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LA RIVISTA DELLE OPERAZIONI STRAORDINARIE Mensile di approfondimento dedicato alla gestione straordinaria di imprese e società Da leggere Procedure concorsuali e crisi d’impresa: gli errori più comuni e le responsabilità per gli organi sociali e i professionisti coinvolti La legittimità del trust interno e la sua “tenuta” al vaglio giurisprudenziale La “sopravvivenza fiscale” delle società cancellate dal Registro Imprese e le nuove responsabilità di soci e liquidatori Le operazioni straordinarie da comunicare nelle dichiarazioni d’intento tre 2015 MENSILE
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LA RIVISTA DELLE OPERAZIONI STRAORDINARIE · Le operazioni straordinarie da comunicare nelle dichiarazioni d’intento Dal 2015, a seguito delle novità introdotte dal Decreto sulle

Feb 16, 2019

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LA RIVISTA DELLE OPERAZIONI STRAORDINARIE

Mensile di approfondimento dedicato alla gestione straordinaria di imprese e società

Da leggere

Procedure concorsuali e crisi d’impresa: gli errori più comuni e le responsabilità per gli organi sociali e i professionisti coinvolti

La legittimità del trust interno e la sua “tenuta” al vaglio giurisprudenziale

La “sopravvivenza fiscale” delle società cancellate dal Registro Imprese e le nuove responsabilità di soci e liquidatori

Le operazioni straordinarie da comunicare nelle dichiarazioni d’intento

tre 2015MENSILE

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INDICE

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Diritto e societàProcedure concorsuali e crisi d’impresa: gli errori più comuni e le responsabilità per gli organi sociali e i professionisti coinvoltiL’articolo affronta il tema degli specifici obblighi di comportamento che sorgono a carico degli organi sociali e dei revisori in prossimità dello stato d’insolvenza di un’impresa, alla luce dell’esigenza di tutelare i creditori sociali in questo anomalo momento della vita della società. Quando si verifica una situazione di crisi, caratterizzata dalla contrazione del capitale di rischio, l’interesse della società e dei soci alla massimizzazione del profitto e alla ricerca di nuove opportunità di investimento e di redditività può divergere da quello dei creditori, interessati più a una gestione cautelativa dell’attività d’impresa. In particolare, per quanto riguarda gli amministratori, una loro eventuale responsabilità in tale contesto può discendere: a) dall’aver causato o aggravato la crisi dell’impresa; b) dal non aver percepito tempestivamente i sintomi dell’insolvenza o non avervi prontamente reagito; c) dall’aver utilizzato male gli strumenti utili a fronteggiare la crisi.

di Manuela Grassi

La legittimità del trust interno e la sua “tenuta” al vaglio giurisprudenzialeNel momento in cui pensiamo all’istituzione di un trust in Italia, attesa la mancanza di una disciplina positiva dell’istituto nel nostro Paese, è necessario comprendere quali siano gli elementi che devono essere presenti affinché possa essere considerato legittimo nel nostro ordinamento. A questo fine è necessario sviluppare un percorso logico e di conoscenza che parte dalle origini stesse del trust per arrivare fino ai giorni nostri e alle posizioni espresse a livello di dottrina e giurisprudenza.

di Sergio Pellegrino

TributiLa “sopravvivenza fiscale” delle società cancellate dal Registro Imprese e le nuove responsabilità di soci e liquidatoriL’articolo 28, commi 4 e ss. D.Lgs. n.175/14 ha introdotto importanti novità con riferimento agli effetti fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese ed alla responsabilità di soci, liquidatori ed amministratori per i debiti fiscali delle società estinte. Le nuove disposizioni sono già state oggetto di numerose critiche, da parte sia della dottrina sia della giurisprudenza. Una di queste critiche deve essere valutata prima di ogni altra, se si considera che il D.Lgs. n.175/14 avrebbe dovuto dare attuazione all’art.7 della Legge delega n.23/14 in tema di “semplificazione” del sistema fiscale. Tuttavia, non solo nel citato art.7 della Legge delega non si rinviene alcun riferimento alla questione delle società cancellate, ma le nuove previsioni in nessun modo possono essere giustificate nella prospettiva della semplificazione fiscale. Ne deriverebbe, secondo alcuni, l’illegittimità costituzionale (art.76 Costituzione) delle disposizioni medesime per eccesso di delega. In questa sede, cercheremo tuttavia di valutare il possibile impatto applicativo dell’art.28 D.Lgs. n.175/14, anche alla luce delle posizioni assunte, in merito, dall’Agenzia delle Entrate

di Thomas Tassani

Fusione per incorporazione della società consolidante in società “esterna” al perimetro di consolidamento fiscaleIn ipotesi di fusione per incorporazione della società consolidante in una società “esterna” al perimetro di consolidamento fiscale, la prosecuzione del regime di tassazione di gruppo in capo alla società incorporante è subordinata alla presentazione di un’apposita istanza di interpello. Inoltre, come emerge da diversi precedenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate, qualora sia ammessa la prosecuzione del consolidato fiscale, in seguito alla fusione per incorporazione della consolidante, si pone altresì il problema della qualificazione delle perdite da considerare “pregresse” rispetto al regime di tassazione di gruppo.

di Gianluca Cristofori ed Edoardo Patton

Le operazioni straordinarie da comunicare nelle dichiarazioni d’intentoDal 2015, a seguito delle novità introdotte dal Decreto sulle Semplificazioni Fiscali, l’obbligo di comunicazione dei dati delle lettere d’intento non spetta più al fornitore, ma all’esportatore abituale. Nel quadro A del nuovo modello di dichiarazione d’intento, l’esportatore abituale deve specificare se ha effettuato operazioni straordinarie che hanno concorso alla formazione, anche parziale, del plafond disponibile. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che le operazioni straordinarie in questione sono tutte quelle operazioni che possono determinare il trasferimento del plafond tra i soggetti interessati ad una operazione straordinaria, come, ad esempio, l’affitto d’azienda, il conferimento, la fusione, la trasformazione. Risulta, pertanto, necessario individuare le condizioni

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INDICEalle quali risulta subordinato il passaggio, in capo all’avente causa, del diritto di acquistare o importare beni/servizi senza applicazione dell’Iva nei limiti della soglia monetaria rappresentata dal plafond.

di Marco Peirolo

Prassi contabileOperazioni di fusione: principali aspetti contabili e fiscali. Riporto delle perdite in caso di fusione tra società che non superano il test di vitalitàCon il presente breve contributo, dopo avere rappresentato i principali aspetti contabili dell’operazione di fusione societaria, nonché le più rilevanti variabili fiscali dell’operazione, si è inteso porre all’attenzione una delle problematiche più discusse concernenti la riportabilità delle perdite fiscali e degli interessi passivi delle società partecipanti alla fusione e, principalmente, il caso in cui, al fine della valutazione della “vitalità aziendale” di cui all’art.172, co.7 Tuir, le società partecipanti alla fusione non presentino nei loro conti economici spese per prestazioni di lavoro.

di Giampiero Gugliotta e Gianluca Fedele

Gestione economico-aziendaleI principi italiani di valutazione: una sfida per gli studi professionaliLa bozza in consultazione dei principi italiani di valutazione (Piv) redatti dall’Organismo italiano di valutazione nel dicembre 2014 pone con forza il tema della certificazione di qualità delle valutazioni finanziarie nell’interesse di una maggiore trasparenza e migliore qualità dei risultati. Se l’adesione ai Piv è forse meno complessa per un insieme di soggetti specializzati nelle valutazioni finanziarie, è invece più critica per gli studi professionali che pur essendo chiamati ad un gran numero di incarichi di questo tipo hanno competenze più estese. Il presente lavoro richiama il contenuto del documento, soffermandosi sui principi più critici e lasciando di fondo le tematiche più strettamente tecniche che richiedono differenti approfondimenti. Verranno svolte in conclusione alcune considerazioni in merito alla distanza tra i principi così come oggi disponibili e la normale prassi valutativa degli studi professionali, nonché in merito alle modalità e ai tempi di effettiva adesione di tali principi.

di Massimo Buongiorno

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DIRITTO E SOCIETÀProcedure concorsuali e crisi d’impresa: gli errori più comuni e le responsabilità per gli organi sociali e i professionisti coinvoltidi Manuela Grassi – avvocato, senior partner dello Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati*

L’articolo affronta il tema degli specifici obblighi di comportamento che sorgono a carico degli organi sociali e dei revisori in prossimità dello stato d’insolvenza di un’impresa, alla luce dell’esigenza di tutelare i creditori sociali in questo anomalo momento della vita della società. Quando si verifica una situazione di crisi, caratterizzata dalla contrazione del capitale di rischio, l’interesse della società e dei soci alla massimizzazione del profitto e alla ricerca di nuove opportunità di investimento e di redditività può divergere da quello dei creditori, interessati più a una gestione cautelativa dell’attività d’impresa. In particolare, per quanto riguarda gli amministratori, una loro eventuale responsabilità in tale contesto può discendere: a) dall’aver causato o aggravato la crisi dell’impresa; b) dal non aver percepito tempestivamente i sintomi dell’insolvenza o non avervi prontamente reagito; c) dall’aver utilizzato male gli strumenti utili a fronteggiare la crisi.

La responsabilità degli amministratoriNel corso della normale attività d’impresa, il fine dell’agire amministrativo è la realizzazione dell’og-getto sociale, dal quale dipende, almeno in teoria, il massimo profitto (lecito) per i soci1.Gli amministratori devono svolgere il loro incarico con diligenza e sono responsabili nei confronti del-la società in caso contrario2, fermo restando che il loro agire è retto dalla cosiddetta business judgment rule, in base alla quale una scelta imprenditoriale non può essere sindacata col senno del poi per i suoi esiti eventualmente negativi, a meno che essa non sia stata presa in modo scriteriato.Ciò che può essere contestato agli amministratori, dunque, non è il merito di una decisione, ma even-tuali carenze nel metodo con cui essa è stata pre-sa. Assume allora importanza dirimente l’esistenza di un valido assetto organizzativo, amministrativo e contabile3 che permetta agli amministratori di ave-* Con il contributo di Luca Szegö - avvocato.1 Nel presente articolo ci riferiremo essenzialmente alla figura dell’am-ministratore di società per azioni, tenendo presente che obblighi e re-sponsabilità non mutano, in linea di principio, nel caso delle società a responsabilità limitata. 2 Cfr. articolo 2380-bis, co.1 cod.civ.: “La gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni neces-sarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”. Cfr. articolo 2392, co.1 cod.civ.: “Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e delle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri …”.3 Cfr. articolo 2381, co.3 cod.civ.: “Il consiglio di amministrazione … sulla base delle informazioni ricevute (dagli organi delegati) valuta l’a-deguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della

re sempre sotto controllo l’attività d’impresa. Solo in questo modo, infatti, le loro decisioni potranno dirsi informate e, quindi, razionali.Non è però sufficiente che tale assetto esista, ma occorre appunto che esso venga anche adeguata-mente e costantemente sfruttato, non ricorrendovi solo in occasione della redazione del bilancio che, piuttosto, dovrà intendersi quale momento di sintesi delle verifiche sin lì compiute sulle conseguenze del-le scelte fatte e sullo stato di salute dell’impresa, di modo che gli amministratori possano dare il giudizio prospettico sul futuro dell’attività sociale richiesto dalla legge4.In questi termini, l’esistenza di un valido assetto organizzativo, amministrativo e contabile, se cor-rettamente sfruttato, consente agli amministratori di andare esenti da critiche nel normale esercizio dell’attività d’impresa (giacché difficilmente la loro discrezionalità amministrativa sarà esercitata in

società”; per quanto la norma in questione riguardi in prima battuta il ruolo del consiglio di amministrazione, si ritiene che essa abbia portata generale e serva a precisare il contenuto del concetto di “diligenza” di cui all’art.2392 cod.civ..4 Cfr. art. 2428 cod.civ.: “Il bilancio deve essere corredato da una relazio-ne degli amministratori contenente … una descrizione dei principali rischi e incertezze cui la società è esposta”. Si veda anche il principio Ias 1: “Nella fase di preparazione del bilancio, la direzione aziendale deve effet-tuare una valutazione della capacità dell’entità di continuare a operare come un’entità in funzionamento … Nel determinare se il presupposto della prospettiva della continuazione dell’attività è applicabile, la dire-zione aziendale tiene conto di tutte le informazioni disponibili sul futuro, che è relativo ad almeno, ma non limitato a, dodici mesi dopo la data di chiusura dell’esercizio”.

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DIRITTO E SOCIETÀmodo irrazionale5) e, al più, frequenti insuccessi nel-le scelte imprenditoriali potranno valere come giusta causa di revoca da parte dei soci.Di ancor maggiore importanza, ai fini che qui inte-ressano, è che un tale assetto permetta agli ammini-stratori di accorgersi con anticipo delle avvisaglie di una crisi, che può dipendere non tanto da dolo o da colpa grave di costoro (e queste sono anzi le ipotesi forse meno frequenti, nelle quali comunque i sistemi di controllo possono aiutare ben poco), ma da fattori endogeni difficilmente controllabili. In questi frangenti, il “buon amministratore”, per andare esente da responsabilità, deve porre in esse-re tutte le attività necessarie per evitare che la crisi diventi un’eventualità concreta o comunque quelle utili a superarla, ricorrendo se del caso anche agli istituti disciplinati dalla legge fallimentare, sceglien-do quello più adatto allo scopo.A questo proposito, si consideri, per esempio, che:• da un lato, i meri accordi stragiudiziali con alcuni

creditori o i piani attestati ex art.67, co.3, lett. d L.F. hanno il vantaggio di essere snelli e riservati e possono dimostrarsi particolarmente efficaci se adottati in via molto anticipata, il che richiede appunto un’immediata percezione delle difficol-tà all’orizzonte;

• d’altro lato, un accordo di ristrutturazione dei debiti può permettere (anche in via cautelare e preventiva: cfr. art.182-bis, co.6 L.F.) di impedire o comunque sospendere eventuali azioni esecu-tive di alcuni creditori, che potrebbero altrimenti smembrare il patrimonio aziendale;

• a sua volta, il concordato preventivo, pur compor-tando oneri maggiori anche per i creditori (oneri che vanno dai veri e propri costi per lo studio e la messa in pratica della proposta concordataria e del relativo piano, al possibile sorgere di parti-te creditorie in prededuzione), ha il vantaggio di consentire la gestione di crisi ormai conclamate e anche per questo più complesse, con i larghi margini di manovra che oggi può offrire un con-cordato in continuità (anche nella misura in cui permette, così come l’accordo di ristrutturazione dei debiti, di omettere alcuni passaggi societari altrimenti necessari6);

5 E infatti in giurisprudenza ci sono poche eccezioni e si tratta di situazio-ni “estreme”, come il caso dell’imprenditore che aveva assunto numerosi appalti pubblici senza neppure valutare quali sarebbero stati i relativi costi per la società: cfr. Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in Le Società, 1998, 1025.6 Cfr. articolo 182-sexies L.F.: “I. Dalla data del deposito della domanda per l’ammissione al concordato preventivo, anche a norma dell’art.161,

• infine il fallimento, che gli amministratori devo-no chiedere anche in proprio (o, in alternativa, essi non devono opporsi inutilmente agli even-tuali ricorsi dei creditori) nei casi in cui il ritardo può aggravare il dissesto7 o comunque pregiudi-care eventuali azioni dei creditori8.

La scelta fra queste varie ipotesi può presentare margini di incertezza e di arbitrio e, anche in que-sto caso, ciò che conta è che l’amministratore assu-ma la propria decisione in termini razionali, tenen-do conto di quelle che sono le regole della tecnica aziendalistica; tuttavia, proprio perché si tratta di questioni diverse da quelle che concernono l’ordi-nario svolgimento della vita dell’impresa, sulle quali gli amministratori possono dunque non avere diretta esperienza e competenza, un comportamento dili-gente imporrebbe, almeno nei casi più complessi, di rivolgersi a professionisti specializzati in operazioni di turnaround.È possibile che gli amministratori non si accorgano per tempo delle avvisaglie di una crisi o che gli inter-venti correttivi pur messi in atto si dimostrino insuffi-cienti e che la crisi divenga effettiva o sfoci addirittura nell’insolvenza. In questi casi, l’agire amministrativo può andare incontro a dei precisi limiti legali.Occorre infatti considerare che, sino a quanto la so-cietà è sufficientemente capitalizzata e liquida, il fine del profitto perseguito dall’organo amministrativo nell’interesse dei soci non si pone in contrapposizio-ne con l’interesse dei creditori, che proprio dal red-dito d’impresa vedranno tratti i mezzi per far fronte alle obbligazioni verso di loro. Quando invece la so-

co.6, della domanda per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione di cui all’art.182-bis ovvero della proposta di accordo a norma del sesto comma dello stesso articolo e sino all’omologazione non si applicano gli artt.2446, co.2-3 (sulla riduzione del capitale per perdite), 2447 (sulla riduzione del capitale sotto il minimo legale), 2482-bis, co.4, 5 e 6 e 2482-ter cod.civ. (le analoghe norme previste per le società a responsabilità limitata). Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli artt.2484, n.4 e 2545-duodecies cod.civ.. II. Resta ferma, per il periodo anteriore al deposito delle domande e della proposta di cui al primo comma, l’appli-cazione dell’art.2486 cod.civ.”. 7 Cfr. articolo 217, co.1, n.4 L.F.: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che … ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”.8 Prima dell’approvazione dell’art.69-bis L.F. il caso tipico era quello di un concordato preventivo “azzardato” che impedisse poi al curatore fal-limentare di esperire alcune azioni revocatorie; tuttavia, ora che è stato definitivamente chiarito che il periodo sospetto va retrodatato al mo-mento della domanda di concordato (rectius della sua pubblicazione nel Registro Imprese), in casi di estrema urgenza, quando occorre evitare il consolidarsi di un pagamento o di una garanzia, proprio la proposizione di una tempestiva domanda di concordato in bianco, pur finalizzata al successivo fallimento, è quanto può maggiormente agevolare i creditori, potendo i tempi di questa essere più rapidi di quelli di un ricorso per fallimento in proprio.

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DIRITTO E SOCIETÀcietà vede gravemente intaccato il proprio capitale o l’ha addirittura perduto, si apre una fase significati-vamente diversa, nel corso della quale il legislatore privilegia senz’altro l’interesse dei creditori al man-tenimento della garanzia patrimoniale.In questi casi, da un lato, gli artt.2485 e 2486 cod.civ. impongono agli amministratori di denunziare im-mediatamente al registro delle imprese l’occorrere di una causa di scioglimento (la perdita del capitale, nel caso che ci interessa), a tutela di chi dovesse in futuro entrare in contatto con la società, e di “gesti-re la società ai soli fini della conservazione dell’inte-grità e del valore del patrimonio sociale”; dall’altro, l’art.2394, co.1 cod.civ. stabilisce che “gli ammini-stratori rispondono verso i creditori sociali per l’inos-servanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale”.Viene allora da domandarsi se in questi frangenti possa essere ritenuta ancora applicabile la business judgment rule oppure se la mutata prospettiva, che privilegia l’interesse dei creditori a quello dei soci, e l’esistenza degli specifici obblighi di legge appena citati, coi conseguenti limiti all’agire amministrativo, non debbano invece far ritenere che l’attività degli amministratori possa essere vagliata anche nel meri-to, con possibile contestazione ex post delle singole decisioni adottate. A questo riguardo, la dottrina pre-valente9 propende per la prima soluzione, ritenendo che in caso di crisi mutino gli obiettivi cui gli ammi-nistratori devono tendere, ma non le procedure per conseguirli; in altre parole, continuerà a non esse-re criticabile il comportamento dell’amministratore che, secondo una valutazione ex ante, risulti aver razionalmente perseguito l’obiettivo di massimizza-re il valore del patrimonio residuo per i creditori, a prescindere dai risultati poi concretamente ottenuti.

