati inferior-mente, mentre la parte superiore è delimitatada un listello piatto. Le mensole sono suddivi-se in tre parti, con tre fasce nella parte centralee due in quelle laterali. Esempi di analoga fattura sono conservatinella chiesa e negli ambienti del monastero diRivalta Scrivia con riferimenti cronologicivicini a quelli di Staffarda, a Fontenay, a SanMartino al Cimino, mentre le mensole dellasala capitolare di Casamari sono di miglioresito (Farina, Fornari 1978, Beltramo 1999). Nella sala dei monaci si conservano ancheesempi di capitelli a crochet, con alcune varia-bili nella fattura, nel numero delle foglie e nel-la loro disposizione, e nella maggiore o mino-re sporgenza delle volute laterali. Unitario dal punto di vista scultoreo è l’appara-to di capitelli e di mensole riscontrabili nelchiostro e nella sala capitolare. Il tema ricor-rente è quello del capitello con foglie lisce osagomate, su uno o più livelli, con foglie ango-lari che terminano in volute. Tra i capitelli bina-ti, nello spazio superiore intermedio del calato,sotto la fascia liscia dell’abaco, si ritrovano ele-menti decorativi quali rosette, fiori intrecciati egigli. Il motivo del fiore del giglio, è ricorrentenelle abbazie cistercensi: è testimoniato neicapitelli della chiesa e nella chiave della voltadel coro nell’abbazia di Casamari, nella sala deimonaci a Fontenay, in “redazioni stilistiche diinedito nitore” (Cadei 1978, Cervini 1996a),nella chiesa di Rivalta Scrivia, in un capitello di
Chiaravalle di Fiastra (Gentili 1978, Dell’Ac-qua 1995) e a San Galgano. Un altro elemento decorativo ricorrente è lafoglia polilobata di forma ovale, che riprendeelementi e forme esistenti in natura; ascrivibi-le nelle sue prime apparizioni al 1170 è statalargamente impiegata in più parti del com-plesso di Staffarda (Yalabert 1932). Anche il tema del capitello cubico scantonatoè presente a Staffarda in varianti significative;dall’esempio semplice della sala dei monaci aquelli doppi della chiesa, la plastica decorati-va varia sul tipo di curvatura, sulla sezione delcordone, spesso torico che sottolinea la curva-tura, e del listello dell’abaco, nella maggiorparte liscio. La diffusione di questo tipo di capitello è geo-graficamente e cronologicamente molto am-pia; non solo presente nei cantieri cistercensi– per citare solo l’area piemontese lo si riscon-tra anche a Casanova e a Rivalta Scrivia – ilcapitello cubico vede le sue prime forme, inpietra nella chiesa di San’Abbondio di Como(Zastrow 1979) e in laterizio nel Duomo diModena all’inizio del XII secolo. La diffusio-ne di questo tipo di capitello sarà tale da ritro-varlo anche molto tardi, nel XV secolo, nel-l’edilizia civile dei centri della pianura pie-montese. Un apparato decorativo di interesse è quellodella galleria cieca del coronamento absidale,probabilmente l’esempio scultoreo più anticodel complesso (Cervini 1999). Il sistema dellegallerie cieche terminanti la parte sommitaledelle absidi nell’architettura romanica è parti-colarmente sviluppato: esempi significativi siriscontrano nella maggior parte delle cattedrali
Mensola nartece con sei foglie uncinate lisce
Mensola sala capitolare a fogliette sovrapposte
Chiave di volta navata centrale con rappresentazionedell’Agnus Dei
Chiave di volta navata centrale con raffigurazione dell’An-gelo dell’Annunciazione
Capitello esagonale della foresteria con semplici voluteangolari
Mensola foresteria con decorazioni a medaglie coniche
MONASTERO 99
romaniche con soluzioni compositive e decora-tive di indubbio interesse. Per rimanere in am-bito piemontese si ricorda il duomo di CasaleMonferrato dell’inizio del XII secolo, la chiesadi San Pietro di Brusasco della prima metà delsecolo, Villar San Costanzo dei primi decennidel XII secolo, San Costanzo al Monte e laSacra di San Michele (Il duomo di Casale 2000,Pittarello 1991, Carboneri 1949, Cantino Wata-ghin 1998, Olivero 1929, Romano 1994, Tosco2000). Il fregio a doppio archetto pensile presente aStaffarda posa, attraverso piccole mensoline, suesili colonnine con una base decorata. L’ele-mento plastico si unisce al tema della bicromia,in maniera analoga a quanto riscontrato per lachiesa, attraverso l’impiego della pietra arenariadei capitelli, delle basi e delle colonne che sispecchiano su di una superficie omogenea inlaterizio. Gli elementi scultorei superstiti sonoper lo più le mensole, che accolgono solo trecolonnine a fusto liscio, scandite da capitelli eda basi. L’apparato decorativo indugia sui temidegli intrecci vegetali, delle foglie uncinate e deifiori, corone vegetali abbinate a caulicoli termi-nanti con piccole volute.
