1 NUMERO 15: La forma del poema Editoriale, di Italo Testa 2 IL DIBATTITO PERCORSI ITALIANI Pier Paolo Pasolini di Lisa Gasparotto 6 Vittorio Sereni di Luca Lenzini 18 Amelia Rosselli di Antonio Loreto 24 Giovanni Giudici di Lisa Cadamuro 46 Attilio Bertolucci e Alberto Bellocchio di Gabriella Palli Baroni 51 Antonio Porta di Andrea Gibellini 58 Remo Pagnanelli di Roberto Galaverni 62 Giuliano Mesa di Gian Luca Picconi 69 Mario Benedetti di Tommaso Di Dio 82 Luciano Cecchinel di Giovanni Turra 93 Giancarlo Majorino di Biagio Cepollaro 98 Andrea Zanzotto di Luca Stefanelli 101 FUOCHI TEORICI Vincenzo Frungillo 131 Niccolò Scaffai 138 POEMA E CANONE FEMMINILE Patrizia Vicinelli di Matteo Di Meco 151 Patrizia Vicinelli di Renata Morresi 162 Rosaria Lo Russo 173 Florinda Fusco 199 ALTRI SCENARI Yves Bonnefoy di Enrico Capodaglio 204 Durs Gruenbein di Domenico Pinto 216 Anthony Hecht di Joseph Harrison 218 Alice Oswald di Francesca Matteoni 224 W. G. Sebald di Raul Calzoni 231 INCURSIONI Giovanna Frene 248 Marco Giovenale 249 Stefano Raimondi 253 LETTURE Fabiano Alborghetti 260 Dina Basso 264 Francesco Filia 270 Giuseppe Fonte 274 Luca Minola 278 Luciano Neri 281 Gilda Policastro 285 Andrea Raos 289 Viviana Scarinci 295 Fabio Teti 299 I TRADOTTI John Ashbery tradotto da Damiano Abeni 305 Francis Catalano tradotto da Italo Testa 308 Kurt Drawert tradotto da Anna Maria Carpi 314 Santiago Elordi tradotto da Matteo Lefèvre 323 Charles Reznikoff tradotto da Andrea Raos 332 Jacques Roubaud tradotto da Italo Testa 345 Vincent Tholomé tradotto da Michele Zaffarano 348 Nika Turbina tradotta da Federico Federici 352
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La dissonanza del mondo tra passato e presente. Eliot, Pasolini e la forma poema
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NUMERO 15: La forma del poema
Editoriale, di Italo Testa 2
IL DIBATTITO
PERCORSI ITALIANI
Pier Paolo Pasolini
di Lisa Gasparotto 6
Vittorio Sereni
di Luca Lenzini 18
Amelia Rosselli
di Antonio Loreto 24
Giovanni Giudici
di Lisa Cadamuro 46
Attilio Bertolucci
e Alberto Bellocchio
di Gabriella Palli Baroni 51
Antonio Porta
di Andrea Gibellini 58
Remo Pagnanelli
di Roberto Galaverni 62
Giuliano Mesa
di Gian Luca Picconi 69
Mario Benedetti
di Tommaso Di Dio 82
Luciano Cecchinel
di Giovanni Turra 93
Giancarlo Majorino
di Biagio Cepollaro 98
Andrea Zanzotto
di Luca Stefanelli 101
FUOCHI TEORICI
Vincenzo Frungillo 131
Niccolò Scaffai 138
POEMA E CANONE FEMMINILE
Patrizia Vicinelli
di Matteo Di Meco 151
Patrizia Vicinelli
di Renata Morresi 162
Rosaria Lo Russo 173 Florinda Fusco 199
ALTRI SCENARI
Yves Bonnefoy
di Enrico Capodaglio 204
Durs Gruenbein
di Domenico Pinto 216
Anthony Hecht
di Joseph Harrison 218
Alice Oswald
di Francesca Matteoni 224
W. G. Sebald
di Raul Calzoni 231
INCURSIONI
Giovanna Frene 248
Marco Giovenale 249
Stefano Raimondi 253
LETTURE
Fabiano Alborghetti 260
Dina Basso 264
Francesco Filia 270
Giuseppe Fonte 274
Luca Minola 278
Luciano Neri 281
Gilda Policastro 285
Andrea Raos 289
Viviana Scarinci 295
Fabio Teti 299
I TRADOTTI
John Ashbery
tradotto da Damiano Abeni 305
Francis Catalano
tradotto da Italo Testa 308
Kurt Drawert
tradotto da Anna Maria Carpi 314
Santiago Elordi
tradotto da Matteo Lefèvre 323
Charles Reznikoff
tradotto da Andrea Raos 332
Jacques Roubaud
tradotto da Italo Testa 345
Vincent Tholomé
tradotto da Michele Zaffarano 348
Nika Turbina
tradotta da Federico Federici 352
EDITORIALE
Il numero 15 de L'Ulisse prosegue il ciclo di indagini sulle metamorfosi delle forme e dei generi
poetici contemporanei dedicate nei numeri scorsi al teatro di poesia (n. 9-10), alla lirica (n. 11) e
quindi alla prosa poetica (n. 13). Mettendo a tema questa volta ŖLa forma del poemaŗ non ci siamo
interrogati però solo sulle mutazioni contemporanee dell'epos. L'attenzione per l'organizzazione
poematica del discorso in versi, infatti, ci pareva offrire un punto d'osservazione privilegiato su quel
fenomeno di incrocio dei generi che è sempre più avvertibile nella poesia contemporanea e che
muove da un'esigenza diffusa di allargamento degli orizzonti di ciò che può essere detto in poesia.