La responsabilità dei sindaciOltre alla responsabilità degli amministratori, in caso di crisi dell’impresa, soprattutto se sfociata nel fal-limento, assume rilievo quella dei sindaci (anzi, a volte essi sono i soggetti che il curatore ha maggior interesse a convenire in giudizio, in quanto di regola assicurati).Ai sensi dell’art.2403 cod.civ., fra i doveri del colle-

9 Cfr. F. Brizzi, “Responsabilità gestorie in prossimità dello stato di in-solvenza e tutela dei creditori”, in Riv. Dir. Comm., 2008, pag.1027; A. Vicari, “I doveri degli organi sociali e dei revisori in situazioni di crisi di impresa”, in Giur. Comm., 2013, I, pag.128; R. Rordorf, “Doveri e respon-sabilità degli amministratori di società di capitali in crisi”, in Le Società, 2013, pag.669; G. Bozza, “Diligenza e responsabilità degli amministratori di società in crisi”, in Il Fallimento, 2014, pag.1097.

gio sindacale vi è quello di vigilare sul rispetto del-la legge da parte degli amministratori (ad esempio, sul rispetto dell’art.2486 cod.civ., laddove si verifichi un’ipotesi di scioglimento della società) e sull’ade-guatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, assetto che, alla luce di quan-to visto sopra, può assumere importanza dirimente nell’escludere la responsabilità degli amministratori e, a cascata, quella dei sindaci10.Ai sensi dell’art.2407, co.2 cod.civ., la responsabilità del collegio sindacale è infatti una responsabilità per fatto altrui: “(I sindaci) sono responsabili solidalmen-te con gli amministratori per i fatti e le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi del-la loro carica”. In altre parole, perché i sindaci possa-no essere condannati in una causa di responsabilità, il curatore dovrà dimostrare una serie progressiva di circostanze: un inadempimento degli amministrato-ri; un danno conseguente a quell’inadempimento; un inadempimento dei sindaci ai loro doveri di con-trollo; un nesso di causalità fra l’inadempimento dei sindaci e il danno verificatosi11.Nell’ambito della responsabilità concorrente dei sin-daci ex art.2407, co.2 cod.civ., costoro sono tenuti ad assumere ogni iniziativa necessaria all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede. In quest’ottica, va ricordato che fra gli strumenti che i sindaci hanno a disposizione per supplire alle man-canze degli organi amministrativi vi è innanzitutto la possibilità di convocare direttamente l’assemblea, anche al fine di esporre fatti censurabili appresi du-rante l’attività di controllo (cfr. art.2406 cod.civ.)12; i sindaci possono poi procedere direttamente alle pubblicazioni richieste dalla legge (si pensi ad esem-pio a quelle di cui all’art.2485 cod.civ.). Laddove alla denunzia all’assemblea non venga dato alcun segui-to da parte dei soci, i sindaci sono allora obbligati a

10 Cfr. Appello di Milano, 14 ottobre 1994, in Le Società, 1995, pag.390: “È compito (dei sindaci) verificare la correttezza del procedimento deci-sionale attraverso cui quelle decisioni sono state prese ed, in particolare, se esse siano state assunte con quel grado minimo di diligenza e di pro-fessionalità che, lungi dall’investire la sfera di discrezionalità degli ammi-nistratori, costituisce per costoro l’oggetto di un vero e proprio obbligo legale”.11 Così A. Sironi, “Profili applicativi in materia di responsabilità del colle-gio sindacale”, in Riv. Dott. Comm., 2006, pag.590.12 In giurisprudenza si è ritenuto che la responsabilità per omessa con-vocazione dell’assemblea possa sussistere anche nei casi in cui la mag-gioranza sociale sia evidentemente schierata a favore degli amministra-tori (o, addirittura, siano gli stessi soci di maggioranza ad amministrare la società): cfr. Cass. n.9252/97 cit.. La minoranza, a quel punto adegua-tamente informata, può infatti ricorrere allo strumento della denunzia al Tribunale previsto dall’art.2409 cod.civ.. Cfr. altersì Cass. n.13518/14, in Le società, 1314, con commento di E.E. Bonavera.

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DIRITTO E SOCIETÀricorrere allo strumento della denunzia al Tribunale ai sensi dell’art.2409, co.7 cod.civ. o, in caso di insol-venza, a presentare un esposto al P.M. per l’eventua-le istanza di fallimento ai sensi dell’art.6, co.1 L.F..

La responsabilità dei revisoriAi sensi del principio di revisione ISA 570.6 “la re-sponsabilità del revisore è quella di acquisire elemen-ti probativi sufficienti ed appropriati sull’appropriato utilizzo da parte della direzione del presupposto del-la continuità aziendale nella redazione del bilancio e di concludere se vi sia una incertezza significativa riguardo alla capacità dell’impresa di continuare ad operare come un’entità in funzionamento”.Laddove vi siano incertezze sulla continuità azienda-le (going concern), il revisore deve confrontarsi con l’organo amministrativo, valutando con esso anche i piani per azioni future che possano permettere di superarle. In ogni caso, esso deve predisporre un’a-deguata informativa in bilancio in merito alle incer-tezze riscontrate.Inoltre, il revisore deve verificare nel corso dell’eser-cizio la corretta rilevazione dei fatti di gestione nel-le scritture contabili (cfr. art.14, co.1, lett. b D.Lgs. n.39/10) e si ritiene che tale verifica debba essere costante, secondo quanto previsto dai principi di re-visione Isa 570.11 e 570.15.A differenza del collegio sindacale, il revisore non è tuttavia tenuto ad adottare ulteriori iniziative in caso di inerzia degli amministratori, ferma restando la necessità che esso riferisca al Consiglio e al Collegio quanto appreso nel corso dell’attività di revisione, af-finché tali Organi possano se del caso attivarsi.

La responsabilità degli altri professionisti coinvoltiCon la riforma del diritto fallimentare, il Legislatore ha abbandonato la prospettiva sostanzialmente li-quidatoria sottesa al testo del 1942, privilegiando, ove appena possibile, la strada della prosecuzione dell’attività d’impresa sulla scorta di soluzioni con-cordate fra il debitore in crisi (o in “pre-crisi”) e i suoi creditori.Siffatti accordi si sostanziano di regola in vere e pro-prie operazioni di turnaround affidate a professio-nisti che - a tutela dei creditori, spesso privi degli strumenti necessari per valutare la fattibilità del-le soluzioni proposte - devono in una certa misura “assicurare” il buon esito del tentativo di ristruttu-razione. Ovviamente, tale “assicurazione” va intesa nei termini di cui sopra e quindi con valutazione pro-

spettica ex ante, da svolgersi verificando che il pro-fessionista abbia rispettato i criteri e le metodologie riconosciute per la revisione contabile13.La grande importanza data nel nuovo sistema al ruo-lo di questi professionisti, estranei alla gestione della società e affidatari di funzioni di controllo in con-dizioni di indipendenza, ha portato il Legislatore a prevedere, oltre alla normale responsabilità civile in caso di violazione degli obblighi sopra citati, uno spe-cifico reato col quale si punisce “il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli artt.67, co.3, lett. d), 161, co.3, 182-bis, 182-quinquies e 186-bis espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti” (art.236, co.1-bis L.F.)14.Per il compimento del reato è ritenuto sufficiente il dolo generico, per cui nulla quaestio se il professio-nista è a conoscenza della falsità delle informazioni riferite o dell’esistenza di informazioni rilevanti che decide di omettere. Laddove invece il professioni-sta non si sia avveduto della falsità delle informa-zioni che gli sono state trasmesse dall’imprenditore o non abbia percepito a monte l’“informazione ri-levante” che ha omesso di riferire, egli potrà esse-re al più considerato negligente (con possibile re-sponsabilità civile per colpa), senza che si configuri però il reato (ovviamente, distinguere fra le due ipotesi sarà spesso assai problematico sul versante probatorio)15.

Alcuni errori da non commettere in caso di crisi dell’impresaIn caso di crisi, soci e amministratori (a maggior ra-gione se sovrapponibili fra loro) possono essere di-sposti ad affrontare nuove attività e progetti anche estremamente rischiosi nell’ottica del “non c’è nien-te da perdere”: dal loro punto di vista, infatti, i danni si sono già realizzati (si pensi all’ipotesi del capitale ormai perduto) e non paiono poter peggiorare, men-tre un successo potrebbe salvare le sorti sociali.Il punto di vista dei creditori è evidentemente diver-

13 Cfr. F. Consulich, Nolo conoscere. “Il diritto penale dell’economia tra nuovi responsabili e antiche forme di responsabilità “paracolpevole»: spunti a partire dal nuovo art.236-bis L.F.”, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2012, pag.613.14 Secondo S. Fiore, “Nuove funzioni e vecchie questioni per il diritto penale nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa” in Il Fallimento, 2013, pag.1184, l’obiettivo che si pone la norma – e dunque il bene giuri-dico che essa tutela penalmente – è quello “di assicurare che le decisioni relative alla procedura … innanzitutto quella relativa alla sua attivazione o meno, siano assunte in maniera consapevole, avvalendosi di una base informativa affidabile, la cui formazione la legge affida appunto al pro-fessionista”.15 Cfr. F. Cerqua, “La tutela penale del concordato e dei piani attestati”, in Il Fallimento, 2014, pag.1116.

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DIRITTO E SOCIETÀgente e, a loro tutela, l’art.217, co.1, n.3 L.F. (sulla bancarotta semplice) punisce siffatte condotte op-portunistiche con le quali l’imprenditore “ha com-piuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento”; l’art.224 L.F. estende le relative sanzioni ad amministratori e sindaci della società fallita.Sempre in vista dell’eventualità di dover affrontare e gestire una situazione di crisi, è necessario che la socie-tà abbia scritture contabili sempre in ordine e aggiorna-te, perché in caso contrario potrebbe essere impossibi-le (o comunque più farraginoso) ricorrere utilmente a una procedura di risanamento (quale che sia, visto che il professionista attestatore dovrà comunque esami-nare la situazione patrimoniale e finanziaria sulla base della documentazione contabile, la cui incompletezza o inattendibilità potrebbe comportare il fallimento del piano). Inoltre, in caso di successivo fallimento i vizi del-le scritture contabili costituiscono fatto di bancarotta semplice (art.217, co.2 L.F.) se non addirittura fraudo-lenta (art.216, co.1, n.2 L.F.). Tali profili sanzionatori, unitamente al fatto che l’Ordinamento offre varie mi-sure per la risoluzione della crisi, rende vieppiù inop-portuno che gli amministratori ne rinviino l’emersione tramite artifizi contabili in bilancio.Sono ovviamente da evitare condotte distrattive o dissipative perché, anche se commesse quando la società è in bonis, esse possono pregiudicare l’acces-so al concordato preventivo o comunque provocare l’interruzione della procedura ai sensi dell’art.173 L.F.16. Inoltre, se la crisi sfocia nel fallimento, siffat-ti comportamenti possono dar luogo, oltre all’ovvia responsabilità civile nei termini visti innanzi, anche a ipotesi di bancarotta fraudolenta (e questo, addirit-tura, se commessi prima che la società divenisse in-solvente17 e senza che rilevi l’eventuale restituzione dei beni distratti18).16 Cfr. Cass. n.3543/14, in Il Fallimento, 2014, pag.1264, con nota di A. Penta, per la quale la nozione di atto in frode presuppone che la condotta del debitore fosse volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumi-bilmente comportato una valutazione negativa della proposta e, quindi, che esse siano state scoperte dal commissario giudiziale, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori.La questione è comunque discussa, visto che si è sostenuto pure che sarebbe sufficiente illustrare ai creditori tali precedenti atti distrattivi o dissipativi affinché essi possano liberamente decidere se dare il proprio assenso al concordato preventivo o votare contro causando il fallimento (diversamente, si reintrodurrebbe surrettiziamente il concetto di meri-torietà del debitore); in questo senso Corte di Appello di Milano, 10 gennaio 2014, in Il Fallimento, 2014, pag.302, con nota di F. Casa.17 Cfr. ex multis Cass. 1° ottobre 2009: “La disposizione incriminatrice della bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede, per l’integrazio-ne della fattispecie, che la condotta abbia cagionato, o concorso a ca-gionare, il dissesto, il quale riflette il substrato economico-patrimoniale dell’insolvenza e non fa parte della struttura del reato”.18 Cfr. Cass. 23 settembre 2010: “In tema di bancarotta fraudolenta, il recupero del bene distratto a seguito di azione revocatoria non spiega

Nell’ambito delle condotte depauperative poste in essere prima della presentazione della domanda e idonee ex art.173 l.f. a trarre in inganno i creditori e ad influenzarne la manifestazione (consapevole ed informata) del voto, rientrano, per esempio, i casi in cui siano state indicate voci dell’attivo inesistenti, in quanto i crediti indicati sono relativi a prestazioni che, pur se già fatturate, non sono ancora state ef-fettuate; ovvero, al caso in cui il debitore abbia rap-presentato un attivo significativamente superiore a quello a disposizione della procedura; o ancora, alle ipotesi della consapevole presentazione di un fide-iussore manifestamente insolvente e dell’offerta di garanzie reali prive di valore; o, infine, all’emissione di assegni effettuata in data anteriore alla domanda di concordato allo scopo di provvedere al pagamen-to di crediti anteriori, qualora l’incasso sia avvenuto dopo l’apertura della procedura ed in mancanza di autorizzazione del tribunale19.È inoltre senz’altro opportuno che, in caso di crisi, gli amministratori evitino di percepire emolumenti in danno degli altri creditori o, in generale, di procedere a pagamenti in violazione della par con-dicio creditorum.In ottica concordataria, se è vero che può risultare opportuno procedere al preventivo affitto dell’a-zienda, onde evitare ogni soluzione di continuità nell’attività d’impresa, va considerato che l’affitto a condizioni svantaggiose può essere foriero di respon-sabilità, soprattutto se non si prevede la possibilità di recesso senza “penali” da parte del curatore (così da evitare il sorgere di costi in prededuzione ex art.79 L.F.). Inoltre, la scelta di un affittuario “di comodo”, col tentativo di svuotare il valore dell’azienda (si pen-si soprattutto alla clientela e all’avviamento) che do-vesse essere poi restituita al curatore, può costituire fatto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

alcun rilievo sulla sussistenza dell’elemento materiale del reato di banca-rotta, il quale - perfezionato al momento del distacco del bene dal patri-monio dell’imprenditore - viene a giuridica esistenza con la dichiarazione di fallimento, mentre il recupero della “res” rappresenta solo un “poste-rius” - equiparabile alla restituzione della refurtiva dopo la consumazio-ne del furto - avendo il legislatore inteso colpire la manovra diretta alla sottrazione, con la conseguenza che è tutelata anche la mera possibilità di danno per i creditori”.19 Cfr. in tal senso Corte di Appello di Ancona 4 dicembre 2013, in Il Fal-limento 2014, pag.598.

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DIRITTO E SOCIETÀLa legittimità del trust interno e la sua “tenuta” al vaglio giurisprudenzialedi Sergio Pellegrino - dottore commercialista e revisore legale

Nel momento in cui pensiamo all’istituzione di un trust in Italia, attesa la mancanza di una disciplina positiva dell’istituto nel nostro Paese, è necessario comprendere quali siano gli elementi che devono essere presenti affinché possa essere considerato legittimo nel nostro ordinamento.A questo fine è necessario sviluppare un percorso logico e di conoscenza che parte dalle origini stesse del trust per arrivare fino ai giorni nostri e alle posizioni espresse a livello di dottrina e giurisprudenza.

Le origini del trust ed il suo sviluppoNon è questa naturalmente la sede per trattare in modo diffuso la storia del trust, che pure è estrema-mente affascinante.Qualche breve considerazione sulle sue origini è però utile per comprenderne lo sviluppo, che si è avuto fondamentalmente nei soli Paesi di common law.Il trust è infatti un prodotto del diritto inglese, in par-ticolare della giurisdizione dell’equity, che si è svi-luppata come alternativa alle regole di common law sottraendo alle Corti reali ordinarie le controversie in relazione alle quali queste non disponevano di alcun rimedio giudiziario e sottoponendole alle Corti di co-scienza del Cancelliere del Re.Lo sviluppo del trust è risalente all’epoca medievale e l’istituto vanta quindi in Inghilterra una tradizione secolare.A partire dal XIX° secolo il Parlamento inglese ha emanato leggi in materia di trust, ma ancora oggi la sostanza del diritto dei trust la rinveniamo nelle pro-nunce giurisprudenziali.Grande importanza ebbe, a livello normativo, l’e-manazione del primo Trustee Act, risalente al 1893, che rappresentò il modello “esportato” nelle colonie dell’Impero britannico nel momento della sua mas-sima espansione.Tutti i paesi e territori che facevano parte dell’Impe-ro hanno quindi conosciuto l’istituto del trust, che però nel tempo è stato “rielaborato” in chiave loca-le, tenendo conto anche del proprio contesto socio economico e delle proprie tradizioni giuridiche: si è arrivati in determinate situazioni all’elaborazione di modelli di trust non coerenti con quello legato alla “tradizione” inglese.Negli ultimi decenni, poi, si è sviluppata una “corsa” da parte delle giurisdizioni offshore all’introduzione di nuovi strumenti sempre più “competitivi” con l’o-biettivo di attrarre capitali stranieri.

Lo sviluppo tumultuoso e a tratti impetuoso del trust non ha però interessato i paesi di civil law, come è appunto il nostro, che sono rimasti, con poche ecce-zioni1, impermeabili rispetto ad un istituto così lonta-no dalla loro tradizione.

La “contaminazione” nei paesi di diritto civileIl mancato sviluppo dell’istituto del trust nei paesi di diritto civile non ha impedito comunque che si ve-rificasse una “contaminazione” nel momento in cui trust “stranieri” venivano in contatto con il diritto in-terno di un Paese non-trust2.Ciò si verificava nel momento in cui nel patrimonio in trust vi erano beni situati nel Paese privo della legi-slazione in materia di trust, ma al cui diritto interno dovevano ricondursi le regole che ne disciplinavano la proprietà e la gestione.Che questa “contaminazione” fosse effettiva, e non soltanto teorica o potenziale, è dimostrato dalle pro-nunce giurisprudenziali intervenute nel nostro paese in materia di trust, alcune delle quali davvero risalenti: la prima è datata 21 febbraio 1899 e in quella occasio-ne la Corte di Cassazione del Regno d’Italia3 si dovette pronunciare su un trust istituito da un cittadino ingle-se che aveva dei beni immobili in Sardegna4.Importanza fondamentale per il riconoscimento del trust in Italia, sebbene in senso negativo, l’ha avu-ta una sentenza del Tribunale di Oristano del 19565, chiamato a valutare di chi fosse la proprietà di terre-

1 Come il Liechtenstein e Malta.2 Ossia privo di una legislazione interna in materia di trust, come è anco-ra nel caso dell’Italia.3 Corte di Cassazione di Roma, 21 febbraio 1899 in La giurisprudenza italiana sui trust, Ipsoa 2011: i Giudici arrivarono alla conclusione che un trust non potesse dispiegare effetti nel nostro Paese.4 Altra sentenza in materia di trust venne pronunciata dalla Corte di Ap-pello di Napoli il 22 aprile 1908, seguita dalla Corte di Cassazione di Na-poli il 29 marzo 1909 in La giurisprudenza italiana sui trust, Ipsoa 2011.5 Tribunale di Oristano, 15 marzo 1956 in La giurisprudenza italiana sui trust, Ipsoa 2011.

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DIRITTO E SOCIETÀni in Sardegna disposti in un trust testamentario isti-tuito da un cittadino inglese e oggetto di un espro-prio promosso da un ente pubblico.I giudici indicarono come il trust creerebbe una dop-pia proprietà: la prima “formale o nominale” in capo al trustee e l’altra “sostanziale e reale” in capo ai be-neficiari, che quindi sarebbero i veri proprietari dei beni disposti in trust.Non solo le conclusioni dei giudici di Oristano si de-vono considerare tecnicamente sbagliate, ma ven-nero “aggravate” dall’affermazione che la diffusio-ne del trust nel nostro Paese avrebbe (addirittura) potuto produrre “nella coscienza e nella opinione pubblica e nell’economia italiana un grave turba-mento”.Questa posizione venne smentita con decisione da una successiva importante sentenza, quella del Tri-bunale di Casale Monferrato del 19846, che inqua-drò in modo più corretto il concetto di proprietà nel trust, arrivando alla conclusione che proprietario dei cespiti è il trustee (e non vi è quindi una doppia proprietà).

La convenzione de l’AjaLe pronunce dei Tribunali italiani che abbiamo richia-mato dimostrano come fosse avvertita l’esigenza di una regolamentazione della presenza dei trust nei Paesi non-trust e come questa esigenza fosse avver-tita, allo stesso modo, dai Paesi di common law nei quali i trust venivano istituiti.Con questo “spirito” si arrivò alla Convenzione de l’A-ja del 1° luglio 1985 sulla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento7.Nel preambolo della Convenzione si evidenzia con chiarezza quella che è l’origine del trust e come sia ne-cessario risolvere una serie di problemi legati agli in-teressi dei trust nei paesi che non conoscono l’istituto.Il preambolo afferma infatti che:6 Tribunale di Casale Monferrato, 13 aprile 1984 in La giurisprudenza italiana sui trust, Ipsoa 2011.“Una cittadina inglese aveva istituito con il proprio testamento un trust nel quale aveva disposto il proprio patrimonio con alcuni immobili in Italia. L’esecutore testamentario, nominato trustee, avrebbe dovuto vendere gli immobili per attribuire il danaro ai figli una volta divenuti maggiorenni. Considerata la minore età dei beneficiari, il trustee si era posto il problema dell’eventuale necessità dell’autorizzazione del giudice alla vendita. Nella sentenza viene affermato che il trustee non è tenuto a chiedere l’autorizzazione per la vendita dei beni immobili disposti in trust in considerazione del fatto che egli si deve considerare proprietario a tutti gli effetti dei beni”.7 Gli Stati che hanno sottoscritto e ratificato la Convenzione sono ad oggi: Australia, Canada, Cina, Cipro, Francia, Italia, Liechtenstein, Lus-semburgo, Malta, Monaco, Paesi Bassi, Regno Unito, San Marino, Stati Uniti, Svizzera. L’elenco è consultabile su:http://www.hcch.net/index_en.php?act=conventions.status&cid=59.

“Gli Stati firmatari della presente Convenzione, considerando che il trust è un istituto peculiare creato dai tribunali di equità dei paesi della Com-mon Law, adottato da altri paesi con alcune mo-difiche, hanno convenuto di stabilire disposizioni comuni relative alla legge applicabile ai trust e di risolvere i problemi più importanti relativi al loro riconoscimento, hanno deciso di stipulare a tal fine una Convenzione e di adottare le seguenti disposizioni”.

La finalità della Convenzione è dunque quella di ri-conoscere negli ordinamenti dei Paesi firmatari gli effetti derivanti dai trust anche nelle situazioni in cui il trust opera nell’ambito di ordinamenti che non co-noscono l’istituto né lo disciplinano.L’esigenza nasce dal fatto che da un lato vi è il trust con la disciplina della legge regolatrice che lo gover-na, dall’altro i beni e diritti disposti in trust sono sog-getti alla disciplina interna del paese in cui si trovano.L’Italia fu, nel 1989,8 il secondo Paese, dopo il Regno Unito, a ratificare la convenzione, che entrò in vigore il 1° gennaio 1992, a seguito della ratifica effettuata dall’Australia nel 19919.Il fatto che fra i primi tre Stati a ratificare la con-venzione due fossero Paesi di common law dimo-stra ulteriormente, laddove ve ne fosse il bisogno, come la finalità perseguita dalla convenzione fosse appunto quella di cercare di “regolamentare” i rap-porti fra trust e diritto interno dei Paesi in cui sono situati i beni che fanno parte del patrimonio dispo-sto in trust.La Convenzione quindi nasce con l’obiettivo di rego-lamentare l’“intrusione” del trust negli ordinamenti non-trust, ma, almeno in Italia, di fatto il suo risul-tato più significativo è stato quello di consentire lo sviluppo dei trust interni.