Nel nartece antistante la chiesa, il portale centra-le è definito da colonnine, mensole e capitelli inpietra, con un decoro vegetale molto stilizzato,con piccoli grappoli, fiori e nastri perlinati, avvi-cinabili al nucleo più antico delle sculture diVezzolano, ascrivibili agli anni settanta-novantadel XII secolo (Pagella 1992, 1994). Le mensoleutilizzate per sostenere i costoloni delle voltemostrano caratteri arcaici nell’utilizzo di un fre-gio vegetale intrecciato o una serie di sei foglielisce uncinate con un linguaggio di maggioresemplificazione rispetto a quelle riscontrate neicapitelli interni. Il lato verso l’esterno è scanditoda una serie di capitelli a crochet che rientranonella diffusa tipologia impiegata in diverse solu-zioni, e che vede nel chiostro di Staffardaun’estesa campionatura. In quelli del nartece lefoglie sono scandite da nervature che terminanoin fiori appena accennati.La riproposizione di elementi scultorei conso-lidati nell’arte medievale e da leggere nellatendenza riscontrata nel cantiere di Staffardaa “scolpire l’architettura”, rinunciando ad unlinguaggio innovativo per costituire un unicocorpo tra architettura e plastica decorativa. Amaggior ragione, se si considera che le tecni-che costruttive impiegate nel nartece risento-no, ormai, delle nuove forme gotiche dell’arcoacuto e delle nervature a sezione torica, diffu-se nel primo Duecento, con la sagomatura deiconci in prossimità dell’imposta per ottenereuno spigolo vivo.Nella lettura complessiva del portico antistantela chiesa è da sottolineare che lo stato attuale, èl’esito del cantiere di restauro degli anni ventidel XX secolo, intervenuto in maniera signifi-cativa sulle strutture architettoniche e sugli ele-menti scultorei come testimoniano la ricompo-sizione di alcune parti in punti non corretti. La lunetta che sovrasta l’ingresso nel chiostrodal piazzale antistante, è decorata con unacombinazione di elementi ornamentali inta-gliati che rappresentano una sezione trasver-sale di una chiesa, articolata in tre navate, unacentrale voltata a sesto acuto e due minori atutto sesto, con colonne sormontate da capi-telli di impianto cubico, e basi definite daincisioni. Le navate minori sono unite, all’im-posta della volta, in corrispondenza dei capi-telli, da elementi orizzontali, che ricordano le
Arcate cieche con mensole lapidee dell’abside Portale centrale del nartece con colonnine addossate
Mensola baccellata a cono rovesciato della sala deimonaci
Mensola della sala dei monaci con fasci circolaribombati rastremati nella parte inferiore
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catene metalliche utilizzate per trattenere lespinte delle volte ed evitare danni ai muriperimetrali. Sotto le catene sono realizzatedue rosette clipeate, mentre in corrisponden-za della navata centrale si apre un oculostrombato. Alcuni elementi fitomorfi conno-tano i lati della raffigurazione e i pennacchidelle volte, tra i quali le palmette trifide, unodei motivi più vicini ai temi della scultura“cistercense” (Cadei 1978), riscontrabile inaltri punti del complesso, come la base di unasemicolonna della navata sinistra, all’internodella chiesa abbaziale e nei più tardi capitellidel chiostro. La diffusione di questo tema èampia anche fuori dei confini del mondocistercense. Esempi monastici di palmetteincise o scolpite si ritrovano in alcuni capitel-
li nella chiesa di Chiaravalle della Colomba,prima del 1144, e dopo la metà del XII seco-lo nei capitelli di Chiaravalle di Fiastra, e nelcomplesso di Volkenrode in Turingia, dovesono stati scelti come decorazione di unavasca nel chiostro (Gavazzoli Tomea 1993,Valenzano, Guerrini, Gigli 1994, Cadei 1992,Reiche 1997).Sulla cronologia della lunetta di Staffarda, larecente storiografia ha proposto una datazionerisalente alla fine del XII-inizio XIII secolo,leggendo nell’arcaismo della rappresentazioneun radicamento di forme e linguaggi locali,dovuto alle maestranze impiegate poco inclinialle nuove sperimentazioni (Cervini 1999). La posizione originaria della lunetta, di sicuronon quella odierna, è stata individuata nel
portale centrale dell’antica facciata, antece-dente alla realizzazione del portico antistantel’ingresso della chiesa, pensato nel corso deiprimi decenni del XIII secolo (Schomann1969). Al di là delle dimensioni leggermenteridotte rispetto al portale attuale, la posizionedell’elemento scolpito parrebbe confermataanche dall’analogo linguaggio figurativo ri-scontrabile nei capitelli reimpiegati nella ri-plasmazione duecentesca. L’originaria collocazione sull’ingresso dellachiesa sembra essere proposta anche dalla raf-figurazione di un prospetto di una chiesa, conl’oculo posto in posizione centrale. Lo schemaricorda analoghe soluzioni liguri, come quelladel timpano di Ventimiglia e della cattedraledi Albenga (Cervini 1996b).