Per questo motivo L'Ulisse si rivolge sia alla diversificata fenomenologia delle strutture poematiche
(poema, poemetto, long poem, romanzo in versi, serie, ciclo, sequenza per frammenti) sia
all'organizzazione macrotestuale del libro e dell'opera di poesia, con un attenzione privilegiata per
gli ultimi tre decenni.
In Percorsi italiani questo tema è affrontato in una serie di saggi monografici dedicati a singoli
autori, seguendo un itinerario che muove dall'eredità della terza e della quarta generazione Ŕ e dalla
funzione espansiva quivi giocata dalla forma poemetto Ŕ; trova poi un punto di snodo negli anni
ottanta, con l'emersione paradigmatica degli approcci epistemologici da un lato della memoria lunga
di Bertolucci Ŕ la Ŗgrande mano tesa a catturare il senso del tempoŗ della Camera da letto, secondo
la bella immagine usata da Roberto Galaverni – e delle sequenze di frammenti di Antonio Porta
dall'altro Ŕ i passi passaggi Ŕ; e infine si dispiega nei decenni successivi lungo le linee frastagliate
della nuova poesia italiana degli anni novanta, per riaprirsi, a testimonianza del fatto che si tratti di
un fenomeno di lunga durata e intergenerazionale, con le ultime prove di Majorino e Zanzotto negli
anni zero. I saggi di Lisa Gasparotto, Luca Lenzini, Antonio Loreto, Lisa Cadamuro, Gabriella Palli
Baroni, Andrea Gibellini, Roberto Galaverni, Gian Luca Picconi, Tommaso Di Dio, Giovanni
Turra, Biagio Cepollaro eLuca Stefanelli ci accompagnano così lungo un itinerario in cui dispositivi
poematici, nuclei lirici e strategie narrative si intersecano ed espandono nelle scritture di Pier Paolo
Pasolini, Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci (con le sue
derivazioni in Alberto Bellocchio), Antonio Porta, Remo Pagnanelli, Giuliano Mesa, Mario
Benedetti, Luciano Cecchinel, Giancarlo Majorino e Andrea Zanzotto.
L'esigenza di condivisione metrica e di spazializzazione del discorso entro macrostrutture è forse
uno degli effetti di lungo corso del germe teorico inoculato dalla prospettiva eccentrica e
plurilinguistica di Amelia Rosselli. Il ready-made e la teoria degli spazi metrici di quest'ultima, alla
cui analisi è dedicato l'ampio affresco di Antonio Loreto, sono peraltro la premessa di una
ridefinizione dei confini tra i generi anche in un senso ulteriore. Nel Focus, infatti, l'eredità di
Rosselli viene rivisitata secondo una traiettoria che passa attraverso lo snodo, non a caso emerso
anch'esso negli anni ottanta, di un vero e proprio poema di montaggio quale i Fondamenti
dell'essere di Patrizia Vicinelli Ŕ cui sono dedicati i saggi di Matteo Di Meco e Renata Morresi. Di
qui l'esigenza, maturata nel corpo a corpo con le sperimentazioni dell'arte contemporanea e il
bisogno di poesia totale proveniente dalla poesia visiva, di ripensare la nostra tradizione in un'ottica
che Ŕ nella riflessione di Rosaria Lo Russo, in dialogo con Florinda Fusco Ŕ si riappropria del
genere del poema epico come del nucleo di una nuova forma di soggettivazione femminile del
canone poetico.