Lo sviluppo dei trust interni in italiaNel nostro paese il trust non è un istituto tipico disci-plinato dal codice civile.Nel disegno di legge della “Comunitaria 2010” era in realtà prevista l’introduzione nel libro quarto del Codice civile del cosiddetto contratto di fiducia, che doveva rappresentare il “trust” italiano, ma poi quel-la previsione non ebbe concreta attuazione. Ad oggi, quindi, il trust non ha una propria disciplina interna, questo naturalmente sul versante civilistico,

8 L. n.364/89 “Legge applicabile ai trust e loro riconoscimento”.9 L’articolo 30 della Convenzione prevedeva infatti che questa entrasse in vigore “il primo giorno del terzo mese dopo il deposito del terzo stru-mento di ratifica, accettazione o approvazione previsto dall’art.27”.

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DIRITTO E SOCIETÀmentre a livello fiscale vi è una normativa consolida-tasi a partire dall’intervento realizzato con la Finan-ziaria 2007 con la quale il trust, attraverso una finzio-ne giuridica, è stato “personificato” da un punto di vista tributario come soggetto Ires10.Mancando una disciplina interna, lo sviluppo dei trust nel nostro Paese poggia quindi sulla Convenzione.Con un’approssimazione possiamo definire il trust interno come un trust istituito in Italia da soggetti residenti nel nostro Paese, generalmente (o quanto-meno in prevalenza) disponendo beni che si trovano in Italia, in relazione al quale i beneficiari sono ita-liani e con il trustee residente nel nostro Paese dove gestisce il patrimonio in trust. L’unico elemento “non interno” sarebbe quindi la legge regolatrice, che per quanto ci siamo detti deve per forza di cose essere straniera.Non tutti concordano però sulla legittimità del trust interno. Una parte minoritaria della dottrina ritiene che la Convenzione rappresenti una normativa di diritto internazionale privato emanato unicamente per consentire ai trust internazionali di produrre effetti nei Paesi privi di una legislazione sul trust. Non ci sa-rebbe quindi riconoscimento del trust privo di carat-teristiche di internazionalità, naturalmente ulteriori rispetto alla legge regolatrice.Sul punto va detto che, pur non essendovi una po-sizione “definitiva” da parte della giurisprudenza di legittimità, che non si è mai espressa in modo diret-to sul punto, vi sono alcune pronunce emesse dalle sezioni penali della Cassazione, in particolare sul se-questro preventivo penale di beni conferiti in trust, così come della sezione civile, in materia di abuso del diritto e sui profili impositivi, che implicitamente “ri-conoscono” il trust interno11.La giurisprudenza di merito è invece schierata in modo nettamente preponderante per la legittimità del trust interno.

10 L’articolo 73 Tuir fa riferimento ai trust nelle lett. b), c) e d):“Sono soggetti all’imposta sul reddito delle società:a) …;b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel Terri-torio dello Stato;d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza persona-lità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato”.11 Anche se in taluni casi con conclusioni sconfortanti, com’è per le re-centissime sentenze della sezione tributaria della Corte di Cassazione n.3735/15 e n.3737/15.

La sentenza più importante da questo punto di vi-sta è stata quella del tribunale di Bologna del 200312, che rappresenta il punto di riferimento a livello giu-risprudenziale.Va detto che, sebbene in misura minoritaria, non sono mancate pronunce di segno contrario, anche in tempi recenti: da ultimo quella del Tribunale di Udi-ne del 28 febbraio 201513.

Il ruolo della convenzione de l’AjaIl ruolo della Convenzione è quindi un ruolo fonda-mentale ed appare di conseguenza necessario cono-scerne le disposizioni più rilevanti.Si tratta di un documento complesso, che presenta nel contempo più fattispecie normative.Questo è evidente già dalla lettura dell’art.1 che affer-ma che “La presente convenzione determina la legge applicabile ai trust e ne regola il riconoscimento”.Quindi la Convenzione si pone l’obiettivo non sol-tanto di determinare la legge applicabile ai trust in situazioni di possibili conflitti di legge, ma anche di regolare il riconoscimento del trust nell’ambito degli Stati aderenti.Attesa la natura “multiforme” del trust, la Conven-zione non può fornire una definizione univoca dell’i-stituto, ma indica che è riconoscibile come trust qualsiasi fattispecie riconducibile all’ampia nozione delineata dall’art.2 della Convenzione stessa.La disposizione stabilisce che per trust si intendono “i rapporti giuridici istituiti da una persona, il dispo-nente - con atto tra vivi o mortis causa - qualora dei beni siano posti sotto il controllo di un trustee nell’in-teresse di un beneficiario o per un fine determinato”.Già da questa prima indicazione possiamo trarre tutta una serie di nozioni estremamente utili sull’istituto.La prima è che il trust viene definito come un rappor-to giuridico e da questo si evince che il trust non ha un’autonoma personalità giuridica14.Poi la forma dell’istituto: è necessario un atto, tra vivi o mortis causa15.L’individuazione dei protagonisti del trust: il dispo-nente che pone in essere un rapporto giuridico per il

12 Tribunale di Bologna, 1 ottobre 2003 in La giurisprudenza italiana sui trust, Ipsoa 2011.13 Tribunale di Udine, n.12.875 del 28 febbraio 2015: “Nonostante la rilevata autorevolezza e la crescente diffusione dell’orientamento preva-lente, questo giudice ritiene di aderire alla tesi minoritaria secondo cui lo scopo della Convenzione dell’Aja (e quindi anche della legge di ratifica) è solo quello di permettere ai trust costituiti nei paesi di common law di operare anche nei sistemi di civil law”.14 Soltanto sul versante fiscale, si è detto, viene “personificato” con una finzione giuridica.15 La Convenzione ammette quindi anche il c.d. trust testamentario.

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DIRITTO E SOCIETÀquale determinati beni vengono assoggettati al con-trollo di un trustee a favore di un beneficiario o di un determinato fine.Poi l’articolo 2 prosegue individuando quelli che sono gli elementi che caratterizzano il trust:• i beni in trust costituiscono una massa distinta e

non sono parte del patrimonio del trustee;• sono intestati al trustee o ad altro soggetto per

conto del trustee;• il trustee è investito del potere e contemporane-

amente onerato dell’obbligo di: ෮ rendere conto; ෮ di amministrare, gestire o disporre in confor-

mità alle disposizioni del trust e secondo le norme di legge impostegli.

Il fatto che il trustee controlli i beni in trust, come indica la disposizione, comporta che non può essere considerato un mandatario né del disponente né dei beneficiari, ma piuttosto è fiduciario della realizza-zione dell’affidamento e le sue obbligazioni sono in-dirizzate a questo e non verso il disponente.Evidente è quindi la differenza sostanziale rispetto al negozio fiduciario: il trustee non deve rendere conto del suo operato al disponente, che dopo l’istituzione del trust dovrebbe “uscire di scena”, ma ai beneficia-ri ed eventualmente al guardiano.Il trustee diventa proprietario dei beni, ma la se-gregazione patrimoniale del fondo in trust riguarda tanto il disponente quanto il trustee: il fondo forma una massa che deve essere considerata distinta dal patrimonio personale del trustee stesso.La parte finale dell’articolo 2 indica come “Il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà o che il trustee abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”.Il disponente potrebbe essere anche il trustee, e al-lora si parla di trust auto-dichiarato.In questa fattispecie manca un atto di trasferimen-to di beni e diritti, dal disponente o da un terzo a favore del trustee, e quindi si realizza soltanto una segregazione di beni nell’ambito del patrimonio del disponente stesso.Il fatto che l’articolo 2 faccia riferimento sia alla figu-ra del disponente che del trustee ha indotto alcuni ad affermare che il trust auto-dichiarato non è com-patibile con la Convenzione.Da ultimo è arrivata a questa conclusione anche la sezione tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza n.3735/15 del 24 febbraio scorso nella qua-le è stato affermato che:

“Il negozio realizzato da …, benché sia denomina-to trust, non né ha la fisionomia: ne mancano, di-fatti, uno dei tratti tipologicamente caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del settlor dei beni costituiti in trust, al fine del consegui-mento dell’effetto, con carattere reale, di desti-nazione del bene alla soddisfazione dell’interesse programmato”.

La maggior parte degli interpreti ritiene, invece, che anche il trust auto-dichiarato sia ricompreso nell’am-bito della Convenzione, perché se è vera la circostan-za che il trust presuppone una duplice posizione, quella del disponente e quella del trustee, la Conven-zione non richiede che i ruoli in questione debbano essere per forza di cose ricoperti da soggetti diversi.Il disponente potrebbe essere anche beneficiario, perfino l’unico beneficiario, purché non sia anche nel contempo trustee.Questo aspetto però all’atto pratico andrà valutato con attenzione anche alla luce delle implicazioni che può avere dal punto di vista della valutazione dello stesso da parte dell’Amministrazione finanziaria16.Il successivo articolo 3 indica come “La Convenzione si applica solo ai trusts costituiti volontariamente e comprovati per iscritto”. Quindi il trust della Convenzione deve essere volon-tario, e non dunque disposto dall’autorità giudiziaria, e soprattutto comprovato per iscritto, di modo che non sarà ammissibile il trust verbale o risultante da comportamenti concludenti17.L’articolo 6 stabilisce che “Il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente”: quindi è il soggetto di-sponente che, istituendo il trust, sceglie la legge re-golatrice.Bisogna fare dunque ricorso ad una legge regolatrice straniera per disciplinare i rapporti derivanti dall’i-stituzione di un trust in Italia. L’utilizzo di una legge regolatrice straniera, ad esempio quella di Jersey18, nella disciplina di un trust interno non comporta la necessaria conoscenza, da parte del professionista che predispone l’atto istitutivo di trust o del trustee che ne deve realizzare il programma, di tutta la legi-slazione e la fiscalità di Jersey. Dal punto di vista le-gislativo, sarà, infatti, sufficiente la conoscenza della legge di Jersey in materia di trust, mentre sul versan-

16 Che potrà considerare il trust interposto. Si vedano al riguardo le con-siderazioni espresse dall’Agenzia, in particolare nella Circolare n.61/E/10.17 Che sarebbe considerato perfettamente legittimo in altri ordinamenti, a partire da quello inglese.18 Probabilmente la più utilizzata come legge regolatrice dai trust istituiti in Italia.

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DIRITTO E SOCIETÀte fiscale, sulla base della stessa previsione contenu-ta nella Convenzione, varranno le norme tributarie italiane19.Va sottolineato come in realtà l’elemento fonda-mentale che disciplina il trust non è tanto la legge regolatrice, quanto piuttosto l’atto istitutivo. Al là di quanto previsto dalla legge regolatrice, che tra l’al-tro, generalmente conterrà davvero poche norme inderogabili, se il disponente di un trust ha un parti-colare (e legittimo) “desiderio” potrà tradurlo in una clausola dell’atto istitutivo, e così vincolerà l’azione del trustee.Da qui discende la necessità di strutturare bene l’atto istitutivo, rifuggendo da formulari e costruendolo su misura in base alle esigenze manifestate dal dispo-nente.Il successivo articolo 11 si occupa del riconoscimen-to del trust nel momento in cui sono soddisfatte le prescrizioni previste dalla Convenzione e dalla legge regolatrice prescelta.

“Un trust costituito in conformità alla legge spe-cificata al precedente capitolo dovrà essere rico-nosciuto come trust. Tale riconoscimento implica quanto meno che i beni del trust siano separati dal patrimonio personale del trustee, che il tru-stee abbia le capacità di agire in giudizio ed es-sere citato in giudizio, o di comparire in qualità di trustee davanti a un notaio o altra persona che rappresenti un’autorità pubblica”.

Gli effetti principali del riconoscimento sono:a) che i creditori personali del trustee non possano

sequestrare i beni del trust; b) che i beni del trust siano separati dal patrimonio

del trustee in caso di insolvenza di quest’ultimo o di sua bancarotta;

c) che i beni del trust non facciano parte del regime matrimoniale o della successione dei beni del trustee;

d) che la rivendicazione dei beni del trust sia per-messa qualora il trustee, in violazione degli ob-blighi derivanti dal trust, abbia confuso i beni del trust con i suoi e gli obblighi di un terzo posses-sore dei beni del trust rimangono soggetti alla legge fissata dalle regole di conflitto del foro.

L’articolo 15 della Convenzione contiene una clauso-la generale di salvaguardia delle norme imperative della legge cui rinviano le regole di conflitto del foro:

19 Hanno quindi poco senso le considerazioni talora sviluppate in alcune sentenze circa il fatto che la legge regolatrice scelta dal disponente sia riconducibile ad un paradiso fiscale.

si tratta di un elenco esemplificativo di disposizioni che, se violate, implicano il fatto che il trust non può essere riconosciuto ai sensi della Convenzione.Un esempio è quello della legittima, che in alcuni pa-esi come il nostro è assicurata agli eredi, mentre in altri ordinamenti, come ad esempio quello inglese, non è conosciuta.In considerazione del fatto che l’art.15 indica espres-samente fra le disposizioni interne che non possono essere violate i testamenti e le devoluzioni ereditarie, ed in particolare le successioni necessarie, un trust che scegliesse una legge regolatrice che consente di “diseredare” i discendenti si porrebbe in contrasto con le norme imperative dell’ordinamento interno.Questo non implica che necessariamente il trust debba essere considerato nullo o invalido, ma che alcuni suoi effetti rispetto ai diritti tutelati dalle nor-me imperative siano da considerare inefficaci.Quindi se abbiamo un trust i cui atti di dotazione le-dono i diritti dei legittimari, sarà soggetto all’even-tuale azione di riduzione l’atto di dotazione nei limiti dei diritti del pretermesso, mentre l’atto di trust sarà integralmente legittimo.Su questo punto è opportuno soffermarsi perché evidenzia come gli effetti del trust siano il frutto del-la combinazione di due distinti momenti negoziali.Da un lato abbiamo l’atto istitutivo, che è un atto unilaterale con il quale il disponente definisce il pro-gramma del trust, individua quelle che saranno le obbligazioni del trustee, sceglie la legge regolatrice.Dall’altro abbiamo gli atti di dotazione del trust, con i quali il disponente o anche un soggetto terzo trasfe-risce beni e diritti al trustee affinché questi li utilizzi per la realizzazione delle finalità individuate nell’atto istitutivo.Nell’esperienza professionale talvolta questa distin-zione sfugge perché dal Notaio facciamo spesso un unico atto che contiene entrambi i negozi: va detto che, sebbene racchiusi in un unico documento, man-tengono in ogni caso la loro autonomia giuridica, come si evince anche dalla lettura dell’art.4 della Convenzione che ci dice che i negozi dispositivi col-legati al trust sono disciplinati dalla legge interna e non da quella regolatrice straniera.Altra norma imperativa è quella circa la protezione di creditori in casi di insolvibilità.Nel caso in cui vi sia un trust, per il quale la legge regolatrice non prevede alcuna tutela dei creditori, sarà l’atto di dotazione ad essere eventualmente soggetto ad azione revocatoria nella misura in cui lede i diritti dei creditori stessi.

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DIRITTO E SOCIETÀGrande rilevanza ha poi l’art.13, che viene “invoca-to” dai giudici nazionali per disconoscere la legittimi-tà di un trust interno.La disposizione stabilisce che nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione.La disposizione in questione consente al giudice di non riconoscere il trust regolato dalla legge straniera nel caso in cui, pur non essendo applicabili le norme di salvaguardia contenute negli articoli 15, 16 e 18 della Convenzione stessa, il giudice consideri ugualmente il trust non meritevole di riconoscimento in quanto in contrasto con i principi dell’ordinamento, aggirando in questo modo l’applicazione di norme inderogabili del sistema nel quale il trust deve operare.

La legittimità del trust internoSiamo quindi arrivati alla conclusione che il trust in-terno può essere legittimamente istituito in Italia se rispetta le prescrizioni della Convenzione.Dobbiamo a questo punto verificare se la separazio-ne patrimoniale che deriva dall’istituzione del trust “regge” di fronte alla previsione dell’art.2740 cod.civ. che sancisce il principio dell’unicità del patrimo-nio del debitore e della responsabilità illimitata del suo titolare con tutti i beni presenti e futuri per le ob-bligazioni assunte e prevede, al secondo comma, che le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge.Di situazioni nelle quali vige il beneficio della respon-sabilità limitata il nostro ordinamento ne contempla diverse20.Da ultimo quella degli atti di destinazione, discipli-nati dall’art.2645-ter cod.civ.21, a seguito dell’intro-20 Facciamo degli esempi: godono della responsabilità limitata i soci di società di capitali e gli accomandanti delle società in accomandita sem-plice; i beni sottoposti a fondo patrimoniale non possono essere pigno-rati dai creditori se non a fronte di obbligazioni contratte per i bisogni della famiglia del debitore; l’erede che accetti l’eredità con beneficio d’inventario.21 Articolo 2645-ter codice civile: trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche. “Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla rea-lizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabili-tà, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art.1322, co.2, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati

duzione dei quali vi può essere una destinazione di beni a scopi non predefiniti dalla legge, ma rimessi all’autonomia privata, che devono essere però me-ritevoli di tutela.L’atto di destinazione è comunque un istituto tipico, che rientra quindi a pieno titolo nella previsione del secondo comma dell’art.2740, ed il fatto che la di-sposizione in questione lasci all’autonomia privata la definizione degli scopi non inficia questo tipo di valutazione.Sulla base di questa chiave di lettura, parte della dottrina ritiene che anche per il trust vada individua-ta una base normativa che legittimi la deroga della previsione dell’art.2740 cod.civ.: la fonte di questa deroga deve essere rinvenuta nell’art.11 della Con-venzione che dispone come effetto necessario del ri-conoscimento del trust la segregazione patrimoniale che da esso deriva. In virtù della ratifica della Con-venzione operata dall’Italia, la norma in questione determina il fatto che la segregazione patrimoniale originata dal trust non è incompatibile con il nostro sistema giuridico.Secondo altra autorevole dottrina22, invece, non bi-sogna neppure cercare una deroga in quanto la se-gregazione opera direttamente sul patrimonio e solo indirettamente sulla responsabilità e quindi è sot-tratta all’operatività dell’art.2740.In considerazione del fatto che l’art.2645-ter cod.civ. condiziona la segregazione patrimoniale dell’atto di destinazione al perseguimento di un interesse meri-tevole, ci si chiede se la medesima logica debba vale-re anche per il trust e se quindi vada verificato se l’i-stituto persegua interessi maggiormente meritevoli di tutela rispetto al sacrificio imposto ai creditori e agli aventi causa.Qui le visioni della dottrina sono differenti: alcuni ritengono che il giudizio di meritevolezza previsto dall’art.2645-ter abbia una portata generale, mentre altri, in modo più convincente, ritengono che una scelta di questo tipo avrebbe dovuto incidere sull’ar-ticolo 2740 e non su una disposizione che si limita a disciplinare uno specifico istituto.Per il trust più che l’interesse meritevole nell’acce-zione dei vincoli di destinazione va verificata la causa in concreto.Secondo la giurisprudenza prevalente e parte della dottrina andrebbe verificata anche una particola-

solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire og-getto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’art.2915, co.1, solo per debiti contratti per tale scopo”.22 M. Lupoi “Istituzioni del diritto del trust e degli affidamenti fiduciari”.

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DIRITTO E SOCIETÀre utilità del trust rispetto ad altri istituti già messi a disposizione dall’ordinamento23: in quest’ottica il trust dovrebbe essere considerato uno strumento residuale, da utilizzare soltanto quando gli ordinari strumenti civilistici non consentono il raggiungimen-to dello stesso risultato.Aspetto fondamentale da tenere in debita conside-razione è il fatto che il trust non può essere consi-derato uno strumento di protezione del patrimonio tout court. La segregazione del patrimonio deve essere l’effetto e non la causa dell’atto con il quale istituisco il trust. Il patrimonio disposto in trust deve essere infatti ge-stito dal trustee per realizzare le finalità indicate dal disponente e per questo sui beni e diritti vi deve es-sere il vincolo di destinazione.Se così non è, e dall’atto emerge come, in realtà, la finalità perseguita dal disponente sia di fatto stata

23 Con una logica non dissimile da quella che segue in campo fiscale la disciplina antielusiva.

soltanto quella di ridimensionare nei suoi confronti la portata dell’art.2740 cod.civ., e quindi i diritti dei creditori, quell’atto potrà essere considerato nullo.Esaminando le più recenti pronunce giurispruden-ziali in materia di trust, emerge come la valutazione circa la sua legittimità fatta dai giudici poggi in parti-colare sulla valutazione della circostanza che dall’at-to istitutivo emerga come finalità il perseguimento di un interesse meritevole di tutela e che questo non possa essere raggiunto allo stesso modo da altri stru-menti tipici offerti dal nostro ordinamento.Questi aspetti vanno pertanto tenuti in debita consi-derazione nel momento in cui andiamo a predispor-re l’atto istitutivo del trust ed in particolare le sue premesse, che ne rappresentano la parte più deli-cata e allo stesso tempo fondamentale, dalla lettura delle quali il terzo interessato dovrà verificare l’effet-tiva sussistenza della causa in concreto.