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L’Associazione Guarino Guarini raccoglie e coordina le esperienze di chi intende studiare e valorizzare i con-tenuti liturgici e teologici dell’arte cristiana, con particolare riferimento all’area subalpina.L’Associazione nasce nel 1999 in preparazione all’accoglienza giubilare nelle chiese storiche di Torino. Daallora, con continuità di intenti e impegno, l’Associazione propone corsi di formazione sull’arte cristiana,rivolti a operatori culturali, volontari, professionisti e studiosi. I corsi, giunti alla XII edizione, hanno finoratrattato temi quali l’iconografia cristiana, l’architettura degli ordini religiosi, l’arte di altare e battistero, i para-menti e gli arredi liturgici, l’archeologia cristiana in Piemonte, l’arte sacra del Novecento, il significato eccle-siologico e architettonico delle cattedrali, il rapporto tra arte e spiritualità nel pellegrinaggio.L’Associazione coordina inoltre l’attività di gruppi e singoli volontari che operano per la valorizzazione dellechiese e dei beni culturali diocesani, in stretta collaborazione con le istituzioni competenti (Ufficio liturgico eUfficio per la pastorale del turismo), in particolare in occasione di eventi di rilevanza nazionale o internazio-nale (Ostensioni della Sindone del 2000 e del 2010, giochi Olimpici del 2006, itinerari connessi alla mostradella Reggia di Venaria su Gesù nel 2010).L’Associazione è membro della federazione internazionale di guide volontarie “Ars et fides” e collabora conla rete europea “Arc”.A più di un decennio dalla fondazione, il principio ispiratore dell’Associazione resta l’intento di associare l’ap-profondimento studio storico-critico del patrimonio culturale della Chiesa ai grandi temi della spiritualità,della teologia e della liturgia: l’Associazione è aperta a tutti coloro che intendono impegnarsi nel perseguiretale obiettivo nelle proprie comunità e nei propri contesti di attività.
ANDREA LONGHI
Presidente Associazione Guarino Guariniwww.associazioneguarini.org
L’Associazione Culturale Sassi Vivaci nasce nel 2001 con l’intento di promuovere progetti culturali in ambititerritorialmente svantaggiati, sostenendo l’attività di studio e di ricerca e creando i requisiti per uno sviluppoeconomico alternativo. La promozione del territorio montano piemontese, in particolare quello delle valli del Monviso, è stata svol-ta, nel corso degli anni, cercando di avvicinare l’arte ai cittadini al fine di diffondere la conoscenza, la speri-mentazione e la creazione artistica, incentivando lo scambio tra culture differenti. Nel 2001 in linea con i pro-pri fini istituzionali, l’Associazione ha ideato il concorso internazionale di arti visive Sassi Vivaci,, finalizzato alrecupero e alla valorizzazione del centro storico di Barge (dal 2001 al 2006), attraverso la realizzazione di pro-poste artistiche site-specific che hanno costituito il patrimonio del Museo Civico d’Arte Contemporanea en pleinair – Aperto (istituito nel 2002). A partire dal 2005 tra le attività legate al Museo, ha coordinato percorsi divisita e didattici (SaltAperto 2004-2006), il concorso di idee Aperto Design (2005), e quello di musica contem-poranea (Opera prima). Tra gli eventi artistici proposti dall’Associazione sul territorio piemontese: la mostraitinerante Elementare (Alessandria 2002, Bagnolo Piemonte 2003) e Promenart (Pragelato 2006) in occasionedelle Olimpiadi Invernali. Gli studi e le ricerche compiuti in ambito storico, artistico e sociale sul territorio cuneese e saluzzese in partico-lare, hanno costituito uno dei fili conduttori nell’attività dell’Associazione (progetto La Vijà 2002). Dal 2008 Sassi Vivaci ha ideato il progetto AltraMontagna che, in linea con le istanze di sostenibilità ambienta-le, promuove un turismo attento alle dinamiche sociali e territoriali, valorizzando i saperi e le tradizioni delle vallidel Monviso. Parte del progetto è il SistemaMonviso, al quale aderiscono istituzioni pubbliche (enti di gestioneterritoriale e comuni) e private, con la finalità di mettere in relazione i beni culturali e ambientali attraverso laricerca, il censimento e la pubblicazione su di un nuovo portale internet, l’ideazione di metodi di gestione con-divisi e di nuove forme di fruizione attraverso strumenti informativi dinamici (www.monvisopiemonte.it).
MARCO GATTINONI
Presidente Associazione culturale Sassi Vivaciwww.sassivivaci.org