L'interesse per la forma lunga, nella poesia italiana, è anche l'effetto di una serie di escursioni in
altre tradizioni Ŕ in particolare nella poesia anglosassone Ŕ che a partire dagli anni quaranta e
cinquanta Ŕ si veda il caso, analizzato in apertura di numero da Lisa Gasparotto, dell'eredità di Eliot
nel poemetto di Pasolini L'italiano è ladro Ŕ fanno da sfondo ai percorsi italiani. Una prospettiva
comparatistica, nella sezione Fuochi teorici, guida così l'interrogazione di Niccolò Scaffai sul
rapporto tra crisi del soggetto e incroci macrotestuali tra lirica/epica/narrativa (da Montale a
Pagliarani sino all'ultimo Caproni), mentre Vincenzo Frungillo rintraccia nello snodo tra tempo
naturale, tempo storico e tempo biografico la faglia in cui, nel confronto con i modelli europei, si
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incunea la produzione poematica della poesia italiana più recente, secondo una direttiva post-storica
che sfugge alla tradizione ancora modernista del poema per frammenti, comportando un mutato
approccio alla totalità dell'esperienza. L'incidenza della forma poema nella scritture contemporanee
di autori di lingua tedesca, inglese e francese è quindi al centro della sezione Altri scenari, ove il
lavoro di Yves Bonnefoy, Durs Gruenbein, Alice Oswald, W.G. Sebald e Anthony Hech è
analizzata nei saggi di Enrico Capodaglio, Domenico Pinto, Francesca Matteoni, Raul Calzoni e
Joseph Harrison. Chiude la parte saggistica del numero la sezione Incursioni, in cui Giovanna
Frene, Marco Giovenale e Stefano Raimondi dipanano i fili poematici del proprio laboratorio di
scrittura.
Ai saggi si affianca, come al solito, una ricca scelta di testi di poeti contemporanei. La sezione
Letture accoglie questa volta Fabiano Alborghetti, Dina Basso, Francesco Fillia, Giuseppe Fonte,
Luca Minola, Luciano Neri, Gilda Policastro, Andrea Raos, Viviana Scarinci e Fabio Teti. Infine,
ne I tradotti, ospitiamo poesie di John Ashbery (tradotto da Damiano Abeni), Francis Catalano
(tradotto da Italo Testa), Kurt Drawert (radotto da Anna Maria Carpi), Santiago Elordi (tradotto da
Matteo Lefèvre), Charles Reznikoff (tradotto da Andrea Raos), Jacques Roubaud (tradotto da Italo
Testa), Vincent Tholomé (tradotto da Michele Zaffarano) e Nika Turbina (tradotta da Federico
Federici).
Italo Testa
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IL DIBATTITO
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PERCORSI ITALIANI
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La dissonanza del mondo tra passato e presente.
Eliot, Pasolini e la forma poema
These fragments I have shored against my ruins
T. S. Eliot, The waste Land
e puoi ascoltare come un diapason incantato
la vita veramente umana che sale.
P. P. Pasolini, L'italiano è ladro
La critica alla società del dopoguerra, la desolazione e lo sconforto di una civiltà rinunciataria
quanto a valori spirituali e disinteressata alla condizione umana; una rappresentazione poetica in cui
passato e presente si mescolano sullo stesso piano, riproducendo una catena isotopica di immagini
che ruotano attorno alla metafora centrale di una Ŗterra guastaŗ, in una congerie di sfiducia e
fallimento è quanto Eliot ci racconta nella sua The waste Land. Un rapsodo dalla straordinaria forza
intuitiva, che combina soluzioni metriche in bilico tra classicità e sperimentalismo, intertesti della
tradizione letteraria con lo sperimentalismo individuale, in una multitonalità sospesa tra ironia e
parodia, liricità e narratività, senza mai perdere di vista l'intenzione di fondo tesa alla
rappresentazione della realtà o forse meglio della vastità dell'esistenza e della sua aridità.
Erano gli anni Venti, anni di sperimentazione e innovazione. In quel brulichio (europeo) di
inizio secolo le costruzioni poetiche eliotiane si configurano come un coacervo di elementi mitici,
lirici e narrativi, senza tuttavia restituire un vero e proprio racconto in versi.
Ora, quel che preme rilevare, è che l'eredità eliotiana sembra venire accolta, a distanza di un
ventennio e sempre in un contesto storico post bellico, come quello del secondo dopoguerra, in un
esperimento poetico mai finito di Pier Paolo Pasolini, risalente al crocicchio tra la fine degli anni
Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta (la prima stesura risale infatti al 1948-1949): mi riferisco
all'Italiano è ladro, un testo pubblicato in stralcio su «Nuova Corrente» nel 1955 e uscito poi dal
laboratorio, in sede postuma, in una forma più estesa e comunque non-finita(1).