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Milano 08 aprile 2015

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TRIBUTILa “sopravvivenza fiscale” delle società can-cellate dal Registro Imprese e le nuove re-sponsabilità di soci e liquidatoridi Thomas Tassani - professore diritto tributario Università di Urbino

L’articolo 28, commi 4 e ss. D.Lgs. n.175/14 ha introdotto importanti novità con riferimento agli effetti fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese ed alla responsabilità di soci, liquidatori ed amministratori per i debiti fiscali delle società estinte.Le nuove disposizioni sono già state oggetto di numerose critiche, da parte sia della dottrina sia della giurisprudenza1. Una di queste critiche deve essere valutata prima di ogni altra, se si considera che il D.Lgs. n.175/14 avrebbe dovuto dare attuazione all’art.7 della Legge delega n.23/14 in tema di “semplificazione” del sistema fiscale.Tuttavia, non solo nel citato art.7 della Legge delega non si rinviene alcun riferimento alla questione delle società cancellate, ma le nuove previsioni in nessun modo possono essere giustificate nella prospettiva della semplificazione fiscale. Ne deriverebbe, secondo alcuni, l’illegittimità costituzionale (art.76 Costituzione) delle disposizioni medesime per eccesso di delega2. In questa sede, cercheremo tuttavia di valutare il possibile impatto applicativo dell’art.28 D.Lgs. n.175/14, anche alla luce delle posizioni assunte, in merito, dall’Agenzia delle Entrate3.

La sopravvivenza fiscale della società giuri-dicamente estintaIl quarto comma dell’art.28 D.Lgs. n.175/14 stabili-sce che “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e ri-scossione dei tributi e contributi, sanzioni e interes-si”, “l’estinzione della società di cui all’art.2495 cod.civ. ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro Imprese”.A parte l’uso disinvolto, da parte del legislatore, della grammatica italiana, la disposizione normativa pro-duce alcuni importanti effetti giuridici.In primo luogo, si determina una divaricazione tra esistenza giuridica della società e rilevanza fiscale dello stesso soggetto. Infatti, la cancellazione dal Registro Imprese provoca un effetto estintivo pieno ed irrevocabile sul piano civilistico, nel senso che la società di capitali (o di persone) non può più considerarsi sussistente dopo

1 Si veda CTP di Reggio Emilia, sent. n.5 del 22 gennaio 2015.2 T. Tassani, “Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: pro-fili fiscali”, in Rass. Trib., 2014, pag.1033; Consiglio Nazionale Forense, Commissione per le problematiche tributarie, Gli effetti della cancella-zione delle società dal registro delle imprese tra norma generale e “nor-ma in deroga”, 11 marzo 2015.3 Circolare n.6/E/15 e Circolare n.31/E/14.

la cancellazione medesima4. Estinguendosi il soggetto, si estingueranno di conse-guenza gli organi sociali ed anche il patrimonio so-cietario.Questi effetti non vengono toccati dall’art.28 D.Lgs. n.175/14, che tuttavia prevede una sorta di soprav-vivenza fiscale della società, ma solo sul piano del procedimento/processo tributario.Ciò comporta, soprattutto, che l’Amministrazione fi-nanziaria potrà continuare a intestare e notificare gli atti impositivi alla società, nonostante la cancellazio-ne, per un periodo di 5 anni successivi alla richiesta della cancellazione.È noto come tali atti, nel regime previgente, fossero stati considerati dalla dottrina e dalla giurisprudenza come “radicalmente nulli” o “inesistenti”, stante la definitiva estinzione del soggetto; il che aveva con-dotto alla soccombenza dell’Amministrazione in di-versi contenziosi. Se, dunque, in questo modo gli Uffici vedono legitti-mata la propria prassi di continuare ad intestare gli atti impositivi alle società nonostante l’avvenuta can-cellazione, è al tempo stessa da considerare ulteriori problematiche applicative:4 Salvo l’ipotesi, peraltro marginale, della “cancellazione della cancella-zione” della società dal Registro Imprese.

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TRIBUTIa) se la società è giuridicamente estinta, si pone il

problema del luogo in cui notificare l’atto impo-sitivo da parte dell’ufficio.Il problema della insussistenza di una sede attua-le della società (vista la cancellazione e quindi l’estinzione di quest’ultima) è stato ritenuto su-perabile dall’Agenzia attraverso la notifica dell’at-to presso “la sede dell’ultimo domicilio fiscale”; con la precisazione che la società, prima della estinzione, potrebbe anche avvalersi della facol-tà di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune ai fini delle (successive) noti-ficazioni ex art.60 d.P.R. n.600/735;

b) se la società è giuridicamente estinta, significa anche che non sono più sussistenti gli organi so-ciali; si pone dunque il problema di chi può avere la legittimazione ad impugnare l’atto impositivo intestato alla società e notificato presso l’ultima sede societaria.L’Agenzia sembra ritenere che la legittimazione ad impugnare spetti all’ultimo rappresentante della società, ossia l’ex liquidatore che, quindi, manterrebbe, nonostante la cancellazione, po-teri di rappresentanza e dispositivi sufficienti a proporre ricorso (ma anche, è allora da ritenere, a produrre istanza di accertamento con adesio-ne, a mediare, a conciliare, etc.). Simile lettura parrebbe l’unica in grado di rendere concretamente applicabile la disposizione, tutta-via porta con sé questioni non facilmente risolvi-bili. Solo per citarne alcune: chi avrebbe il potere di revocare o sostituire il liquidatore, non sussi-stendo più l’assemblea della società? Con quale patrimonio si potrebbero far fronte alle spese del procedimento o del giudizio affrontate dal liquida-tore, non esistendo più un patrimonio societario6?

c) l’articolo 28 produce, poi, una sola apparente agevolazione per l’attività accertativa dell’Ammi-nistrazione finanziaria. Una volta che l’atto im-positivo è stato notificato alla società cancellata (entro i 5 anni) e lo stesso è divenuto definitivo (per esempio, perché nessuno lo ha impugnato) si pone il problema di recuperare le maggiori im-poste societarie definitivamente accertate.Tale recupero non può avvenire in relazione al

5 Circolare n.6/E/15. È inoltra da notare che l’eventuale irreperibilità conseguente alla cancellazione della società ed alla mancata elezione di domicilio potrebbe condurre l’ufficio alla notifica ex art.60, lett. e) d.P.R. n.600/73 (ossia deposito ed affissione dell’avviso nella casa comuna-le con perfezionamento della notifica negli otto giorni successivi). Sul tema, D. Deotto, A. Carinci, “Società estinte, notifica all’ultimo domici-lio”, in Il sole 24 ore, Norme e Tributi, 5 febbraio 2015. 6 Sul tema, G. Fransoni, “L’estinzione postuma della società ai fini fiscali”, in Rass.trib., n.1/15.

patrimonio societario, che non è più esistente, vi-sta l’estinzione del soggetto. Anche nell’ipotesi di beni societari residui al termine della liquidazio-ne, gli stessi devono ritenersi definitivamente ac-quisiti nella titolarità giuridica dei soci, nel rispet-to delle quote di partecipazione, pure qualora gli stessi non siano stati formalmente assegnati.Ne deriva che l’Amministrazione finanziaria potrà procedere alla riscossione delle imposte definitiva-mente accertate in capo alla società (estinta) solo attivando la specifica ed individuale responsabilità degli ex soci ai sensi dell’art.36 d.P.R. n.602/73. Ciò significa che è comunque necessaria l’ema-nazione di ulteriori atti impositivi nei confronti di questi soggetti (sussistendone i presupposti) e che, in definitiva, il procedimento impositivo si duplica richiedendo, prima, la notifica dell’at-to impositivo alla società e, poi, la notifica di un ulteriore atto ai singoli soci, per poter procedere alla riscossione delle somme7.

Le nuove disposizioni in tema di responsa-bilità di liquidatori e sociL’articolo 28 D.Lgs. n.175/14 interviene poi sull’art.36 d.P.R. n.602/73 che, come noto, disciplina la respon-sabilità di soci, liquidatori ed amministratori per le imposte non assolte dalle società di capitali liquidate ed estinte. L’articolo 36 d.P.R. n.602/73 risulta ora applicabile a tutti i tributi mentre, nel sistema previgente, la nor-ma regolava la responsabilità di tali soggetti solo per i casi di Ires non assolta. Per le altre imposte, si ri-teneva applicabile l’art.2495 cod.civ., non del tutto coincidente (in termini di ambito oggettivo e di pro-cedimento applicativo) alla disposizione fiscale.Il primo comma dell’art.36 è stato modificato intro-ducendo una presunzione di responsabilità per i li-quidatori, con un’inversione dell’onere probatorio. Il principio è sempre quello per cui i liquidatori sono chiamati a rispondere delle imposte non assolte dal-la società qualora abbiano soddisfatto crediti di ordi-ne inferiore a quelli tributari o assegnato beni ai soci senza avere prima soddisfatto i crediti tributari.Tuttavia, mentre in base alla precedente versione della norma, l’onere di provare simili comportamenti (colposi o dolosi) del liquidatore era in capo all’Am-ministrazione finanziaria, ora la responsabilità del li-quidatore è presunta e dovrà questo stesso soggetto dare la prova di avere soddisfatto i crediti tributari

7 Si veda anche F. Mariotti, “Abrogazione della responsabilità solidale fiscale negli appalti e novità per le società estinte”, in Corr. trib., 2015, pagg.181 ss..

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TRIBUTIanteriormente all’assegnazione oppure di avere sod-disfatto crediti di ordine superiore8.Ne deriva una evidente situazione di rischio, a mag-gior ragione se si considera che tale responsabilità per il liquidatore è considerata di tipo aquiliana, os-sia fondata sul danno che in questo modo il soggetto crea all’Amministrazione. Si tratta, quindi, di un debi-to proprio ed il liquidatore non potrebbe rivalersi su altri soggetti (i soci, per esempio).Sono dunque da immaginarsi, in futuro, comporta-menti dilatori dei liquidatori, che ritarderanno sem-pre più la chiusura della liquidazione e la cancellazio-ne della società qualora vi sia anche solo il dubbio di una possibile ripresa fiscale, con importanti conse-guenze in termini di (in)certezza giuridica.È inoltre da notare che, a livello di procedimento accertativo, si ritiene che la responsabilità dei liqui-datori sia attivabile dall’Amministrazione finanziaria solo dopo che il debito fiscale societario sia divenu-to definitivo. Situazione, questa, che oggi può con-seguire alla notifica dell’avviso di accertamento alla società estinta (nell’ultima sede sociale). L’articolo 28 D.Lgs. n.175/14 modifica anche il co.3 dell’art.36, in tema di responsabilità dei soci per i de-biti fiscali della società liquidata. Rimane confermata la regola della responsabilità di tali soggetti (in quan-to “successori” della società, come afferma la Corte di Cassazione) nei limiti del quantum ricevuto in as-segnazione (in modo formale oppure no) durante la fase liquidatoria e nei due periodi precedenti. Regola che risulta essere corretta espressione del principio della limitazione della responsabilità nelle società di capitali.Il nuovo articolo 36, co.3, prevede che:

“il valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato, salva la prova contraria”.

La disposizione è tutt’altro che chiara e genererà, è facile prevederlo, notevoli contrasti interpretativi. Secondo la lettura maggiormente convincente, il Le-gislatore in questo modo avrebbe inteso risolvere un problema di distribuzione del residuo attivo fra più soci, soprattutto nelle ipotesi in cui non sia possibile determinare in modo sicuro il valore dei beni e dei diritti distribuiti, introducendo una presunzione che semplifica l’attività valutativa dell’Ufficio.8 La disposizione si applica anche agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori, ex art.36, co.2 d.P.R. n.602/73. Analogamente, si deve ritene-re per gli amministratori che hanno compiuto operazioni di liquidazione nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione o che hanno occultato attività sociali anche mediante omis-sioni nelle scritture contabili, ai sensi del co.4 dell’art.36 citato.

Efficacia retroattiva delle nuove disposizioni?È necessario infine affrontare il problema dell’am-bito temporale di applicazione delle nuove disposi-zioni, entrate in vigore il 13 dicembre 2014 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n.175/14).Intervenendo sugli effetti fiscali (procedimentali) del-la cancellazione delle società e sulle responsabilità di soci, liquidatori ed amministratori, si tratta di defini-re se le norme possano applicarsi a tutti gli avvisi di accertamento emanati successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n.175/14 oppure solo agli atti relativi a società cancellate dal registro delle imprese succes-sivamente all’entrata in vigore delle norme. Ad avviso dell’Agenzia delle Entrate, trattandosi di disposizioni di carattere procedimentale, si appliche-rebbe il principio del tempus regit actum, con la con-seguenza che tutti gli avvisi di accertamento ema-nati dopo il 13 dicembre 2014 dovrebbero seguire le nuove disposizioni, anche se relative a società già cancellate prima di tale data9, quindi con una possi-bile efficacia retroattiva. Simile soluzione è stata fortemente criticata anche alla luce del principio di irretroattività delle norme tributa-rie contenuto nello Statuto dei Diritti del Contribuente, oltre che di quelli di buona fede ed affidamento10.Inoltre, si è rilevato come simile effetto retroattivo non risulti in ogni caso accettabile per quanto attiene le nuove regole circa la responsabilità di liquidatori e soci, trattandosi di disposizioni che introducono pre-sunzioni legali e che quindi incidono sulla ripartizio-ne dell’onere probatorio. Come notato recentemente dalla CTP di Reggio Emi-lia11, sulla scia di un importante orientamento dottri-nale e giurisprudenziale, le norme che intervengo-no sulla disciplina delle prove avrebbero una natura “parasostanziale” e non meramente procedimenta-le; con la conseguenza che le stesse non possono essere interpretate secondo il principio del tempus regit actum, in ossequio all’art.24 Costituzione.Accogliendo tale impostazione, ne conseguirebbe che le nuove disposizioni di modifica all’art.36 d.P.R. n.602/73 sarebbero applicabili ai soli casi di società cancellate dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n.175/14.

9 Circolare n.6/E/15.10 Consiglio Nazionale Forense, Commissione per le problematiche tribu-tarie, Gli effetti della cancellazione delle società dal Registro Imprese tra norma generale e “norma in deroga”, 11 marzo 2015.11 Sentenza n.5/15, cit..

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TRIBUTIFusione per incorporazione della società con-solidante in società “esterna” al perimetro di consolidamento fiscaledi Gianluca Cristofori - dottore commercialista, STC - Studio Tributario Cristoforied Edoardo Patton - dottore commercialista, Tax-Lab - Centro Studi Giuridico Tributari

In ipotesi di fusione per incorporazione della società consolidante in una società “esterna” al perimetro di consolidamento fiscale, la prosecuzione del regime di tassazione di gruppo in capo alla società incorporante è subordinata alla presentazione di un’apposita istanza di interpello. Inoltre, come emerge da diversi precedenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate, qualora sia ammessa la prosecuzione del consolidato fiscale, in seguito alla fusione per incorporazione della consolidante, si pone altresì il problema della qualificazione delle perdite da considerare “pregresse” rispetto al regime di tassazione di gruppo.

Cenni in merito al regime delle perdite in vigenza di consolidato fiscaleCome noto, il consolidato fiscale nazionale è disci-plinato dagli artt.117 e ss. Tuir, nonché dalle “dispo-sizioni attuative” contenute nel D.M. 9 giugno 2004, e rappresenta un regime di tassazione opzionale il cui principale beneficio è rappresentato “… dall’au-tomatica e integrale compensazione intersoggettiva dei risultati imponibili positivi e negativi”1 realizzati, in vigenza dell’opzione, dalle società del gruppo che hanno aderito alla tassazione su base consolidata.Tale principio generale si applica, tuttavia, limitata-mente agli utili e alle perdite fiscali realizzati dalle società partecipanti al consolidato fiscale in vigenza di tale regime, non estendendosi - invece - alle per-dite fiscali maturate in periodi d’imposta anteriori all’opzione per la tassazione su base consolidata, an-corché riportabili, in capo alla società che le ha pro-dotte, al momento dell’opzione medesima. L’articolo 118, co.2 Tuir stabilisce, infatti, che:

“le perdite fiscali relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo possono esse-re utilizzate solo dalle società cui si riferiscono”;

tale disposizione, in buona sostanza, prevede che le perdite fiscali maturate da una società che aderi-sce al regime del consolidato fiscale, anteriormente all’ingresso nel suddetto regime, “possano essere utilizzate esclusivamente dal soggetto che le ha ge-nerate in compensazione con i propri redditi”2.

1 Cfr. Circolare n.9/E/10.2 Cfr. Circolare n.9/E/10.

Nessuna limitazione, invece, è prevista per la “com-pensazione” di perdite maturate dalle singole so-cietà durante il periodo di validità dell’opzione per la tassazione consolidata; tali perdite, infatti, ai sen-si del comma 1 del medesimo art.118 Tuir, vengono “trasferite” al soggetto consolidante (“fiscal unit”) ai fini della determinazione del reddito complessi-vo globale di gruppo. In proposito, l’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di precisare che, “qualora la somma algebrica degli imponibili dia luogo ad un risultato fiscale negativo, la perdita residua del consolidato sarà riportata a nuovo, potendo essere utilizzata anche per compensare eventuali imponi-bili positivi trasferiti alla fiscal unit da società “su-bentrate” nella tassazione di gruppo; il divieto di utilizzo delle perdite fiscali pregresse, di cui al co.2 dell’art.118, infatti, non si estende alle perdite del consolidato, quando questo - anche in presenza di ulteriori opzioni esercitate dal soggetto consolidan-te - prosegue senza perdere la propria identità”3. Inoltre, secondo quanto chiarito dall’Amministra-zione finanziaria4, sarebbe il soggetto consolidan-te a conferire al gruppo univocità e continuità nel tempo, nonostante l’ingresso o la fuoriuscita di altre società; pertanto, “l’unitarietà del consolida-to permane fintanto che tutte le opzioni esercitate, anche in epoche diverse, non siano venute meno, per effetto di eventi che determinano l’interruzione anticipata in toto del consolidato o in conseguenza del mancato rinnovo delle stesse”.

3 Cfr. Circolare n.53/E/04, par. 4.2.2.2 e Circolare n.9/E/10.4 Cfr. Circolare n.9/E/10.

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TRIBUTIIn ipotesi di interruzione della tassazione di grup-po prima del compimento del triennio (ovvero di mancato rinnovo dell’opzione alla scadenza del triennio), gli artt.124 e 125 Tuir, nonché gli artt.13, co.8, e 14, co.2 D.M. 9 giugno 2004, pre-vedono che le perdite del consolidato perman-gano “nell’esclusiva disponibilità della società o ente controllante”, salvo che non siano “imputate alle società che le hanno prodotte e nei cui con-fronti viene meno il requisito del controllo - o non è rinnovata l’opzione per la tassazione di gruppo - secondo i criteri stabiliti dai soggetti interessati”5.

In particolare, qualora si intenda fruire di tale cri-terio di imputazione delle perdite fiscali residue al momento di interruzione del consolidato (ovvero-sia della “riattribuzione” alle società che le hanno prodotte) - alternativo rispetto alla regola generale individuata dalla norma primaria (in base alla qua-le le perdite del consolidato sono di esclusiva spet-tanza della consolidante) - è necessario comunicarlo preventivamente all’Agenzia delle Entrate in sede di esercizio dell’opzione6.In ogni caso, “l’importo massimo della perdita impu-tabile alla società uscente non potrà eccedere l’im-porto delle perdite trasferite al consolidato al netto degli utilizzi che delle stesse abbia eventualmente fatto la consolidante in sede di determinazione del reddito globale”7.L’individuazione del criterio di attribuzione delle per-dite in ipotesi di interruzione e mancato rinnovo del regime di tassazione consolidata è rimessa, pertan-to, alla volontà delle parti che dovranno manifesta-re la propria scelta in sede di opzione; tale criterio non dovrà necessariamente risultare il medesimo per tutte le opzioni esercitate dalla consolidante congiuntamente alle singole consolidate ma - al con-trario - sarà possibile stabilire criteri differenziati con riguardo alle diverse società consolidate aderenti al regime8. Al riguardo, è stato, tuttavia, osservato come “tale libertà deve essere … contemperata con le esigenze di controllo” e che “in tal senso va inter-pretato l’obbligo di preventiva comunicazione all’A-genzia delle Entrate del criterio prescelto”; pertanto:

5 Cfr. Circolare n.53/E/04, par. 4.2.2.3.6 Cfr. articolo 5, co.1 D.M. 9 giugno 2004 e L. Abritta, L. Cacciapaglia, V. Carbone, E. De Fusco e F. Sirianni, “Testo unico delle imposte sui redditi”, III edizione, Ipsoa, pag.2755.7 Cfr. L. Abritta, L. Cacciapaglia, V. Carbone, E. De Fusco e F. Sirianni, “Testo unico delle imposte sui redditi”, III edizione, Ipsoa, pag.2756.8 Cfr. L. Abritta, L. Cacciapaglia, V. Carbone, E. De Fusco e F. Sirianni, “Testo unico delle imposte sui redditi”, III edizione, Ipsoa, pag.2756.

“la conseguenza di tale impostazione è l’impossi-bilità di adottare, all’atto della interruzione o del mancato rinnovo, criteri diversi da quello comu-nicato all’atto dell’esercizio dell’opzione”.

Con riguardo agli effetti che producono sul consoli-dato fiscale nazionale di cui agli artt.117 e ss. Tuir, è possibile classificare le operazioni di fusione in9:• “fusioni che non pregiudicano la continuazione del-

la tassazione di gruppo fino a naturale scadenza”;• “fusioni che determinano irrimediabilmente l’in-

terruzione anticipata della tassazione di gruppo”;• “fusioni che determinano l’interruzione anticipata

della tassazione di gruppo, salvo ottenimento del-la possibilità di proseguirla, previa presentazione di apposita istanza all’Agenzia delle Entrate”.

In buona sostanza, vanno distinte le fusioni che com-portano l’interruzione della tassazione di gruppo, da quelle che non producono, invece, tale effetto10. Infatti, “allo scopo di evitare che il regime del con-solidato fiscale potesse essere soggetto a possibili “strumentalizzazioni”, il Legislatore ha disciplinato … specificatamente le ipotesi in cui, in presenza di al-cune operazioni societarie, il regime della tassazione di gruppo non si interrompe …, differenziandole da quelle nelle quali invece lo stesso regime viene meno … e da quelle per cui, pur interrompendosi il regime, il contribuente può richiedere, presentando una for-male istanza, la continuazione del consolidato”11.In dettaglio - ai sensi dell’art.11 D.M. 9 giugno 2004 - le ipotesi di fusione che non interrompono la tas-sazione di gruppo sono riconducibili alle seguenti fattispecie:• fusione tra società consolidate; • fusione tra la consolidante e una o più consolidate;• fusione per incorporazione di società non inclusa nel

consolidato in società inclusa nel consolidato (qualo-ra permangano i requisiti di cui all’art.117 Tuir).

Le fusioni che, invece, interrompono la tassazione di gruppo sono individuate e disciplinate dall’art.124, co.5 Tuir e dall’art.13 D.M. 9 giugno 2004:• “fusione di una società controllata in altra non

inclusa nel consolidato”12 (c.d. fusione “per in-corporazione”);

• “fusione tra consolidata e società non inclusa nel-la tassazione di gruppo”13 (c.d. fusione “propria”).

9 Cfr. E. Zanetti, “I riflessi delle fusioni ai fini del consolidato fiscale nazio-nale”, in Il Fisco, n.28/11.10 Cfr. G. Vasapolli e A. Vasapolli, “Dal bilancio di esercizio al reddito d’impresa”, XXI edizione, Ipsoa, pag.1213.11 Cfr. Risoluzione n.103/E/08.12 Cfr. articolo 124, co.5, primo periodo Tuir.13 Cfr. articolo 13, co.1, lett. f) D.M. 9 giugno 2004.

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TRIBUTIInoltre, ai sensi del succitato art.124, co.5 Tuir14:

“nel caso di fusione della società o ente control-lante con società o enti non appartenenti al con-solidato può essere richiesta, mediante l’esercizio dell’interpello ai sensi dell’art.11 L. n.212/00, la continuazione del consolidato”.

In merito alla portata della succitata disposizione, è stato osservato15 che le suddette fusioni – diver-se da quelle per le quali è espressamente prevista la prosecuzione della tassazione di gruppo e da quelle per le quali, viceversa, è espressamente prevista l’in-terruzione del consolidato - “sono sostanzialmente quelle che coinvolgono la società consolidante con una o più società non incluse nel consolidamento, per effetto delle quali la società consolidante:• viene fusa insieme a “non consolidate” in una nuo-

va società risultante [c.d. fusione “propria”, NdA];• viene incorporata in una “non consolidata” [c.d.

fusione “per incorporazione”, NdA]”.Tali operazioni interrompono la tassazione di gruppo salvo che la prosecuzione del consolidato fiscale non venga concessa dall’Agenzia delle Entrate, su richie-sta del contribuente, che a tal fine deve presentare un’apposita istanza di interpello.Ai sensi dell’articolo 124, comma 5, secondo periodo Tuir, quindi:

“la fusione propria o per incorporazione delle consolidante con (od in) società non inclusa nel consolidato … è causa di interruzione della pro-cedura. La causa può essere tuttavia rimossa, a seguito di esito positivo all’interpello proposto ai sensi dell’art.11 L. n.212/00, ipotesi nella quale il consolidato continuerà con la società risultante dalla fusione oppure incorporante, che assume la qualità di consolidante”16.

Come chiarito dalla medesima Amministrazione fi-nanziaria17, infatti, “la succitata disposizione fa rife-rimento solo alle ipotesi di fusione propria della con-solidante con società non inclusa nel consolidato e di fusione per incorporazione della consolidante da parte di società non inclusa nel consolidato”.In diverse occasioni18, l’Agenzia delle Entrate ha reso

14 Cfr. art.124, co.5, secondo periodo Tuir.15 Cfr. E. Zanetti, “I riflessi delle fusioni ai fini del consolidato fiscale na-zionale”, in il Fisco, n.28/11.16 Cfr. M. Leo, “Le imposte sui redditi nel testo unico”, Giuffrè Editore, 2014, pag.2217.17 Cfr. Circolare n.53/E/04 e Risoluzione n.103/E/08.18 Cfr. Risoluzioni n.44/E/07, n.116/E/07, n.139/E/08 e n.101/E/09 e anche le Risoluzioni n.103/E/08 e n.251/E/08, seppur riferibili a fattispecie non ri-conducibili alla disposizione di cui all’art.124, co.5, secondo periodo Tuir.

pubbliche le risposte fornite in sede di interpello (presentato ai sensi dell’art.11 L. n.212/00), median-te le quali si è espressa in ordine alla prosecuzione del regime di consolidato fiscale in ipotesi di fusione per incorporazione della società consolidante in so-cietà non inclusa nella tassazione di gruppo.Con la Risoluzione n.44/E/07, sono stati forniti chia-rimenti in merito alla possibile prosecuzione del consolidato in ipotesi di fusione per incorporazione della società consolidante in una società “esterna” al perimetro di consolidamento fiscale (che a sua volta deteneva la totalità delle azioni della società incorpo-rata/consolidante); con riferimento a tale caso speci-fico, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, “al fine di evitare gli effetti interruttivi previsti dall’art.124 Tuir, è necessario che la “partecipazione rilevante” dete-nuta dalla società “A” (incorporante, NdA), postfu-sione, nelle controllate “C” e “D” (consolidate, NdA), soddisfi i requisiti previsti dagli artt.117 e 120 Tuir ... . Ne consegue che, nel presupposto che risulti verifica-to il complesso delle disposizioni di legge relative al regime della tassazione di gruppo e quelle relative al regime delle fusioni di cui all’art.172 Tuir, non sussi-stono preclusioni alla continuazione del consolidato …, con la società “A” (incorporante, NdA) in qualità di consolidante, con efficacia già nel periodo di imposta nel quale ha effetto la fusione e relativamente alla residua frazione del triennio di validità dell’opzione”.Tuttavia, trattando il regime delle perdite fiscali eventualmente presenti nel consolidato della con-solidante/incorporata, l’Agenzia delle Entrate ha ri-tenuto che - all’operazione prospettata nel caso di specie - dovesse applicarsi in via analogica la discipli-na prevista dall’art.13, co.5 e 6 D.M. 9 giugno 2004, nell’ipotesi in cui un soggetto controllante non rive-ste più il ruolo di consolidante, poiché opta per un consolidato in qualità di consolidata19.Pertanto, l’Amministrazione finanziaria - con riferi-mento all’operazione rappresentata nella Risoluzio-ne n.44/E/07 - ha ritenuto che: • “il consolidato di “B” (incorporata, NdA) con “C”

19 In particolare il comma 5 dell’art.13 D.M. 9 giugno 2004 sancisce che “Se nel corso del periodo di durata dell’opzione per la tassazione di gruppo, la consolidante opta, congiuntamente con altra società, per la tassazione di gruppo in qualità di controllata, si verifica l’interruzione della tassa-zione di gruppo relativamente al consolidato in cui aderiva in qualità di consolidante con gli effetti previsti dall’art.124 del testo unico”. Il succes-sivo comma 6 del medesimo art.13 sancisce, inoltre, che “Nei casi di cui al comma 5, se tutte le altre società aderenti alla tassazione di gruppo in qualità di controllate optano anch’esse con l’ente o società controllante nel medesimo esercizio, l’interruzione della tassazione di gruppo non produce gli effetti di cui all’art.124, commi 1, 2 e 3 Tuir. Alle perdite fiscali di cui al co.4 del citato art.124, si applicano in ogni caso le disposizioni previste dall’art.118, co.2 Tuir”.

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TRIBUTIe “D” (consolidate della incorporata, NdA) si in-terrompe senza che si producano gli effetti di cui all’art.124, co.1, 2 e 3 Tuir20.

• le perdite fiscali residue di tale consolidato devo-no essere riattribuite alle società che ad esso par-tecipano, secondo i criteri manifestati in sede di iniziale comunicazione dell’esercizio dell’opzione, ai sensi dell’art.13, co.8 del citato decreto;

• le perdite in tal modo riattribuite assumono na-tura di perdite pregresse all’entrata nel consoli-dato di “A” (incorporante, NdA) e come tali utiliz-zabili solo in capo alle entità legali che le hanno generate, in virtù del rinvio operato dal citato art.13, comma 6, secondo periodo, all’art.118, co.2 Tuir”21.

Con la successiva Risoluzione n.116/E/0722, la mede-sima Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito alla prosecuzione del consolidato nella parti-colare ipotesi di una fusione per incorporazione tra due società che aderiscono al regime del consolida-to fiscale nazionale come società consolidanti delle rispettive società controllate/consolidate (e che, quindi, risultano, l’una rispetto all’altra, “non appar-tenenti al consolidato”).

20 I commi 1, 2 e 3 dell’art.124 Tuir dispongono che: “Se il requisito del controllo, così come definito dall’art.117, cessa per qual-siasi motivo prima del compimento del triennio, il reddito della società o dell’ente controllante, per il periodo d’imposta in cui viene meno tale requi-sito, viene aumentato o diminuito per un importo corrispondente: a) agli interessi passivi dedotti o non dedotti nei precedenti esercizi del triennio per effetto di quanto previsto dall’art.97, co.2;b) alla residua differenza tra il valore di libro e quello fiscale riconosciuto dei beni acquisiti dalla stessa società o ente controllante o da altra so-cietà controllata secondo il regime di neutralità fiscale di cui all’art.123. Il periodo precedente si applica nel caso in cui il requisito del controllo venga meno anche nei confronti della sola società cedente o della sola società cessionaria.Nel caso di cui al comma 1 entro 30 giorni dal venir meno del requisito del controllo:a) la società o l’ente controllante deve integrare quanto versato a tito-lo d’acconto se il versamento complessivamente effettuato è inferiore a quello dovuto relativamente alle società per le quali continua la validità dell’opzione;b) ciascuna società controllata deve effettuare l’integrazione di cui alla lettera precedente riferita ai redditi propri, così come risultanti dalla co-municazione di cui all’art.121. Ai fini del comma 2, entro lo stesso termine ivi previsto, con le modalità stabilite dal decreto di cui all’art.129, la società o l’ente controllante può attribuire, in tutto o in parte, i versamenti già effettuati, per quanto ecce-dente il proprio obbligo, alle controllate nei cui confronti è venuto meno il requisito del controllo”.21 L’articolo 118, co.2 Tuir sancisce che “le perdite fiscali relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo di cui alla presente sezione possono essere utilizzate solo dalle società cui si riferiscono”.22 Nell’istanza di interpello confluita in tale risoluzione, peraltro, il contri-buente aveva incidentalmente rappresentato che “il principio contabile Ifrs 3 “aggregazioni aziendali” … sembrerebbe ritenere che la retrodatazione contabile non sia compatibile con il principio contabile stesso che conside-ra le fusioni alla stregua di acquisizioni. Pertanto, essendo la retroattività fiscale strettamente legata a quella contabile, le società partecipanti alla citata operazione straordinaria non potranno optare per la retrodatazione degli effetti della fusione ai fini fiscali di cui all’art.172, co.9 Tuir”.

In tale particolare fattispecie, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che “la società incorporante Alfa - che suc-cede, ai sensi dell’art.2504-bis cod.civ., nel complesso delle posizioni giuridiche attive e passive della socie-tà incorporata Beta per effetto della descritta ope-razione di fusione - soddisfi le condizioni poste dagli artt.117e 120 Tuir nei confronti delle società controlla-te da quest’ultima” e che, pertanto, “tale operazione non configura (configuri, NdA) una ipotesi di perdita del requisito del controllo da parte della controllante Beta, ma determina (determini, NdA) l’assegnazione delle partecipazioni - riferite alle sue società consoli-date - a favore della incorporante Alfa”.Sulla base di tali presupposti, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’operazione in esame “non preclu-derebbe la continuazione del consolidato […] in consi-derazione del fatto che l’operazione di fusione in esa-me “trasferisce” il requisito del controllo – così come definito dall’art. 117del Tuir – dalla società Beta alla società Alfa, senza mutare, peraltro, i soggetti giu-ridici controllati”. Pertanto l’Amministrazione finan-ziaria ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, il regime della tassazione di gruppo potesse continua-re senza soluzione di continuità relativamente alla residua frazione del triennio in cui esplicava efficacia l’opzione a suo tempo esercitata.Con la Risoluzione in commento, conformemente a quanto già sostenuto nella succitata Risoluzione n.44/E /07, l’Agenzia delle Entrate ha altresì preci-sato che, “limitatamente al caso specifico”, con ri-ferimento al consolidato fiscale vigente in capo alla società incorporata (“Beta”), trovasse applicazione analogica il disposto dell’art.13, commi 5 e 6 D.M. 9 giugno 2004, che comporta:1. l’interruzione del consolidato previgente in capo

all’incorporata (“Beta”) senza che si producano gli effetti di cui all’art.124, commi 1, 2 e 3 Tuir23;

23 I commi 1, 2 e 3 dell’art.124 Tuir dispongono che: “Se il requisito del controllo, così come definito dall’art.117, cessa per qual-siasi motivo prima del compimento del triennio, il reddito della società o dell’ente controllante, per il periodo d’imposta in cui viene meno tale requi-sito, viene aumentato o diminuito per un importo corrispondente: a) agli interessi passivi dedotti o non dedotti nei precedenti esercizi del triennio per effetto di quanto previsto dall’art.97, co.2;b) alla residua differenza tra il valore di libro e quello fiscale riconosciuto dei beni acquisiti dalla stessa società o ente controllante o da altra so-cietà controllata secondo il regime di neutralità fiscale di cui all’art.123. Il periodo precedente si applica nel caso in cui il requisito del controllo venga meno anche nei confronti della sola società cedente o della sola società cessionaria.Nel caso di cui al comma 1 entro 30 giorni dal venir meno del requisito del controllo:a) la società o l’ente controllante deve integrare quanto versato a tito-lo d’acconto se il versamento complessivamente effettuato è inferiore a quello dovuto relativamente alle società per le quali continua la validità dell’opzione;

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TRIBUTI2. l’attribuzione delle eventuali perdite fiscali non

ancora utilizzate (riferibili a tale consolidato) se-condo i criteri manifestati in sede di opzione;

3. la possibilità di utilizzare tali perdite (che assu-mono natura di perdite pregresse all’entrata nel consolidato dell’incorporante) solo in capo alle società cui si riferiscono24.

In buona sostanza, nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che:• il regime della tassazione di gruppo possa con-

tinuare in capo all’incorporante includendovi, senza soluzione di continuità, le società origina-riamente appartenenti al consolidato dell’incor-porata, le quali possono dunque partecipare al regime del consolidato fiscale dell’incorporante già a decorrere dal periodo d’imposta nel corso del quale ha effetto la fusione e fino alla natura-le scadenza dell’opzione a suo tempo esercitata dalle stesse, congiuntamente alla loro ex control-lante incorporata;

• pur non verificandosi gli effetti propri dell’inter-ruzione, le perdite fiscali delle società apparte-nenti al consolidato fiscale della fiscal unit incor-porata devono essere considerate alla stregua di perdite fiscali “pregresse” rispetto al consolidato fiscale post fusione25.

L’applicazione analogica del disposto dell’art.13, commi 5 e 6 D.M. 9 giugno 2004 (da cui derivano, in parte, le suesposte conseguenze) è stata, inol-tre, richiamata nell’operazione di fusione esaminata con Risoluzione n.139/E/08. In tale precedente di prassi, l’Agenzia delle Entrate ha affrontato anche il regime delle perdite fiscali “pregresse” della socie-tà incorporante (non appartenente al consolidato fiscale), precisando che tali perdite fiscali “possono essere portate in diminuzione del reddito della so-cietà incorporante nei limiti ed alle condizioni san-cite dall’art.172, co.7 Tuir”26 e debbono considerarsi

b) ciascuna società controllata deve effettuare l’integrazione di cui alla lettera precedente riferita ai redditi propri, così come risultanti dalla co-municazione di cui all’art.121. Ai fini del comma 2, entro lo stesso termine ivi previsto, con le modalità stabilite dal decreto di cui all’art.129, la società o l’ente controllante può attribuire, in tutto o in parte, i versamenti già effettuati, per quanto ecce-dente il proprio obbligo, alle controllate nei cui confronti è venuto meno il requisito del controllo”.24 In virtù del succitato rinvio operato dall’art.13, co.6, secondo periodo D.M. 9 giugno 2004 all’art.118, co.2 Tuir.25 Cfr. E. Zanetti, “I riflessi delle fusioni ai fini del consolidato fiscale na-zionale”, in il Fisco, n.28/11.26 In proposito si osservi come, nell’istanza di interpello confluita nella Risoluzione n.139/E/08, il contribuente avesse rappresentato all’Agen-zia delle Entrate che il riporto delle perdite fiscali maturate dalla società incorporante (non già rientrante nel perimetro di consolidamento fisca-le) nel periodo compreso tra l’inizio del periodo di imposta e la data di efficacia giuridica delle fusione (“retrodatata” ai fini fiscali), nonché nei

“pregresse” ai sensi dell’art.118, co.2 Tuir, il cui di-sposto prevede che “le perdite fiscali relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo di cui alla presente sezione possono (possano, NdA) essere utilizzate solo dalle società cui si riferiscono”.

Secondo l’Amministrazione finanziaria, quindi, le perdite fiscali realizzate dalla società incorporan-te nei periodi d’imposta precedenti l’operazione di fusione, nonché la perdita fiscale relativa al pe-riodo intercorrente dall’inizio del periodo d’im-posta e la data di efficacia giuridica della fusione (“retrodatata” ai fini fiscali), “non possono essere incluse nel regime del consolidato nazionale che continua in capo alla società risultante dalla fu-sione. … Più precisamente, la società risultante dalla fusione potrà utilizzare in compensazione le perdite fiscali pregresse, comprese quelle relative al “periodo di retrodatazione”, solo per compen-sare l’eventuale reddito imponibile dalla stessa conseguito nel periodo d’imposta in cui ha effica-cia la fusione”.

La natura di perdite “pregresse” al consolidato del-le perdite maturate in vigenza del consolidato la cui fiscal unit sia stata incorporata in una società ester-na al perimetro di consolidamento fiscale (motivata dall’applicazione analogica dell’art.13, co.5 e 6 D.M. 9 giugno 2004), nonché la natura di perdite “pre-gresse” delle perdite fiscali realizzate dalla società incorporante sino alla data di efficacia giuridica della fusione, sono rinvenibili anche nell’operazione rap-presentata nella Risoluzione n.101/E/09.Si noti, infine, come ulteriori chiarimenti in merito alla fattispecie in esame siano rinvenibili anche nella Risoluzione n.251/E/08, riguardante una fusione per incorporazione (inversa) nella società consolidante (fiscal unit) di una società “esterna” al perimetro di consolidamento. In particolare, in tale occasione, è stato chiarito come tale fattispecie (che risulta “inver-sa” rispetto a quella in esame) non sia riconducibile alle operazioni che subordinano la prosecuzione del consolidato alla presentazione di un’istanza di inter-pello (ex art.124, co.5, secondo periodo Tuir), bensì nell’ambito delle operazioni che non interrompono il consolidato (ex art.11, co.3 D.M. 9 giugno 2004)27.

periodi di imposta precedenti, fosse stata oggetto di un’autonoma istan-za di interpello ex art.37-bis, co.8 d.P.R. n.600/73, “riferita alla medesima operazione straordinaria descritta nella presente istanza”, “volta ad ot-tenere la disapplicazione delle limitazioni alla riportabilità delle perdite di cui all’art.172, co.7 Tuir”.27 Considerazioni analoghe sono rinvenibili anche nella precedente Ri-soluzione n.103/E/08, riguardante un’operazione di fusione per incor-

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TRIBUTISulla base di tale presupposto, nel citato preceden-te di prassi, l’istanza presentata dal contribuente è stata considerata inammissibile; ciononostante, l’A-genzia delle Entrate ha avuto modo di chiarire che - anche nel caso di specie - le perdite fiscali della società incorporata “non potranno essere utilizzate all’interno del consolidato per effetto delle limita-zioni poste dall’art.118, co.2 Tuir”, ma potranno, al più, “essere utilizzate dalla società incorporante esclusivamente alle condizioni e nei limiti … previsti dall’art.172, co.7 Tuir”.Illustrati - seppur senza alcuna pretesa di esaustività - alcuni dei principali precedenti di prassi dell’Ammi-nistrazione finanziaria in materia di prosecuzione del consolidato fiscale in ipotesi di fusione per incorpo-razione della società consolidante, in altra società non inclusa nella tassazione di gruppo, è necessario sottolineare come, tali precedenti, siano riferibili a

porazione nella società consolidante di società “esterne” al perimetro di consolidamento.

casi concreti oggetto di specifiche istanze di inter-pello - presentate ai sensi dell’art.11 L. n.212/00 - mediante le quali i contribuenti hanno sottoposto al vaglio dell’Agenzia delle Entrate la possibilità di con-tinuare ad applicare il regime del consolidato fiscale nazionale, come previsto dalla disposizione di cui all’art.124, co.5, secondo periodo Tuir.

Pertanto, come premesso, al fine di accertare la possibile prosecuzione (ovvero l’interruzione) del consolidato fiscale nazionale in seguito alla fusione per incorporazione della consolidante in una società esclusa dall’area di consolidamento, è necessario che il contribuente presenti all’Agen-zia delle Entrate un’apposita istanza di interpello ai sensi dell’art.11 L. n.212/00, rappresentando il caso concreto e personale, nonché la specifica operazione posta in essere.