Se il materiale poetico di Eliot era stato attinto dagli sviluppi dell'antropologia inglese a
cavallo tra i due secoli (in specie Frazer e la sua scuola) ricavandone una serie di archetipi mitico-
antropologici, la rappresentazione del reale di Pasolini a cavallo tra i due decenni si fonda invece su
archetipi di tipo storico-politico e ideologico (secondo una base interpretativa fornita da Marx,
Croce e Gramsci ma anche dalla tradizione cristiana) approdando tuttavia, nel testo che qui si
discute, a soluzioni formali non dissimili da quelle eliotiane (quali la suddivisione in sezioni, il
malcerto e elusivo collegamento tra le personae di volta in volta introdotte nei vari episodi, la
variazione del punto di vista, la forma del monologo o del dialogo Ŕ quest'ultimo sempre riducibile,
in qualche modo, al primo Ŕ, gli intertesti della tradizione letteraria, e quindi una tessitura fatta di
citazioni e allusioni, il plurilinguismo e la presenza, sebbene meno incisiva, delle note), e a
un'unitarietà tematica (forse) più definita.
Eliot si era sforzato di negare che la situazione da lui descritta fosse (solo) quella del primo
dopoguerra: era piuttosto la crisi originata dalla percezione di una più generale aridità della
condizione umana a concretizzarsi nel tropo della Ŗterra desolataŗ. Si trattava dello sforzo di unire
due mondi, uno reale e contingente e l'altro incarnato nella tradizione (intesa in senso ampio) e nelle
divergenti sollecitazioni della storia e della coscienza, come spiega nel celebre saggio Tradition and
the Individual Talent, del 1919: «la tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente
ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia,
anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a
fare il poeta dopo i venticinque anni; avere il senso storico significa essere consapevole non solo
che il passato è passato ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la
sensazione fisica presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la
coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all'interno di essa tutta la letteratura
del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo»(2). In
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sostanza, Eliot sostiene che in questa tensione dialogica tra passato e presente anche ogni
operazione artistica finisca con l'inscriversi necessariamente nella tradizione, modificandone a sua
volta senso e prospettiva: non può darsi pertanto nessun tentativo artistico di prescindere dalla
tradizione per fondare una nuova espressione e forma letteraria, se non in maniera illusoria. Tuttavia
The waste land sembra rappresentare una sintesi contraddittoria di questi enunciati: citazioni e note
si disseminano come detriti e frammenti del passato, segno evidente dell'impossibilità di un ritorno
compiuto alla tradizione o, peggio ancora, della mancanza di possesso delle sue strutture. Se,
dunque, per Eliot il senso della storia presume l'inserimento del passato nel presente con una
modalità quasi immanente, e la tradizione si caratterizza in modo acronico, secondo un'esistenza
sostanzialmente ideale, per Pasolini (che ha da poco Ŗscopertoŗ Marx(3)) la storia è invece
prevalentemente la storia della lotta di classe e quindi della contrapposizione tra due mondi (che poi
sono quello interiore e quello dell'alterità, quello della storia personale e quello della storia
collettiva, quello proletario e quello borghese, e, pour cause, quella della tradizione e quello della
modernità). Raccontare il rapporto tra passato e presente significa pertanto tendere alla
rappresentazione di un conflitto e, per Pasolini, andare incontro a una serie di contraddizioni dovute
alle dissonanze tra visione estetica, ideologia esplicita e ideologia profonda. In quel celebre
segmento di Poesia in forma di rosa Pasolini scrive: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella
Tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, da borghi /
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove son vissuti i fratelli»(4). E più tardi, in uno dei
dialoghi con i lettori su «Vie Nuove», troviamo un altro noto adagio (che riprende, non a caso, i
versi appena citati), in cui Pasolini si scaglia contro le aspirazioni di coloro i quali (e il riferimento è
sostanzialmente alla neoavanguardia) negano il passato, in contrapposizione al suo Ŗsogno di una
cosaŗ umanistico-marxista: «È un'idea sbagliata Ŕ dovuta come sempre alla mistificazione
giornalistica Ŕ quella che io sia un...Ŗmodernistaŗ. Anche i miei più fieri sperimentalismi non
prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea. Bisogna
strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione, non le pare? Solo la rivoluzione può
salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro
affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque,
nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o Ŗmonumentaleŗ, come diceva Schopenhauer, non
certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia. Mi lasci amare Masaccio e Bach, e detestare la
musica sperimentale e la pittura astratta»(5). In questo senso sembra quindi interessante verificare
come e se, in questo testo così confuso qual è L'italiano è ladro, sia vero che lo sperimentalismo
pasoliniano non prescinde dalla tradizione, e in cosa consiste dunque la tensione tra passato e
presente.