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TRIBUTILe operazioni straordinarie da comunicare nelle dichiarazioni d’intentodi Marco Peirolo - dottore commercialista, revisore legale e componente del Fiscal Committee della Confédération Fiscale Européenne

Dal 2015, a seguito delle novità introdotte dal Decreto sulle Semplificazioni Fiscali, l’obbligo di comunicazione dei dati delle lettere d’intento non spetta più al fornitore, ma all’esportatore abituale.Nel quadro A del nuovo modello di dichiarazione d’intento, l’esportatore abituale deve specificare se ha effettuato operazioni straordinarie che hanno concorso alla formazione, anche parziale, del plafond disponibile.Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che le operazioni straordinarie in questione sono tutte quelle operazioni che possono determinare il trasferimento del plafond tra i soggetti interessati ad una operazione straordinaria, come, ad esempio, l’affitto d’azienda, il conferimento, la fusione, la trasformazione.Risulta, pertanto, necessario individuare le condizioni alle quali risulta subordinato il passaggio, in capo all’avente causa, del diritto di acquistare o importare beni/servizi senza applicazione dell’Iva nei limiti della soglia monetaria rappresentata dal plafond.

L’articolo 20 D.Lgs. n.175/14 (Decreto sulle Sempli-ficazioni Fiscali) è intervenuto sulla disciplina della comunicazione all’Agenzia delle Entrate dei dati con-tenuti nelle dichiarazioni d’intento relative alle ope-razioni non imponibili Iva di cui all’art.8, co.1, lett. c), d.P.R. n.633/72.Si tratta, cioè, delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate nei confronti dei c.d. “esportatori abituali”, vale a dire – ai sensi dell’art.1, co.1, lett. a) D.L. n.746/83, convertito dalla L. n.17/84 – di coloro che, nell’anno solare precedente, hanno registrato un ammontare di corrispettivi derivanti dalle cessio-ni all’esportazione “dirette”, di cui alle lett. a) e b) del primo comma dell’art.8 d.P.R. n.633/72, superiore al 10% del volume d’affari1. Quest’ultimo, in particola-re, deve essere determinato ai sensi dell’art.20 d.P.R. n.633/72, ma senza tenere conto:• delle cessioni di beni in transito o depositati nei

luoghi soggetti a vigilanza doganale, che non si considerano territorialmente rilevanti in Italia in base all’art.7-bis, co.1 d.P.R. n.633/72;

1 Come, tuttavia, precisato dalla Circolare n.8/D/03 (§ 1), la qualifica di esportatore abituale “si acquisisce quando le operazioni che creano pla-fond … nel periodo di riferimento (anno solare o dodici mesi precedenti a seconda che il contribuente utilizzi rispettivamente il metodo solare o il metodo mensile) sono superiori al dieci per cento del volume d’affari …”. Ai fini, pertanto, della verifica della qualifica in esame, anche se il citato art.1, co.1, lett. a) D.L. n.746/83 fa riferimento esclusivamente alle cessioni all’esportazione di cui alle lett. a) e b) dell’art.8 d.P.R. n.633/72, occorre avere riguardo alle operazioni con l’estero che vanno indicate nel rigo VE30 della dichiarazione Iva annuale, rubricato “Operazioni che concorrono alla formazione del plafond”.

• a decorrere dal 1° gennaio 2013, delle operazio-ni di cui all’art.21, co.6-bis d.P.R. n.633/72, intro-dotto dall’art.1, co.325, lett. d), n. 1) L. n.228/12 (Legge di Stabilità 2013), ossia delle operazioni non soggette a Iva per carenza del presupposto territoriale, per le quali è stato espressamente previsto l’obbligo di emissione della fattura allor-ché si tratti di: ෮ cessioni di beni e prestazioni di servizi, diverse

da quelle esenti di cui all’art.10, co.1, nn. da 1) a 4) e 9), effettuate nei confronti di un soggetto passivo che è debitore dell’imposta in un altro Stato membro dell’Unione europea;

෮ cessioni di beni e prestazioni di servizi che si considerano effettuate fuori dell’Unione eu-ropea.

In pratica, nel modello di dichiarazione Iva relativa al 2014, le suddette operazioni extraterritoriali, com-prese quelle relative ai beni in transito o depositati nei luoghi soggetti a vigilanza doganale, devono es-sere riportate nel rigo VE34, rubricato “Operazioni non soggette all’imposta ai sensi degli artt. da 7 a 7-septies”, ma il corrispondente importo, ai fini della verifica dello status di esportatore abituale, deve es-sere sottratto dall’importo risultante dal rigo VE40, che esprime il volume d’affari del soggetto passivo.In definitiva, per assumere la qualifica di esportato-re abituale, ed avere conseguentemente il diritto di acquistare e importare beni/servizi senza applica-

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TRIBUTIzione dell’Iva2, le operazioni con l’estero registrate nell’anno solare precedente devono essere supe-riori al 10% del volume d’affari “rettificato”, cioè calcolato senza considerare le operazioni eviden-ziate nel rigo VE34.

La comunicazione dei dati delle dichiarazioni d’intento nel passaggio alla nuova disciplinaL’articolo 1, co.1, lett. c) D.L. n.746/83, nella formu-lazione vigente anteriormente alle modifiche intro-dotte dall’art.20 D.Lgs. n.175/14, prevedeva che il fornitore dell’esportatore abituale avesse l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate i dati con-tenuti nelle lettere d’intento ricevute dagli espor-tatori abituali. Tale comunicazione doveva essere effettuata, in via esclusivamente telematica, “entro il termine di effettuazione della prima liquidazio-ne periodica Iva, mensile o trimestrale, nella quale confluiscono le operazioni realizzate senza applica-zione dell’imposta”.Sotto il profilo sanzionatorio, l’art.7, co.4-bis D.Lgs. n.471/97 stabiliva che, in caso di omessa comuni-cazione nel termine indicato, ovvero in caso di co-municazione incompleta o inesatta, il fornitore fos-se punito con la sanzione amministrativa dal 100 al 200% dell’imposta non applicata e, ai sensi dell’art.1, co.384 L. n.311/04 (Finanziaria 2005), il fornito-re stesso era anche responsabile in solido con l’e-sportatore abituale dell’imposta evasa, se correlata all’infedeltà della lettera d’intento3.A seguito della riformulazione del richiamato art.1, co.1, lett. c) D.L. n.746/83, l’obbligo di comunicazio-ne dei dati delle lettere d’intento è stato spostato in capo all’esportatore abituale, il quale – a decorrere dal 1° gennaio 20154 – è tenuto alla relativa trasmis-sione all’Agenzia delle Entrate, che rilascia apposita ricevuta telematica5.Successivamente, l’esportare abituale consegnerà al 2 L’esportatore abituale, in particolare, può esercitare il suddetto diritto nei limiti del plafond, che - secondo l’art.2, co.2 L. n.28/97 - rappresenta il limite monetario entro il quale l’esportatore abituale può acquistare/importare beni/servizi senza applicazione dell’Iva, salvo le eccezioni (es. fabbricati e aree fabbricabili e beni/servizi ad imposta indetraibile), e che, a sua volta, può essere gestito con il metodo fisso (o solare), se si fa riferimento alle operazioni registrate nell’anno solare precedente, oppu-re con il metodo mobile (o mensile), se si fa riferimento alle operazioni registrate nei dodici mesi precedenti.3 Come chiarito dalla Circolare n.10/E/05 (risposta 9.4), per “imposta evasa” s’intende “l’ammontare dell’imposta relativa agli acquisti di beni e servizi effettuati in sospensione d’imposta oltre il plafond disponibile”, con la conseguenza che, “se non sussiste una imposta evasa, perché no-nostante l’omessa comunicazione dei dati, non vi siano state irregolarità nell’utilizzo del plafond, non si procederà ad alcun recupero d’imposta”.4 Cfr. articolo 20, co.3 D.Lgs. n.175/14.5 Sulla disciplina transitoria, si rinvia alle indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n.6/E/15 (risposta 4.1).

fornitore, ovvero in dogana, la dichiarazione d’inten-to e la relativa ricevuta di presentazione all’Agenzia6; a sua volta, il fornitore, prima dell’emissione della fattura in regime di non imponibilità, è tenuto a ve-rificare l’avvenuta trasmissione all’Agenzia delle En-trate della dichiarazione d’intento, pena l’applicazio-ne della sanzione prevista dall’art.7, co.4-bis D.Lgs. n.471/97, nella misura compresa tra il 100 e il 200% dell’imposta7.In base alle indicazioni contenute nella Circolare n.31/E/14 (§ 11), il riscontro telematico, a regime, po-trà essere effettuato secondo due modalità alternative.Da subito, per tutti gli operatori, sul sito Internet www.agenziaentrate.gov.it è resa disponibile una funzione a libero accesso attraverso la quale, inse-rendo il codice fiscale del cedente/prestatore, del cessionario/committente nonché il numero di proto-collo della ricevuta telematica, sarà possibile effet-tuare il predetto riscontro telematico. A breve, per i soggetti abilitati ai servizi Entratel o Fisconline, sarà possibile verificare nel proprio cassetto fiscale l’av-venuta presentazione della dichiarazione d’intento da parte del cessionario/committente, unitamente alla ricevuta telematica. Questa seconda modalità richiede tempi tecnici, per cui sarà inizialmente vi-sibile solo la ricevuta e, successivamente, anche il documento.Il medesimo fornitore provvederà, infine, a riepilo-gare i dati delle dichiarazioni d’intento ricevute nella dichiarazione Iva annuale, sicché è legittimo atten-dersi la modifica della modulistica che sarà approva-ta l’anno prossimo al fine di inserire nella dichiara-zione i suddetti dati.

Il nuovo modello di dichiarazione d’intentoIl Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate n.159674 del 12 dicembre 2014, ha approvato il modello per la dichiarazione d’intento, con le relative istruzioni e le specifiche tecniche per la trasmissione telematica dei dati.Il modello è composto dal frontespizio, che contiene, tra l’altro, la dichiarazione d’intento, e il quadro A,

6 In merito alla presentazione della lettera d’intento presso la Dogana, è previsto che l’Agenzia delle Entrate metta a disposizione dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nel termine di 120 giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni in esame, l’accesso alla banca dati delle dichia-razioni di intento, al fine di fornire uno strumento idoneo a garantire una celere circolazione delle informazioni necessarie all’espletamento degli adempimenti doganali.7 Secondo la citata norma, tale sanzione si applica nei confronti del for-nitore che effettua cessioni di beni o prestazioni di servizi senza addebito dell’imposta “prima di aver ricevuto da parte del cessionario o commit-tente la dichiarazione d’intento e riscontrato telematicamente l’avvenu-ta presentazione all’Agenzia delle Entrate …”.

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TRIBUTIche contiene i dati relativi al plafond e l’impegno alla trasmissione telematica.Nel quadro A, in particolare, il dichiarante deve spe-cificare:• il metodo di calcolo del plafond adottato (fisso

o mobile);• se, alla data di trasmissione della dichiarazione

d’intento, la dichiarazione Iva annuale: ෮ è già stata presentata, nel qual caso non è ne-

cessario indicare le operazioni che concorro-no alla formazione del plafond;

෮ non è stata ancora presentata, nel qual caso occorre indicare quali operazioni hanno con-corso alla formazione del plafond, distinguen-do tra esportazioni, cessioni intracomunita-rie, cessioni verso San Marino e operazioni assimilate alle cessioni all’esportazione;

• se ha effettuato operazioni straordinarie che hanno concorso alla formazione, anche parziale, del plafond disponibile.

In fase di stampa, è possibile escludere il quadro A dalla copia della dichiarazione d’intento da conse-gnare al fornitore8.

Comunicazione delle operazioni straordinarieIn merito alla compilazione della casella 6 del rigo A2 del nuovo modello di dichiarazione d’intento, la Circolare n.6/E/15 (risposta 4.2) ha chiarito che le operazioni straordinarie in questione “sono tut-te quelle operazioni che possono determinare un trasferimento di plafond tra i soggetti interessati ad un’operazione straordinaria, come, ad esempio, l’affitto d’azienda, il conferimento, la fusione, la tra-sformazione”.In caso, per esempio, di affitto d’azienda, l’art.8, co.4 d.P.R. n.633/72 disciplina il trasferimento, in capo all’affittuario, dello status di esportatore abituale in precedenza rivestito dall’affittante, disponendo che, affinché abbia effetto il suddetto trasferimento, è ne-cessario che il medesimo sia espressamente previsto nel contratto di affitto e che ne sia data comunica-zione con lettera raccomandata entro 30 giorni al competente ufficio dell’Amministrazione finanziaria. Riguardo a quest’ultima condizione (comunicazio-ne con lettera raccomandata), le istruzioni relative ai modelli AA9/11 (per le persone fisiche) e AA7/10 (per i soggetti diversi dalle persone fisiche) precisano che l’adempimento s’intende regolarmente rispetta-to con la compilazione della sezione 3 del quadro D

8 Cfr. Provvedimento n.159674/14 (punto 2.2).

del modello AA7/10 e della sezione 3 del quadro E del modello AA9/11.Anteriormente all’introduzione di tale disposizione ad opera dell’art.1, co.5 D.L. n.417/91, convertito dalla L. n.66/92, era stato costantemente indica-to che il trasferimento del plafond a favore dell’af-fittuario presuppone sia il passaggio, in capo a tale soggetto, di tutti i rapporti giuridici relativi all’azien-da, compresi i crediti e i debiti, sia la prosecuzione dell’attività di esportazione9.Il citato art.8, comma 4. d.P.R. n.633/72, invece, non prevede il subentro nei rapporti giuridici relativi al complesso aziendale concesso in affitto. Tuttavia, l’Amministrazione finanziaria, in un intervento suc-cessivo all’introduzione della norma, ha ritenuto ancora rilevante il requisito in esame; una diver-sa interpretazione della disposizione, infatti, mal si concilierebbe con il contratto di affitto d’azienda, nel quale è previsto il trasferimento del plafond solo se vengono ceduti quanto meno i rapporti con la clien-tela, oltre all’universalità di beni che costituiscono l’azienda10.Più recentemente, il Ministero dell’Economia e del-le Finanze, nella risposta del 27 gennaio 2010 all’in-terrogazione parlamentare n.5-02385, ha precisato che, “qualora ricorrano astrattamente i presupposti richiesti dalla norma ed i contribuenti provvedano puntualmente ad espletare gli adempimenti dalla stessa enucleati (espressa previsione nel contratto di affitto e comunicazione in terminis all’ufficio compe-tente), l’affittuario può, in linea di principio, utilizza-re il plafond maturato dall’affittante. Tuttavia, resta impregiudicata la possibilità di contestare eventua-li profili elusivi connessi all’operazione di affitto di azienda in relazione al trasferimento e all’utilizzo del plafond, specie in situazioni peculiari quali quelle in cui il contratto di affitto dell’azienda non prevede il trasferimento dei rapporti con la clientela”.Nei casi, invece, di cessione e di conferimento d’a-zienda, l’Amministrazione finanziaria aveva inizial-mente ritenuto che il trasferimento, in capo al ces-sionario/conferitario, del diritto di acquistare beni/servizi senza Iva presuppone sia il trasferimento di tutti i debiti/crediti, sia il proseguimento dell’attivi-tà di esportazione da parte del cessionario/conferi-tario stesso11.

9 Cfr. Risoluzione n.621202/91; Risoluzione n.470080/91; Risoluzione n.470048/90; Rizoluzione n.411284/76; Risoluzione n.520063/75.10 Cfr. Risoluzione n.450173/82.11 Cfr. Risoluzione n.16/E/96; Risoluzione n.590157/89; Risoluzione n.621099/89; Risoluzione n.505229/87; Risoluzione n.549055/74.

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TRIBUTIIn linea, tuttavia, con la posizione della giurisprudenza di merito12, l’Agenzia delle Entrate ha successivamente precisato che nelle “trasformazioni sostanziali sogget-tive”, escluso, quindi, il caso dell’affitto d’azienda, il trasferimento del plafond a favore dell’avente causa non deve intendersi subordinato al trasferimento di tutti i debiti/crediti dell’azienda, ma solo delle posi-zioni attive e passive necessarie ad assicurare, in si-tuazione di continuità, la prosecuzione dell’attività d’impresa rivolta ai clienti non residenti13.Tale indicazione è stata confermata nella successiva Risoluzione n.124/E/11. Nel caso specifico del con-ferimento di un ramo d’azienda, è stato chiarito che il trasferimento del plafond non è condizionato al trasferimento di tutti i rapporti con la clientela non residente o, più in generale, di tutte le posizioni cre-ditorie e debitorie relative al ramo d’azienda confe-rito. Il diritto in esame nasce, infatti, dalla situazione obiettiva, ossia dall’essere esportatore abituale nei limiti quantitativi previsti dalla relativa disciplina; si-tuazione nella quale il conferitario subentra per ef-fetto del conferimento del ramo aziendale dedicato all’attività di esportazione.Ai fini anagrafici, in caso di trasferimento del pla-fond, nei modelli AA9/11 (per le persone fisiche) e AA7/10 (per i soggetti diversi dalle persone fisiche), il cedente o conferente e il cessionario o conferitario devono barrare, rispettivamente, la casella PL della sezione 2 del quadro E e la casella PL della sezione 1 del quadro E (modello AA9/11), nonché la casella PL della sezione 2 del quadro D e la casella PL della sezione 1 del quadro D (modello AA7/10).Allo stesso modo, nell’ipotesi di fusione, sia per in-corporazione che “propria”, la società incorporante, ovvero quella risultante dalla fusione, subentra in

12 Cfr. CTR di Torino n. 8 del 9 marzo 2007.13 Cfr. Risoluzione n.165/E/08.

tutti gli obblighi e i diritti delle società preesistenti, compreso il diritto di beneficiare del plafond even-tualmente spettante a queste ultime. Il beneficio dell’acquisto senza applicazione dell’Iva presuppo-ne che la società incorporante o risultante dalla fu-sione continui l’attività di esportazione delle socie-tà preesistenti14, sicché - alla luce delle Risoluzioni n.165/E/08 e n.124/E/11 - il trasferimento del pla-fond a favore dell’avente causa deve intendersi su-bordinato al trasferimento delle sole posizioni attive e passive necessarie ad assicurare, in situazione di continuità, la prosecuzione dell’attività d’impresa ri-volta ai clienti non residenti.La medesima conclusione vale per la trasformazione, ancorché - secondo l’Amministrazione finanziaria - il trasferimento del plafond in capo alla società trasfor-mata è subordinato alla condizione che quest’ultima, allo stesso tempo, abbia assorbito a tutti gli effetti i rapporti giuridici attivi e passivi e continui l’attivi-tà di esportazione della società cessata15. Il plafond può essere trasferito solo in caso di trasformazione eterogenea regressiva, cioè da società di capitali; in caso, invece, di trasformazione eterogenea progres-siva, cioè da un ente che, prima della trasformazio-ne, non esercitava alcuna attività commerciale, il plafond non ha potuto essere generato e, quindi, non si pone il problema del suo trasferimento.In caso sia di fusione che si trasformazione, ove sia trasferito il plafond, nei modelli AA9/11 (per le per-sone fisiche) e AA7/10 (per i soggetti diversi dalle persone fisiche), la società beneficiaria deve barrare la casella PL della sezione 1 del quadro D del modello AA7/10 e la casella PL della sezione 1 del quadro E del modello AA9/11.

14 Cfr. Risoluzione n.520828/76.15 Cfr. Risoluzione n.410683/78 e Risoluzione n. 410792/78.

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PRASSI CONTABILEOperazioni di fusione: principali aspetti contabili e fiscali. Riporto delle perdite in caso di fusione tra società che non superano il test di vitalitàdi Giampiero Gugliotta - dottore commercialiste e revisore legale presso CTL Advisorye Gianluca Fedele - dottore commercialiste e revisore legale presso CTL Advisory

Con il presente breve contributo, dopo avere rappresentato i principali aspetti contabili dell’operazione di fusione societaria, nonché le più rilevanti variabili fiscali dell’operazione, si è inteso porre all’attenzione una delle problematiche più discusse concernenti la riportabilità delle perdite fiscali e degli interessi passivi delle società partecipanti alla fusione e, principalmente, il caso in cui, al fine della valutazione della “vitalità aziendale” di cui all’art.172, co.7 Tuir, le società partecipanti alla fusione non presentino nei loro conti economici spese per prestazioni di lavoro.

Premessa: gli aspetti principali dell’opera-zione di fusioneLa fusione societaria, intesa come istituto giuridico che consente la crescita delle dimensioni dell’azienda attraverso linee esterne, è disciplinata nel nostro ordi-namento dagli articoli da 2501 a 2505-quater cod.civ.. La disciplina codicistica nazionale prevede espressa-mente all’art.2501 due forme di fusione. In particola-re, l’articolo citato, al primo comma, prevede, infatti, che: “La fusione di più società può eseguirsi median-te la costituzione di una società nuova, o mediante l’incorporazione in una società (NdR preesistente) di una o più altre”; pertanto:1. nel caso della c.d. fusione per unione o propria,

si verifica l’“estinzione” delle società partecipan-ti e la nascita di un nuova entità sociale;

2. nel caso della c.d. fusione per incorporazione, i soggetti estinti (le incorporate) risultano assor-biti da un’altra entità sociale (l’incorporante) che continuerà ad esistere.