Nel diario del poema si trova condensata l'indefessa tensione di Pasolini alla ricerca di
chiarire, anzitutto a sé stesso, le proprie scelte poetiche, quindi formali, stilistiche e linguistiche, di
definire insomma i propri modelli e la direzione del progetto del suo lavoro. In uno dei passaggi più
significativi si legge: «nella sua Lettera a un giovane poeta (che mi doveva somigliare molto) la
Woolf consiglia che dopo un periodo d'avarizia, di reclusione nella propria cella interiore dove
vengono accumulati i tesori dell'esperienza mistica, irripetibile, conviene venire al balcone,
rivolgersi al mondo, e investire sui propri capitali linguistici. Nel '48-'49 io mi sono trovato
precocemente nel periodo in cui il Ŗgiovane poetaŗ apre le imposte. Mi è occorso però un pretesto;
un elemento che era x, e che si chiama comunismo. Mettete in questo comunismo Cristo, i mistici,
Croce, dell'umanitarismo, dell'esistenzialismo, la scienza (volgarizzata) e lo avrete umanizzato
abbastanza per capire come potesse essere attivo nella mia vita interiore. Così ho aperto le imposte.
Ma basta guardarlo, il mondo? Chi è il mondo? Il mio prossimo (Cristo) la mia storia (Croce), la
società (il comunismo): tutto questo insieme (il mio demone)»(6).
In quel torno di tempo (1949-1955) in cui decide di Ŗaprire le imposteŗ, Pasolini sta
lavorando anche alle poesie dell'Usignolo della Chiesa cattolica (1958), al romanzo d'ambiente
friulano Il sogno di una cosa (1948-1950), ai poemetti delle Ceneri di Gramsci (composti tra il
1951 e il 1956) e sono anche gli anni di Ragazzi di vita (1955) e di «Officina» (1955-1959), per
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quanto riguarda la produzione saggistica, dell'antologia Poesia dialettale del Novecento (1952) e del
Canzoniere popolare (1955): tutte esperienze che si collocano notoriamente sulla stessa linea
stilistica, linguistica ma anche ideologica, che affonda le proprie radici nella «regressione
dellřautore nellřambiente descritto, fino ad assumerne il più intimo spirito linguistico»(7). È ancora
nel diario che si chiarisce la portata umana e quindi politica del concetto di Ŗregressoŗ: «è stato il
mondo esterno che ho Ŗcapitoŗ di cui mi sono fatto una competenza, che, un po' alla volta, come un
organismo parassita in un altro organismo, è entrata in me, trasformandomi, facendo di me un altro:
così mi sono trovato gomito a gomito coi miei coetanei poveri, dell'altra classe, ho sentito il loro
odio di classe (che è una cosa autentica, necessaria, provvidenziale), ho sentito le loro disperazioni,
il loro complesso d'inferiorità collettiva, il loro disprezzo di sé, e poi le loro allegrie accanite e
accoranti... E tutto così stranamente privo di letteratura; esperienza così desolatamente umana che
ne ho preso coscienza solo qualche anno più tardi, quando la Ŗcompetenzaŗ mi aveva già tutto
pervaso e modificato. Possedevo dunque, il mondo di cui parla la Woolf. Ne ero regredito e
riemerso […]. Adottata la formula: prestare la mia coscienza e la mia capacità di espressione,
magari squisita, a un mio coetaneo o comunque al mio compagno, dotato solo di un primo albore di
coscienza e infelice perché inespresso, potei compiere l'operazione che per me finì con l'essere una
riscoperta del non-io. Era bastato quello spostamento minimo dell'io, da me a un mio coetaneo
assimilato, perché il mondo mi comparisse in una luce evidenziante quasi facile!»(8). Non è un caso
che anche lřuso del dialetto (in chiave mimetica e coerentemente anche diegetica) parta da una
esperienza anzitutto antropologica e quasi sacra qual è lřesperienza dellřaltro, in una dimensione
preculturale, vissuta con un sentimento quasi nostalgico per un passato che si riflette nel presente.
Già nelle poesie della raccolta Dov'è la mia patria, composte tra il 1947 e il 1949(9), il Friuli non è
più rappresentato dal mondo mitico e edenico di Narciso (quello delle Poesie a Casarsa e degli
immediati dintorni, per intenderci(10)), ma è popolato dai giovani sfruttati dal potere. Una distanza
incolmabile si frappone dunque tra il poeta e quell'umanità amata e incompresa, una distanza
generata dalle differenze di estrazione che Pasolini sente fortemente, lui, borghese, lui così Ŗaltroŗ
di fronte ai contadini friulani (e poi anche di fronte ai borgatari romani). La sua classe lo divide dal
popolo, ma è anche l'unica possibilità che ha, attraverso la sua cultura, di avvicinarsi ad esso, di
renderlo oggetto di rappresentazione. La pratica regressiva è anzitutto un'azione cosciente,
ideologicamente mediata. È esattamente quanto Pasolini afferma ancora una volta nel diario del
poema: «Dino chiede al borghese di regredire: atto altamente fantastico, l'unico che autenticamente
trasporti da una classe evoluta a una meno evoluta. I dirigenti di partito non lo capiscono: lo
confondono forse con l'umanitarismo»(11). Una dichiarazione che viene ripresa, nel 1958, a
distanza di quasi un decennio, quando l'esigenza narrativa è già approdata a un genere più
codificato (nel 1955 esce Ragazzi di vita e nel 1959 esce Una vita violenta), a un forma forse ancora
più adatta a restituire il senso politico della stessa pratica regressiva: «nello scendere al livello di un
mondo storicamente e culturalmente inferiore al mio Ŕ almeno secondo una graduazione razionale,
ché, irrazionalmente, esso gli è poi assolutamente contemporaneo, per non dire più avanzato, nel
suo vitalismo puro in cui Ŗsi faŗ la storia Ŕ nellřimmergermi nel mondo dialettale e gergale […] io
porto con me una coscienza che giustifica la mia operazione né più né meno di quanto giustifichi,
ad esempio, lřoperazione di un dirigente di partito: il quale come me, appartiene alla classe
borghese, e da questa si allontana»(12). Bisogna poi dire che il regresso è fondamentalmente una
scelta poetica che diventa quindi anche una soluzione stilistico-formale, una strategia per parlare del
mondo rappresentato, per stabilire il proprio ruolo di scrittore-poeta in rapporto a quel mondo
nellřintento più profondo di legittimarlo. A ben vedere, il «sentimento del regresso» si configura
proprio come riflesso di quella evoluzione stilistica che consente a Pasolini di lasciarsi penetrare
dalle culture «sopravviventi», depositarie (nella sua particolare mitologizzazione) di valori ben
diversi da quelli della cultura borghese, fino ad accoglierne la loro lingua (il dialetto, appunto). Al
regresso «da una lingua a unřaltra Ŕ anteriore e infinitamente più pura» corrisponde infatti un
«regresso lungo i gradi dellřessere», nella ricerca di recupero, o comunque nel tentativo di non
dimenticare la primordiale felicità edenica (prenatale-prestorica e prelinguistica). E non è dunque
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un caso che gli esiti della produzione in versi di Pasolini approdino a risultati di poesia narrativa, in
cui si definisce non tanto il sostrato ideologico che governa l'operazione regressiva, quanto le
modalità con cui il Ŗregressoŗ, sul piano stilistico e persino su quello sociolinguistico, si realizza, e
quindi le dinamiche attraverso le quali (nella poesia come poi accadrà nella narrativa) si esprime
l'intenzione pasoliniana di oggettivare la materia della rappresentazione in quanto riflesso
presuntamente autentico della Ŗrealtàŗ. Una posizione, peraltro, a cui Pasolini rimarrà fedele almeno
fino al 1957, quando, in quel noto saggio officinesco che è La libertà stilistica, una sorta di
dichiarazione a posteriori, si sofferma sulle proprie scelte formali: «La stessa passione che ci aveva
fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che imponevano libere
esperimentazioni inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era
stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è
divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e impone dunque,
esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo»(13). La pratica regressiva si manifesta
dunque attraverso una nuova dimensione microstilistica, ma finisce anche con il prediligere
strutture più apertamente poematiche e (forse) non potrebbe essere altrimenti: c'è un conflitto da
raccontare, c'è soprattutto un mondo, quello del proletario, quello dell'altro, che deve potersi
esprimere e di cui prendere coscienza. A quell'istanza per definizione monologica della poesia lirica
si sostituisce (o si aggiunge) così la polifonia, l'intreccio di voci, anche se, a ben guardare, questo
non porta necessariamente a un vero e proprio aumento del tasso di narratività. Insomma, per
mettere in forma la rappresentazione del conflitto di classe è necessario un conflitto di voci: la
poesia deve poter mettere in atto processi di discorsività e veicolare così contenuti non solo lirici,
che nell'Italiano è ladro non coincidono ancora pienamente con una effettiva romanzizzazione. Ora,
senza scendere nel dettaglio di questioni formali che andrebbero discusse, a fondo e singolarmente,
anzitutto sul piano teorico(14), quello che mi preme rilevare è che nell'Italiano è ladro ci troviamo
di fronte a elementi di narratività piuttosto generici e altamente mescidati con forme
tradizionalmente monologiche della poesia. Regredire «lungo i gradi dell'essere», significa così
anche regredire lungo i gradi della storia e delle forme, guardare a generi più popolari, codificati e
autorevoli: e mi riferisco ad esempio alla tipologia della narrazione breve o brevissima che
corrisponde al genere della ballata (popolare o romantica, in un'accezione rispettivamente folklorica
e letteraria), di cui Pasolini può aver verosimilmente tenuto conto per il suo poema, nel tentativo di
coniugare appunto popolare e letterario, passato e presente, basso e alto, proletariato e borghesia. A
questo punto, esattamente come è accaduto per The waste Land, è evidente che anche per questo
testo pasoliniano esiste un problema di forma che induce anzitutto a interrogarsi sul come e
soprattutto sul dove sistemarlo in una classificazione dei generi. Si tratta di un poemetto narrativo,
di un poema epico concentrato, di un romanzo in versi, o di un mosaico disorganizzato di frammenti
di varia provenienza? e poi ancora, si può parlare di unità poetica e soprattutto formale per
L'italiano è ladro? Tutte questioni che, com'è noto, anche il poema di Eliot aveva sollevato
nell'acceso dibattito della critica eliotiana vecchia e nuova.