I soci delle società partecipanti alla fusione riceve-ranno, in cambio delle azioni o quote possedute delle società che si estinguono, azioni o quote della nuova società, mediante un rapporto “ragionato” sulle con-sistenze dei patrimoni delle imprese partecipanti alla fusione denominato concambio o più semplicemen-te rapporto di cambio. Ciò vale a distinguere forte-mente l’operazione da quella di acquisto di un’azien-da, in cui si ha uno scambio moneta‐azienda. La fusione per incorporazione, anche grazie alla sua minore onerosità rispetto alla fusione per unione, in termini di costi legali ed amministrativi, è il tipo di fusione generalmente più utilizzato. La minore one-rosità è data dal fatto che con essa non è necessario

sostenere i costi relativi alla creazione di una società nuova (fusa) in sostituzione di quelle preesistenti. La fusione per incorporazione, inoltre, è preferibile soprattutto perché consente la retrodatazione degli effetti contabili e fiscali, circostanza non realizzabile nella fusione per unione, per evidenti ragioni tecni-co‐giuridiche. È bene notare che, qualora si opti per la fusione per incorporazione, anziché assistere all’assegnazione delle azioni o quote della newCo ai soci delle società partecipanti alla fusione, si dovrà procedere - in ge-nere - ad un aumento di capitale a servizio della fu-sione, da effettuare da parte dell’incorporante (con-testualmente alla delibera di fusione) e destinato ai soci dell’incorporata.

Gli effetti contabili delle operazioni di fusio-ne societaria: avanzi e dei disavanzi difusio-ne. Alcuni esempiDal punto di vista contabile, per effetto della fusione, la società risultante o incorporante:a) iscrive nel proprio stato patrimoniale gli elemen-

ti dell’attivo e del passivo che vengono ad essa trasferiti dalle società fuse o incorporate,

b) e rileva in contropartita: ෮ il capitale sociale (fusione “propria”) oppure

l’aumento del medesimo (fusione per incor-porazione) che si determina per effetto della fusione;

෮ l’annullamento del valore contabile delle eventuali azioni o quote possedute nelle so-cietà fuse o incorporate.

Le c.d. “differenze da fusione” altro non sono che la differenza che emerge sul piano contabile tra il patri-

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PRASSI CONTABILEmonio netto contabile della società fusa o incorpo-rata (che, per effetto della fusione, si trasferisce alla società risultante o incorporante) e, rispettivamen-te, l’incremento del capitale sociale della società ri-sultante o incorporante e/o il valore contabile della partecipazione nella società incorporata che deve essere annullata.Tali “differenze da fusione” assumono la natura di “disavanzi” o di “avanzi”, a seconda del fatto che il patrimonio netto contabile della società fusa o incor-porata risulti inferiore oppure eccedente rispetto:a) all’incremento del capitale sociale della società

risultante o incorporante (c.d. “avanzi o disavan-zi da concambio”);

b) al valore contabile della partecipazione nella so-cietà incorporata che deve essere annullata (c.d. “avanzi o disavanzi da annullamento”).

Quando l’avanzo e il disavanzo si verificano contem-poraneamente nell’operazione di fusione in dipen-denza di cause proprie, l’uno e l’altro restano sog-getti alla correlativa disciplina tributaria e non sono suscettibili di compensazione1. Avanzi/disavanzi da annullamentoSe la società incorporante possiede una parteci-pazione nella società incorporata, l’estinzione di quest’ultima implica che, in capo alla società incor-porante, occorre procedere all’annullamento della partecipazione in essa posseduta.Per effetto di tale operazione, la fusione genera una differenza da annullamento pari alla differenza tra:• entità del valore contabile della partecipazione

che deve essere annullata (nel prosieguo, “costo della partecipazione”);

• entità della quota del patrimonio netto contabile dell’incorporata corrispondente alla percentuale che esprime in esso la partecipazione da annulla-re (nel prosieguo, “P.N. incorporata”).

Riassumendo:

1 Tale tesi è peraltro supportata dalla comunicazione Consob n.DAC/RM/96003006 del 29 marzo 1996, secondo cui il disavanzo da annulla-mento e l’avanzo da concambio devono essere separatamente indicati nello Stato patrimoniale, atteso che il primo agli effetti civilistici costi-tuisce un maggior costo dei beni della società incorporata (incluso l’av-viamento), e che un’eventuale compensazione tra le due voci sarebbe in contrasto con un’esauriente rappresentazione dell’operazione di con-centrazione e del costo economico complessivo ad essa corrispondente.

Nel caso di fusione per incorporazione di società in-teramente possedute, si avrà solo avanzo o disavan-zo da annullamento, e non anche da concambio, dal momento che, non vi sono soci terzi ai quali “con-cambiare” le azioni dell’incorporata.

Ipotesi con disavanzo di fusioneSoc. A (incorporante)(Situazione patrimoniale)

Partecipaz. nella soc. B 400 Cap. soc. 200Altre attività 600 Passività 800Totale 1.000 Totale 1.000

Soc. B (incorporanda)(Situazione patrimoniale)

Attività 3.000 Patrimonio netto 350 - Cap. soc. 300 - Riserve 50

Passività 2.650Totale 3.000 Totale 3.000

In sede di fusione emergerà un disavanzo di 50 [400 (valore di carico soc. A della partecipazione) meno 350 (patrimonio netto Soc. B)].La situazione patrimoniale della Soc. A (incorporan-te), dopo la fusione, sarà: (Situazione Patrimoniale)

Attività ex soc. B 3.000 Cap. soc. 200Altre attività 600 Passività ex soc. B 2.650Disavanzo difusione 50 Altre passività 800Totale 3.650 Totale 3.650

Ipotesi con avanzo di fusioneSoc. A (incorporante)(Situazione Patrimoniale)

Partecipaz. nella soc. B 400 Cap. soc. 200Altre attività 600 Passività 800Totale 1.000 Totale 1.000

Soc. B (incorporanda)(Situazione patrimoniale)

Attività 3.000 Patrimonio netto 500 - Cap. Soc. 300 - Riserve 200 Passività 2.500Totale 3.000 Totale 3.000

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PRASSI CONTABILEIn sede di fusione emergerà un avanzo di 100 [400 (valore di carico soc. A della partecipazione) meno 500 (patrimonio netto soc. B)].La situazione patrimoniale della soc. A incorporante, dopo la fusione, sarà:Soc. A (incorporante)(Situazione Patrimoniale)

Attività ex Soc. B 3.000 Cap. soc. 200Altre attività 600 Avanzo di fusione 100 Passività ex soc. B 2.500 Altre passività 800Totale 3.600 Totale 3.600

Società incorporante che possiede parte del capitale sociale della società incorporanda.In tale ipotesi, e senza ricorrere a complicate esem-plificazioni numeriche, è opportuno chiarire che da un’unica operazione di fusione emergono due “diffe-renze di fusione”:• una dal raffronto del costo della partecipazione

con la quota parte del patrimonio netto della so-cietà incorporanda “rappresentata” dalla parte-cipazione medesima;

• l’altra, dal raffronto dell’aumento di capitale deliberato dalla società incorporante ai fini del concambio e la quota parte del patrimonio net-to, della società incorporanda, di “spettanza” dei soci terzi.

Quanto sopra può determinare l’originare di:• due avanzi (un avanzo da annullamento e un

avanzo da concambio);• due disavanzi (un disavanzo da annullamento e

un disavanzo da concambio);• un avanzo da annullamento e un disavanzo da

concambio;• un disavanzo da annullamento e un avanzo da

concambio.

Avanzi/disavanzi da concambioLe differenze da concambio non derivano, per defini-zione, da un maggior/minor costo sostenuto per l’ac-quisizione delle partecipazioni annullate per effetto della fusione; esse possono derivare, invece, dalla necessità di adeguare il rapporto di cambio (delle azioni/quote) per i soci delle società fuse, tenendo conto del rispettivo “valore effettivo”.Le differenze in esame si possono manifestare quan-do la società incorporante non detiene la totalità del capitale della società da incorporare. Per procedere alla fusione è, quindi, necessario procedere con il “ri-

tiro” di tutte le azioni o quote in circolazione della società da incorporare, emettendo in cambio azioni della società incorporante.Così, ad esempio, si ha disavanzo da concambio quando l’incremento del capitale sociale deliberato per soddisfare i soci terzi è superiore al patrimonio netto della società incorporata.L’aumento del capitale della società incorporante che deve essere deliberato dalla società incorpo-rante, per “indennizzare” i soci della società incor-poranda mediante l’assegnazione di azioni o quote “in concambio”, deve essere determinato sulla base del “valore effettivo” dei patrimoni netti delle socie-tà partecipanti alla fusione, con la conseguenza che tale aumento può essere superiore ovvero inferiore al “valore contabile” del patrimonio netto della so-cietà incorporanda. EsempioSoc. A (incorporante)Cap. soc. 2.700.000N. azioni 2.700Valore nominale 1.000

Soc. B (incorporata)Cap. soc.1.200.000N. azioni 600Valore nominale 2.000

Valori effettiviSoc. A = 5.400.000Soc. B = 1.800.000

Aumento capitale sociale soc. A:1.800.000 = ¼ = 0,255.400.000 + 1.800.00075 : 25 = 2.700 : XX = 900

Nuovo capitale:N. azioni 2.700 + 900 = 3.600Rapporto di cambio:900 nuove azioni Soc. A = 3/2600 vecchie azioni Soc. B

Ad ogni n.2 vecchie azioni soc. B verranno assegnate n.3 nuove azioni soc. A.

Modalità di contabilizzazione delle differenze da fusioneIl disavanzo da fusione dovrà essere imputato (art.2504-bis co.4 cod.civ.):• ove possibile, agli elementi dell’attivo e del passi-

vo della società partecipante alla fusione;

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PRASSI CONTABILE• per la differenza e nel rispetto delle condizioni

previste dal n.6 dell’art.2426 cod.civ., ad avvia-mento2.

L’avanzo dovrà invece essere rilevato, in alternativa (art.2504-bis, co.4 cod.civ.):• in una voce dei fondi per rischi e oneri, se è ori-

ginato dalla previsione di negativi od insoddisfa-centi risultati futuri;

• in una riserva di patrimonio netto, se rappresen-ta la conseguenza di un’acquisizione ben nego-ziata (“buon affare”).

La suddetta disciplina si applica sia alle differenze da annullamento che a quelle da concambio.

Aspetti fiscali relativi all’operazione di fu-sione: l’imposizione direttaIl trattamento fiscale relativo all’imposizione diretta delle operazioni di fusione è racchiuso nell’art.172 d.P.R. n.917/86. Il comma 1 del citato articolo sta-bilisce che la fusione tra più società “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minu-svalenze dei beni delle società fuse o incorporate” (comprese quelle relative alle rimanenze e all’avvia-mento).Per effetto di tale disposizione, la fusione costituisce un’operazione fiscalmente neutrale per le società che vi partecipano nella posizione di società fuse o incorporate, in quanto, viene per l’appunto esclusa la rilevanza, in capo a tali soggetti, dei plusvalori e minusvalori eventualmente latenti rispetto ai valori fiscalmente riconosciuti alla data di efficacia della fusione3.La neutralità fiscale della fusione è, dunque, diretta conseguenza del principio di continuità dei valori fi-scali nel passaggio degli elementi patrimoniali dalla società fusa o incorporata alla società risultante o incorporante e della correlata irrilevanza fiscale degli eventuali plusvalori iscritti nel suo attivo patrimoniale.Ciò premesso, in ossequio al principio generale di successione della società risultante o incorporan-te nelle posizioni soggettive delle società fuse o in-

2 Secondo autorevole dottrina, l’irrilevanza del disavanzo permane anche quando venga utilizzato per iscrivere maggiori valori non sugli elementi patrimoniali dell’incorporata, bensì su quelli dell’incorporante, non consi-derando le implicazioni civilistiche di tale comportamento contabile.3 Si segnala tuttavia che, in relazione alle operazione di fusione c.d. ete-rogenee, ossia quelle che hanno per oggetto società di capitali ed enti non commerciali: (i) i beni dell’incorporata confluiti nell’attività d’impresa dell’ente non commerciale, incorporante, beneficiano del regime di neu-tralità fiscale dell’art.172 Tuir; (ii) i beni della società non imputati nell’at-tività commerciale dell’ente si considerano realizzati al valore normale, generando plusvalenze imponibili in analogia a quanto previsto per le operazioni di trasformazione eterogenea (Cfr. Risoluzione n.102/09).

corporate, la società risultante o incorporante può riportare nei periodi di imposta post fusione non soltanto le perdite maturate ante fusione da essa stessa, ma anche quelle maturate dalle società fuse o incorporate.Tuttavia, il riporto delle perdite fiscali (così come de-gli interessi passivi) maturati durante gli esercizi pre-cedenti alla data di efficacia della fusione dalle socie-tà partecipanti all’operazione (compresa la società incorporante) è consentito dal comma 7 dell’art.172 Tuir soltanto se la società che ha prodotto tali perdi-te ha mantenuto un livello di operatività non inferio-re alla soglia minima individuata dalla norma stes-sa, con riferimento ai volumi di ricavi caratteristici e alle spese per prestazioni di lavoro subordinato (c.d. “test di vitalità”).Ai sensi del citato co.7 dell’art.172 Tuir4, le perdite fi-scali, maturate dalle società partecipanti alla fusione (comprese quelle maturate dalla società incorporan-te), presentano tre limitazioni al riporto:1. una prima, legata alla verifica della “vitalità”;2. una seconda correlata all’ammontare dei patri-

moni netti contabili di ciascuna delle società par-tecipanti alla fusione;

3. una terza che trae la sua origine nella presenza di svalutazioni delle partecipazioni con effetto fiscale.

Soffermandoci in questa sede sull’analisi del re-quisito della vitalità aziendale, appare utile a tal

4 Articolo 172 Tuir, co.7 - “7. Le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorpo-rante per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferio-re, dalla situazione patrimoniale di cui all’art.2501-quater cod.civ., senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relati-vo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all’art.2425 cod.civ., superiore al 40% di quello risultan-te dalla media degli ultimi due esercizi anteriori.Tra i predetti versamenti non si comprendono i contributi erogati a nor-ma di legge dallo Stato a da altri enti pubblici. Se le azioni o quote della società la cui perdita è riportabile erano possedute dalla società incor-porante o da altra società partecipante alla fusione, la perdita non è comunque ammessa in diminuzione fino a concorrenza dell’ammontare complessivo della svalutazione di tali azioni o quote effettuata ai fini del-la determinazione del reddito dalla società partecipante o dall’impresa che le ha ad essa cedute dopo l’esercizio al quale si riferisce la perdita e prima dell’atto di fusione. In caso di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione ai sensi del comma 9, le limitazioni del presente comma si applicano anche al risultato negativo, determinabile applicando le re-gole ordinarie, che si sarebbe generato in modo autonomo in capo ai soggetti che partecipano alla fusione in relazione al periodo che inter-corre tra l’inizio del periodo d’imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione. Le disposizioni del presente comma si applicano anche agli interessi indeducibili oggetto di riporto in avanti di cui al co.4 dell’art.96”.

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PRASSI CONTABILEfine ricordare come, in termini generali, agli effetti dell’art.172, co.7 Tuir, le perdite fiscali delle società che partecipano all’operazione di fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante:a) per la parte del loro ammontare che non ecce-

de l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’art.2501-quater cod.civ. senza tener conto dei conferi-menti e versamenti fatti negli ultimi ventiquat-tro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa (i.e. requisito patrimoniale), e sempre che;

b) dal Conto economico della società, le cui perdite ed interessi5 sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deli-berata, risulti: ෮ un ammontare di ricavi e proventi dell’attività

caratteristica, ෮ un ammontare delle spese per prestazioni di

lavoro subordinato e relativi contributi,superiore al 40%, rispettivamente, dell’ammon-tare medio dei ricavi e proventi dell’attività ca-ratteristica e, dell’ammontare medio delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, degli ultimi due esercizi anteriori (i.e. requisito economico).

Il dettato normativo di cui al citato art.172, indivi-dua, quindi, i sopra descritti parametri di riferimen-to (c.d. “indici di vitalità”), il cui rispetto comporta il superamento della presunzione di elusività dell’o-perazione. La ratio sottesa a tale impianto normativo è, dunque, di natura antielusiva, nel senso che il Legislatore ha inteso evitare il commercio delle c.d. “bare fiscali”. Si tratta nello specifico di quei comportamenti volti a realizzare operazioni di fusione, palesemente non rispondenti ad alcuna reale ed apprezzabile esigenza di riorganizzazione economica, tra società generatri-ci di flussi di reddito e società “decotte”, svuotate di ogni capacità produttiva, ma dotate di un cospicuo bagaglio di perdite fiscali6.

5 La L. n.244/07 ha introdotto, con decorrenza dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data del 31 dicembre 2007, nel corpo dell’art.172, co.7 Tuir la previsione secondo la quale per gli interessi pas-sivi indeducibili nel periodo d’imposta di contabilizzazione e che potran-no essere riportati in avanti e dedotti dal reddito in periodi successivi valgono le stesse limitazioni stabilite dall’ordinamento fiscale con riferi-mento al riporto delle perdite fiscali pregresse.6 Cfr. Relazione ministeriale alla conversione in Legge del D.L. n.277/86, in tema di riporto delle perdite nelle fusioni di società.

Con riferimento alle condizioni di cui sopra, l’Agenzia delle Entrate ritiene che i requisiti minimi di vitalità economica non debbano sussistere soltanto nel pe-riodo precedente alla fusione, ma permanere anche fino al momento in cui l’operazione viene delibera-ta7. In caso contrario, a parere della stessa Ammini-strazione finanziaria, la disposizione verrebbe priva-ta della sua propria portata antielusiva, qualora fosse consentito il riporto delle perdite fiscali ad una socie-tà che è stata completamente depotenziata nell’arco di tempo intercorrente tra la chiusura dell’esercizio precedente alla fusione e la deliberazione dell’ope-razione stessa8.Inoltre, nell’ipotesi di retrodatazione degli effetti fiscali, ad una data non anteriore a quella in cui si è chiuso l’ultimo esercizio di ciascuna società fusa o incorporata, ovvero a quella - se più prossima - in cui si è chiuso l’ultimo periodo amministrativo dell’incorporante (art.172, co.9 d.P.R. n.917/86), le limitazioni alla riportabilità trovano applicazione anche nei confronti delle perdite che si sarebbero generate, autonomamente, in capo alle partecipan-ti alla fusione, nella frazione di periodo intercorren-te tra la data di inizio dell’esercizio e quella di effi-cacia giuridica della fusione.La ratio sottesa alla disposizione appena citata è quella di evitare che si ricorra alla retrodatazione, al solo scopo di poter beneficiare della compensazione intersoggettiva di flussi reddituali di segno diverso tra i soggetti giuridici coinvolti nell’operazione.Di conseguenza, nell’ipotesi di retrodatazione, tut-te le società partecipanti alla fusione dovranno de-terminare il proprio risultato di periodo, relativo all’intervallo temporale che intercorre tra l’inizio del periodo d’imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione, al fine di quantifica-re e qualificare eventuali perdite in formazione e gli interessi passivi in esame.Se, dunque, nel periodo intercorrente tra l’inizio del periodo d’imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione, la società è “svuota-ta”, il riporto di eventuali perdite in formazione e di

7 Risoluzione n.143/E/08. Si rileva tuttavia che nonostante la prassi am-ministrativa faccia riferimento al momento della delibera, si è eviden-ziato che, in realtà, ci si debba più correttamente rifare al momento di efficacia giuridica dell’operazione, rappresentato dall’iscrizione dell’atto di fusione presso il Registro Imprese.8 Tale orientamento non è condiviso né dall’Assonime (Circolare n.31/07), né dall’Adc di Milano (Norma di comportamento n.176/09), in quanto non supportato da una corretta interpretazione della novella legislativa.

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PRASSI CONTABILEinteressi passivi non sarà comunque possibile anche se, in quello precedente, essa era ancora pienamen-te vitale9.In sostanza, se il “test di vitalità” riferito alla frazione di periodo antecedente alla fusione non risulta supe-rato, viene negato il riconoscimento di tutte le perdi-te pregresse della società interessata, anche quando risulta superato il primo confronto (quello, cioè, ef-fettuato con riferimento alla chiusura dell’esercizio precedente alla fusione)10.

Accade frequentemente che le società parteci-panti alla fusione non presentino nei loro Conti economici spese per prestazioni di lavoro stante l’attuale periodo storico che richiede alle impre-se, tra l’altro, di avvalersi con maggior frequenza dell’“outsourcing” per svolgere alcune funzio-ni aziendali, al fine di mantenere una struttura quanto più possibile ”leggera”.

Tale fattispecie, tuttavia, non determina ex ante la mancanza di redditività. Infatti, soprattutto nei gruppi societari, la scelta di non sostenere direttamente spese per prestazioni di lavoro dipendente, può derivare sia dalla stes-sa natura dell’attività svolta, che potrebbe non ri-chiedere impiego di personale (es. produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili), sia per effetto della volontà del management di accentrare tutti i servizi amministrativi, fiscali, finanziari ed operativi presso un’unica società, solitamente la capogrup-po, ovvero affidarle in outsourcing a soggetti terzi come sopra anticipato.Conseguentemente, tutte le spese relative, ad esem-pio, alla tenuta delle scritture contabili, alla fattu-razione, al controllo di gestione, alla gestione delle risorse umane, ai sistemi e alle applicazioni infor-matiche, etc. sono di fatto interamente fornite dalla capogruppo o da società/professionisti esterni alle società oggetto di fusione in ragione di un apposito contratto di servizi. Ciò determina che, sebbene le società non sosten-gano direttamente costi per il personale, in virtù dell’outsourcing, il costo è sostenuto comunque in maniera implicita ed indiretta.

9 Cfr. Circolare n.9/E/10, Dodero-Ferranti, pag.1239 e Leo, pag.2647.10 Così Circolare Assonime n.20/E/10. L’Associazione osserva che occor-re sottoporre ad entrambe le verifiche di vitalità tutte le operazioni di fusione a prescindere dalla presenza o meno di una clausola di retroatti-vità. Peraltro, la doppia verifica riguarda il solo confronto tra gli elementi reddituali relativi ai ricavi e proventi e le spese per prestazioni di lavoro e non sembra coinvolgere l’ulteriore test pure richiesto dallo stesso co.7 dell’art.172 Tuir, relativo all’ammontare del patrimonio netto della socie-tà entro il cui limite le perdite sono ammesse al riporto.