Ora, che Pasolini avesse in mente proprio Eliot per il suo poema è dato certo(15). In un
passaggio del diario si legge: «dal punto di vista formale: adattamento di brevetti eliottiani-joyciani,
magari di seconda mano (via per es. C. E. Gadda); ingresso del giornalismo in poesia, non senza
sfacciataggine; pastiche prosastico (si veda il principio poetico di Poe) per turgide tangenti liriche.
Contaminazione dřispirazione Ŗdi testaŗ, sconveniente, ingenua e dřispirazione Ŗdi pettoŗ sempre
però ingenua, quasi irritante nella sua ingenuità mescolata a unřeccessiva dimostrazione dřuna vita
prossima allřintelligentia dei più aggiornati.[…] Per il mio poema mi sono riletto Eliot e varie
antologie di poeti inglesi. Ho reimparato molte cose; prima di tutto a odiare il madrigalismo Ŕ che,
nelle ben confezionate audacie sintattiche e prosodiche, sa di quella letteratura italiana Ŗche non
sbaglia maiŗ; ho reimparato a detestare il gusto del limite, il senso della sconvenienza e della
opportunità. […] Ma dřaltra parte ho paura dellřapprossimativo, che è un gran pericolo della tecnica
adottata per ŖLřitaliano è ladroŗ; temo il prosastico, non tanto perché non mi renda conto che in un
lavoro simile la prosa è ineliminabile, è fatale, quanto perché sospetto la prosaicità proprio del
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contenuto cioè la debolezza del pensiero, il gioco scoperto della tesi; e non tanto le cadute
sintattiche quanto i sintagmi da elzeviro, da prosa rondista […] Un articolo di Eliot su Milton mi ha
chiarito qualche idea. Il mio macheronico mi ha fatta nausea; ho tagliato interi sterpi di versi, ho
fuso insieme più strofe. […] Nell'insieme ho rinunciato a molto prosastico Ŕ e molto a malincuore,
poiché si tratta in questo senso, di un ennesimo fallimento Ŕ in favore del poetico»(16).
Il faticoso travaglio creativo, mai giunto a una forma definitiva, testimonia quella che
possiamo definire Ŗfunzione Eliotŗ nella pratica compositiva e di revisione dell'Italiano è ladro.
Eliot si era espresso su Milton, per la seconda volta nel 1947, e da quel saggio, in cui paiono
condensati i principi formali a cui Pasolini guarda per il suo poema, vale la pena di citare più
diffusamente: «nella letteratura, non più che in tutte le altre cose dell'esistenza, non si può vivere in
uno stato di rivoluzione permanente. Se ogni generazione di poeti si assumesse il compito di portare
il linguaggio poetico allo stesso grado d'attualità della lingua parlata, la poesia mancherebbe a uno
dei suoi doveri più importanti; in quanto essa deve aiutare non solo a raffinare la lingua dell'epoca,
ma a impedire che questa muti tropo rapidamente. Uno sviluppo troppo rapido della lingua
comporterebbe un progressivo deterioramento, e questo è attualmente il nostro pericolo. Se la futura
poesia di questo secolo seguirà quella linea di sviluppo che, riesaminando il cammino compiuto
nella poesia degli ultimi tre secoli, a me pare giusta, essa scoprirà nuove e più complesse
espressioni nell'ambito di un linguaggio ormai stabilito. In questa ricerca molto potrebbe imparare
dalla prolungata struttura del verso di Milton, potrebbe anche evitare il pericolo d'un asservimento
alla lingua parlata e al gergo corrente. Potrebbe imparare che la musica del verso è fortissima nella
poesia che ha un preciso significato espresso con parole appropriate. I poeti potrebbero essere
indotti ad ammettere che una conoscenza della propria letteratura, e insieme della letteratura e della
struttura grammaticale di altre lingue, è una parte preziosissima del corredo d'un poeta. E ho già
suggerito che potrebbero dedicare un certo studio a Milton, come al più grande maestro inglese,
fuori del teatro, di libertà entro la forma»(17). Per il suo poema Pasolini sembra accogliere anzitutto
il suggerimento di esclusività del codice, perfettamente inscrivibile nel classicismo modernista di
Eliot, senza tuttavia tenere conto del fatto che il «pericolo di asservimento» era senz'altro pertinente
nell'ambito della letteratura inglese, molto meno nel contesto di quella italiana dove, com'è noto, la
poesia non era ancora approdata a esiti di aderenza mimetica al parlato: forse un pretesto per tentare
di riassestare le proprie scelte in direzione, appunto, della lingua letteraria e di quella che nel diario
definisce «lingua-musica»(18).