In questo caso, sorgono dei dubbi interpretativi ri-guardo ai criteri da seguire per la verifica della sussi-stenza dei requisiti di vitalità economica rilevanti ai fini del riporto delle perdite che si sarebbero genera-te in modo autonomo in capo ai soggetti che parte-cipano alla fusione. Infatti, di per se, l’articolo 172, co.7 Tuir, come so-pra anticipato, disciplina - con finalità antielusive - le condizioni alle quali è consentito il riporto delle per-dite in occasione di fusioni societarie.Tale disciplina, si ribadisce, prevede - tra l’altro - che le perdite e gli interessi passivi delle società partecipanti all’operazione, compresa l’incorporan-te, possano essere riportate a seguito della fusione solo se le società che le hanno realizzate abbiano conseguito, nell’esercizio precedente a quello di delibera della fusione, un ammontare di ricavi o proventi dell’attività caratteristica e sostenuto spe-se per prestazioni di lavoro subordinato, di ammon-tare superiore al 40% della media degli ultimi due esercizi anteriori. A tal riguardo, l’Amministrazione finanziaria, con la Risoluzione n.143/E/08, rispondendo ad un istanza d’interpello presentata da una holding pura, circa il mancato superamento del test di vitalità economica nell’ipotesi di società senza lavoratori subordinati, ha però chiarito che la mancanza assoluta di costi del personale in bilancio, tipico delle holding di parteci-pazione, “non è, da sola, sintomo di scarsa vitalità aziendale”. Con tale affermazione l’Amministrazione finanziaria ha lasciato dunque intendere che il ripor-to delle perdite non è precluso laddove la vitalità possa desumersi da altri fattori.L’apertura dell’Amministrazione sopra citata, ritor-na quindi di estrema attualità e di grande valore ai fini della riportabilità delle perdite in quelle fusioni poste in essere per perseguire una reale ed apprez-zabile esigenza di riorganizzazione economica, dato il periodo economico attuale, tra società generatri-ci di flussi di reddito, non depotenziate e, quindi, non svuotate di ogni capacità produttiva, ma che si trovano nella condizione di non superare il test di vitalità per quanto riguarda l’impiego diretto di personale.Alla luce delle considerazioni sopra esposte, quindi, fermi i presupposti economici descritti che devono sottendere la fusione al fine di liberare il campo da qualsiasi ricorrenza di intenti elusivi sottesi all’ope-razione di riorganizzazione aziendale e preordinati al solo riporto delle perdite fiscali, ove, purtroppo non sia superato il test di vitalità, per quanto ri-

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PRASSI CONTABILEguarda il requisito “economico” sopra descritto (i.e. costi del personale), l’apertura dell’Amministra-zione potrebbe essere utile e mutuabile al fine di sostenere la presentazione di un’eventuale istanza d’interpello disapplicativo ai sensi dell’art.37-bis, co.8 d.P.R. n.600/73 per la disapplicazione delle di-sposizioni limitative al riporto delle perdite fiscali pregresse e degli interessi passivi di cui all’art.172, co.7 d.P.R. n.917/86.Tale comportamento è stato caldeggiato dalla stes-sa Amministrazione finanziaria sia nella Risoluzione sopra richiamata che nella Risoluzione n.337/E/02, ove è stato precisato che poiché la valutazione di tale circostanza involge l’applicazione di norme finalizzate a contrastare comportamenti elusivi, si ritiene che la stessa possa costituire oggetto di esame nell’ambito della diversa procedura contem-plata dall’art.37-bis, co.8 d.P.R. n.600/73 attraverso la presentazione di specifica e motivata istanza al Direttore regionale.

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GESTIONE ECONOMICO-AZIENDALEI principi italiani di valutazione: una sfida per gli studi professionalidi Massimo Buongiorno – docente di finanza aziendale, Università Bocconi di Milano e Università Ca’ Foscari di Venezia

La bozza in consultazione dei principi italiani di valutazione (Piv) redatti dall’Organismo italiano di valutazione nel dicembre 2014 pone con forza il tema della certificazione di qualità delle valutazioni finanziarie nell’interesse di una maggiore trasparenza e migliore qualità dei risultati.Se l’adesione ai Piv è forse meno complessa per un insieme di soggetti specializzati nelle valutazioni finanziarie, è invece più critica per gli studi professionali che pur essendo chiamati ad un gran numero di incarichi di questo tipo hanno competenze più estese.Il presente lavoro richiama il contenuto del documento, soffermandosi sui principi più critici e lasciando di fondo le tematiche più strettamente tecniche che richiedono differenti approfondimenti. Verranno svolte in conclusione alcune considerazioni in merito alla distanza tra i principi così come oggi disponibili e la normale prassi valutativa degli studi professionali, nonché in merito alle modalità e ai tempi di effettiva adesione di tali principi.

L’Organismo italiano di valutazione e i prin-cipi italiani di valutazioneL’attività valutativa può essere influenzata da molte-plici fattori legati alla natura della società da valuta-re, ma anche alle finalità per cui la valutazione deve essere resa o alle modalità specifiche che possono rendersi necessarie (ad esempio specifiche richieste normative). La conseguenza è l’impossibilità di determinare un valore assoluto od oggettivo, rimanendo inelimina-bili elementi di soggettività e specificità.La letteratura recente si è però concentrata sulla qualità delle valutazioni o al contrario sugli errori che riducono la credibilità del risultato.In altri termini, ad una soggettività “normale” del va-lore si aggiunge una componente legata alla scarsa attenzione dell’esperto al rispetto di un approccio metodologicamente rigoroso alla valutazione.L’Organismo italiano di valutazione nasce proprio con l’obiettivo di definire delle Linee Guida nelle va-lutazioni finanziarie condivise con le principali istitu-zioni interessate (Aiaf, Andaf, Assirevi, Borsa Italiana, Cndcec unitamente all’Università Bocconi).L’Organismo italiano di valutazione ha tenuto la pri-ma riunione il 29 novembre 2011 presso l’Università Bocconi dove ha sede.Nell’atto costitutivo si legge che l’Oiv è una Fondazio-ne (non profit e indipendente) che ha come compito primario accrescere la credibilità delle valutazioni e, per questa via, la fiducia degli utilizzatori finali dei servizi di valutazione. Per perseguire tale obiettivo

viene approvato un primo documento, in data 12 giugno 2012 che riguarda l’impairment test in con-testi di crisi, mentre nel 2013 e successivamente nel 2014 è stato affrontato il tema più generale dei prin-cipi di valutazione che costituisce l’oggetto del pre-sente lavoro.L’Oiv ha pubblicato, nel mese di dicembre del 2014, la bozza per la discussione del documento “principi italiani di valutazione”. Questo documento, si compone di quattro parti:1. la rete concettuale di base;2. l’attività dell’esperto;3. principi per specifiche attività;4. applicazioni particolari.L’entrata in vigore dei Piv si avrà al termine del perio-do di consultazione.Verranno di seguito analizzati i principali contenuti dei Piv, necessariamente in breve, per poi provare a comprendere quanto i Piv sono effettivamente di-stanti dalla normale prassi valutativa e quale sforzo si richiede per redigere una valutazione “Piv com-pliant”.In merito a quest’ultimo punto, l’adesione ai principi redatti dall’Oiv è su base volontaria; tuttavia è anche richiesta:1. l’adesione (sempre su base volontaria) anche al

Code of Ethical Principles for Professional Valuers emanato dall’Ivsc nel dicembre 2011;

2. la dichiarazione del professionista in merito alla propria competenza sui temi specifici oggetto della valutazione.

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GESTIONE ECONOMICO-AZIENDALEInoltre, l’adesione ai Piv non può essere parziale, ma il professionista è chiamato ad attestare l’integrale applicazione degli stessi.

La rete concettualeLa parte centrale e fondante è costituita dalla rete concettuale di base dei Piv che devono essere in-terpretati con la finalità di “garantire” gli utilizzatori finali in merito ai risultati del processo valutativo. L’Oiv insiste sul tema del continuo aggiornamento dei Piv richiedendo un analogo impegno da parte del professionista. La premessa precisa che la rete concettuale si svilup-pa secondo due direttrici fondamentali.La prima segue i quattro principi cardine della valu-tazione:a) ogni valutazione si riferisce ad un determinato

punto nel tempo; b) è per sua natura prospettica; c) i tassi di attualizzazione sono derivati dal mercato; d) può essere influenzata dalla liquidità e da altri

fattori.Vengono successivamente indicati i profili che devo-no caratterizzare ogni valutazione nei seguenti:a) il tipo di incarico; b) la data della valutazione; c) la configurazione di valore; d) l’unità di valutazione; e) le metodiche di valutazione.La rete concettuale è composta da 24 punti struttu-rati come di seguito indicato:• dal punto 1 al punto 3 viene analizzato il profilo

professionale e l’approccio dell’esperto;• dal punto 4 al punto 13 sono oggetto di esame

gli aspetti informativi e di fondo del processo va-lutativo;

• dal punto 14 al punto 19 si analizzano le metodo-logie valutative e i premi/sconti applicabili;

• dal punto 20 al punto 24 vengono approfondite le principali tecnicalità riguardanti la stima dei tassi, dei contratti derivati e dell’apprezzamento dell’inflazione.

Ogni punto presenta poi molteplici sottopunti.Le attività professionali per le quali i Piv possono essere applicati sono molto ampie e comprendono qualunque tipologia di valutazione, ma anche i pare-ri valutativi e l’esame della valutazioni compiute da un terzo (ad esempio le fairness opinion o tutta l’area del contenzioso inerente il valore di un’azienda).Vengono definite in dettaglio le fasi sulle quali deve articolarsi il processo valutativo come di seguito:

1. la costituzione e l’apprezzamento della base in-formativa;

2. l’applicazione dell’analisi fondamentale;3. la selezione della metodologia o delle metodo-

logie di stima più idonee agli scopi della valuta-zione;

4. l’identificazione dei principali fattori di rischio e delle modalità più idonee per il loro trattamento;

5. la costruzione di una razionale sintesi valutativa. L’esperto deve quindi preoccuparsi di disporre di informazioni sufficientemente dettagliate per esprimersi, in primo luogo, in merito alle dina-miche che spiegano la performance aziendale (analisi fondamentale) e solo successivamente alla traduzione in valore di queste ultime.

Poiché le valutazioni si fondano in gran parte sulla stima di eventi futuri, i risultati sono aleatori e, quin-di, soggetti ad un rischio che deve trovare adeguato trattamento nei modelli valutativi, ma anche idonea rappresentazione nei rapporti valutativi.Infine la sintesi valutativa, specie ove l’esperto si sia avvalso di più metodi, deve essere costruita in modo razionale.Al punto 1 i Piv sostengono che “la valutazione ri-chiede l’esercizio di un giudizio. Ed affinché esso sia fondato su basi solide è indispensabile che l’esperto disponga di adeguate competenze tecniche, di una buona esperienza professionale e delle necessarie conoscenze in merito all’oggetto della valutazione, all’eventuale settore o mercato di riferimento e alle caratteristiche della valutazione medesima”.Sancire che la valutazione è un giudizio, implica l’ine-liminabile soggettività che potrà essere limitata solo da un rigoroso approccio metodologico e, quindi, secondo l’Oiv, attraverso l’applicazione dei Piv tanto che al punto 1.2 viene affermato che il giudizio deve essere: 1. razionale ovvero fondato su uno modello con-

vincente nell’esprimere la relazione tra input e output valutativo;

2. verificabile nei dati utilizzati, nelle ipotesi formu-late e nella struttura del modello valutativo;

3. coerente tra le finalità valutative e lo svolgimen-to del lavoro;

4. affidabile nel senso ultimo di circoscrivere la sog-gettività al massimo possibile.

I Piv sottolineano con forza che l’esperto deve pos-sedere i requisiti di natura etica, indipendenza, og-gettività e diligenza nello svolgimento delle fasi del processo valutativo e tali requisiti (ove possibile) dovranno essere attestati nella valutazione. Nella

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GESTIONE ECONOMICO-AZIENDALEmedesima relazione dovrà risultare la provenienza dell’incarico, la portata delle analisi e le modalità di svolgimento e l’utilizzo che ne può essere fatto, esplicitando eventuali limitazioni.Il secondo blocco di principi riguarda la situazione di contesto nella quale si deve svolgere il processo valutativo. Centrale importanza viene attribuita alla base infor-mativa usata dal valutatore che è costituita da dati (pubblici o privati) e da ipotesi che l’esperto deve analizzare con spirito critico. L’analisi non si deve li-mitare ai dati storici, ma anche e soprattutto esten-dersi a quelli prospettici.Per quanto riguarda le ipotesi, che rappresentano l’incertezza intrinseca della valutazione, esse devo-no essere ragionevoli e adeguatamente giustificate. Maggiore attenzione dovrà essere riservata alle ipo-tesi classificate come rilevanti, ovvero che hanno un peso elevato sul risultato finale e sensibili (elevata probabilità di subire variazioni nel tempo e che pos-sono avere un effetto rilevante sul risultato finale).Il terzo blocco riguarda la configurazione di valore prescelta che deve rientrare in uno dei seguenti casi:1. intrinseco: valore che un qualsiasi soggetto ra-

zionale operante sul mercato, senza vincoli e in condizioni di trasparenza dovrebbe esprimere;

2. di mercato: prezzo di ipotetica goziazione;3. d’investimento: valore dei benefici che un’attivi-

tà finanziaria e reale potrà produrre in futuro;4. negoziale equitativo: esprime il prezzo al quale

verosimilmente la medesima potrebbe essere negoziata alla data di riferimento fra due o più soggetti identificati, correttamente informati e concretamente interessati, bilanciando in modo equo i rispettivi interessi;

5. convenzionale: discende dagli specifici criteri va-lutativi che sono stati fissati per la sua determi-nazione;

6. di smobilizzo: prezzo fattibile in condizioni di chiusura del ciclo di investimento.

Ciascuna delle precedenti configurazioni può trovare uno dei quattro attributi di valore seguenti:1. in atto: tiene conto dei benefici che già si stanno

manifestando;2. potenziale: tiene conto anche dei benefici di ini-

ziative ancora da intraprendere;3. oggettivo: riconoscibile da qualunque operatore

di mercato;4. soggettivo: riconoscibile solo da particolari ope-

ratori di mercato (ad esempio le sinergie nelle acquisizioni).

La data della valutazione viene intesa come il mo-mento temporale al quale la stima si riferisce e costi-tuisce il riferimento per la disponibilità dei dati.La valutazione può riguardare un’azienda in funzio-namento (going concern) oppure riguardare una condizione di liquidazione.Il blocco centrale del framework affronta il tema dei metodi valutativi che vengono ricondotti a tre cate-gorie principali:• metodica di mercato;• metodica dei risultati attesi;• metodica del costo.L’esposizione delle metodiche nei Piv è molto sinte-tica e si limita ad elencare le soluzioni riconosciute come praticabili dall’Oiv.Non si ritiene qui opportuno approfondire i diversi metodi non evidenziandosi particolari elementi di novità rispetto all’ampia produzione di letteratura in tal senso.

L’attività dell’espertoPer quanto attiene alle modalità attraverso le quali l’esperto deve compiere il suo lavoro, i Piv sottoline-ano l’esistenza di un obbligo di condotta professiona-le al meglio delle proprie capacità che si estrinseca:1. in un’attività verificabile da parte di un terzo;2. in un’attività neutrale in termini di indipendenza

di giudizio;3. in un’attività completa nel senso dell’adeguatez-

za delle informazioni disponibili.L’attività viene svolta a fronte di un incarico scritto, datato e ben precisato nei termini dei soggetti bene-ficiari della valutazione e delle sue finalità.I Piv in questa sezione affrontano anche le temati-che di gestione del rapporto tra il professionista e il committente, senza invero introdurre elementi di particolare novità.Più interessante è invece la struttura tipica di una re-lazione di stima che costituisce un termine di riferi-mento opportuno anche per i professionisti che non intendano aderire ai Piv.

Principi per specifiche attività e per applica-zioni particolariI Piv analizzano le seguenti attività specifiche:1. valutazioni d’azienda e di rami d’azienda;2. valutazioni d’azienda in particolari contesti (quo-

tate/non quotate, piccole/grandi dimensioni, surplus asset);

3. interessenze partecipative ed aggiustamenti di valore (premi e sconti);

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GESTIONE ECONOMICO-AZIENDALE4. beni immateriali;5. impianti e macchinari;6. immobili;7. strumenti finanziari;8. passività, passività non finanziarie e passività po-

tenziali.La terza sezione dei Piv è indubbiamente la più cor-posa poiché le metodiche valutative già anticipate nella rete concettuale vengono approfondite con grande dettaglio fornendo indicazioni specifiche nel-le diverse aree indagate.Valgono per la terza sezione le stesse indicazioni già formulate in precedenza; tuttavia si ravvisa che nello svolgimento dei principi applicabili alle diverse at-tività valutative, i Piv paiono a tratti portare avanti posizioni teoriche ed astratte, facilmente riconduci-bili ad abbondanti filoni di letteratura piuttosto che indicazioni operative stringenti.Lo testimonia il frequente ricorso sia nei principi che soprattutto nei commenti a termini quali “general-mente”, “di solito”, “è opportuno siano valutati”.Analoghe considerazioni valgono per l’ultima sezio-ne dedicata alle applicazioni particolari che coprono l’insieme delle operazioni straordinarie. In questo caso, il professionista si trova spesso in difficoltà nell’interpretare norme di legge non chiarissime per cui la disponibilità di principi codificati è sicuramente apprezzabile.Lo sviluppo dei Piv, invece, appare frettoloso e a vol-te trascura aspetti potenzialmente interessanti. Si cita ad esempio nella scissione, la dibattuta questio-ne di cosa intenda il legislatore con il termine “valore effettivo” di cui all’art.2506-quater cod.civ. che viene completamente ignorata nei Piv.

Piv e studi professionaliL’introduzione dei Piv costituisce indubbiamente un si-gnificativo passo in avanti verso una maggiore traspa-renza del mercato rendendo più chiari i presupposti su cui si fondano le valutazioni finanziarie che sono soven-te lette come un tema esclusivamente da esperti.Ne deriva che è sicuramente auspicabile che i profes-sionisti si muovano nel senso di adottare i Piv creando i presupposti per distinguere chiaramente tra una va-lutazione “Piv compliant” - quindi rispondente ad ele-vati requisiti di professionalità - ed una “non Piv com-pliant” che non è soggetta ad alcuna certificazione.Ovviamente un ruolo importante dovranno giocarlo i committenti muovendosi sempre più verso l’attri-buzione di incarichi solamente a professionisti “Piv compliant”.

L’adesione ad un importante network internazionale contribuisce a porre le basi per la futura evoluzione dei Piv verso una dimensione che inevitabilmente dovrà trascendere i confini nazionali.Si pone ora un tema interessante nel comprendere se l’auspicata adesione abbia reali presupposti di fat-tibilità, ovvero quanto i Piv sono lontani dalla prassi professionale.Limitando l’analisi al contesto che qui più rileva, ov-vero le valutazioni effettuate dagli studi professiona-li, l’adesione ai Piv presuppone due grandi profili:1. il rigore dell’approccio valutativo, in termini so-

prattutto di raccolta di una adeguata base infor-mativa e di capacità di porsi di fronte alle ipotesi con spirito critico;

2. la solidità dell’impianto metodologico in termini di accettabilità della funzione di valore che viene sviluppata.

In merito al primo tema, spesso accade che non venga attribuita la giusta importanza al dato e che vengano assunte come acquisite le ipotesi fornite dal committente senza porle in discussione, per man-canza di tempo o anche per una male interpretata forma di rispetto.Su questo punto, lo sforzo che la maggior parte dei professionisti deve compiere è molto rilevante e non solamente dal punto qualitativo, posto che l’accesso a dati significativi ha un costo notevole per lo studio.Il secondo tema è leggermente meno critico, prima di tutto perché gli studi professionali hanno negli ul-timi tempi affinato i metodi valutativi, introducendo le valutazioni comparabili e spesso anche i metodi Dcf. Qui lo sforzo è senza dubbio di formazione ed aggiornamento del professionista, ma la disponibi-lità sul mercato qui è molto ampia. I Piv possono ri-vestire un ruolo significativo in tal senso, tracciando un percorso formativo di progressivo adeguamento ai principi da attuarsi compiutamente nel corso del tempo. Ove la lettura di un principio o di un com-mento introduca temi non conosciuti dal professio-nista, quello è un ambito nel quale si deve interveni-re e colmare la lacuna.Non pare invece che la sezione dedicata alla rigoro-sità del rapporto con il committente possa costituire una aspetto così critico posto che si tratta meramen-te di estendere prassi professionali già tipiche delle altre attività consulenziali.La critica più volte avanzata ai Piv, e cioè di essere a tratti troppo didattici descrivendo modelli e tecnica-lità che dovrebbero essere già conosciute, va proprio

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GESTIONE ECONOMICO-AZIENDALEinterpreta nel senso di contribuire anche ad un ne-cessario processo formativo che nel nostro Paese in parte è ancora da compiere.Rimangono nella versione attualmente in consulta-zione ancora spazi di potenziale miglioramento, qua-lificando meglio alcuni punti e, a parere di chi scrive, particolarmente nell’ultima sezione.I Piv rimangono comunque imprescindibili anche per chi non intenda applicarli ma si trovi a effettuare va-lutazioni, soprattutto ove abbiano particolari profili di criticità e si prestino a potenziali rischi di future contestazioni. In tali situazioni, il richiamo a princi-pi che si configurano come best practices codificate può mostrarsi particolarmente utile.

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