Occorre quindi osservare la struttura del poema, tenendo conto di questa spia eliotiana per
verificare cosa è accaduto alla tessitura stilistica di questi versi, così provati da continui
rimaneggiamenti e ripensamenti. Lo sperimentalismo dellřItaliano è ladro è per certi aspetti
ecclettico. Sul piano formale, colpisce anzitutto lřadozione (specie nella Redazione Falqui) di quella
rarissima terzina lirica in novenari(19), che va a unirsi alle lasse di versi canonici di diversa misura
e di versi liberi di varia estensione non rimati di cui si compone il poema. Sul piano linguistico poi,
l'ampia geografia dialettale plurilingue si configura nella strana mescolanza di elementi popolari,
marcati diastraticamente, con lessemi appartenenti alla tradizione letteraria o comunque disusati,
con fonti lessicografiche e con veri e propri intertesti letterari, di cui peraltro Pasolini, talvolta, si
preoccupa di riportare in nota anche il riferimento bibliografico: da Euripide («ite, thoai Lyssas
kunes, / itřeis oros»), alle lettere di Santa Caterina, al Libro de li exempli, sulla base del quale
modella alcuni versi in veneziano antico («e le ysle si muove dal so logo il sole / si oscura e viene
negro de caligine»), ai versi in italiano antico che ricalcano una formula di una confessione umbra
dell'XI sec. («Alla prima alba / io me accuso de lo genitore et de la / genitrice mia, křilli / me
puosero in ista istoria hora»)(20). Da notare che, mentre The waste Land è fittamente abitata da
intertesti della grande tradizione europea, quasi a disegnare l'unità linguistica del Sacro Romano
Impero, vista la scelta di codici che appartengono, appunto, alla tradizione (quali il latino, l'italiano,
il tedesco, il francese, l'inglese), nell'Italiano è ladro la scelta intertestuale, ad eccezione del greco
di Euripide, riporta prevalentemente alla tradizione popolare e quindi all'utilizzo di codici marcati
diastraticamente (i dialetti della fascia settentrionale e l'italiano popolare). Per contro, per quanto
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riguarda le scelte metriche, la discontinuità introdotta dal verso libero, intervallata dalla terzina, fa
pensare a una sorta di volontà a saldare in un certo senso i conti con la tradizione, con il passato,
integrandolo nel presente. In questo, per lo meno da un punto di vista tecnico, Pasolini sembra
condividere fattivamente gli intenti eliotiani. Una volontà che spiegherebbe peraltro i numerosi
tentativi di coniugare, proprio e soprattutto nelle terzine, un lessico basso con una struttura e un
tono lirico («azzurri orizzonti che mute Lingue / svelano come un canto dřanime!», «E presso i neri
e gli azzurri / dei tunnel, dei bivii, le Lingue / segnavano Salvenach, Fiume, / su pontebbane dai
cigli azzurri») e di tematizzare la differenza tra lingua e dialetto («Lingua non dialetto è il cuore /
dei signori del lungomare, / alla messa di mezzogiorno», in questo senso esemplare è il verso in cui
il personaggio del ragazzo ricco è associato allřitaliano, lingua della burocrazia, ingranaggio che
stritola il povero, «Qui Brigadiere Scogna Salvatore / discorre in italiano e io non ci capisco
nulla»(21)). Questa contaminazione viene confermata inoltre dall'inserimento dell'elemento corale,
che si impone sulla scena alla maniera aristotelica, «come uno degli attori, [che] deve essere parte
del tutto e partecipare allřazione»(22) e va quindi a realizzare una sorta di pastiche di strutture della
modernità e di quelle della tradizione, in un andamento quasi musicale (per lo meno negli intenti
dell'autore). Scrive Pasolini nel Diario del poema: «particolarmente musicale la terza parte, in cui la
Madre si alterna alle Madri […] (con motivi musicali presi dal Settecento, dal Cinquecento, dal
Duecento e dalla musica religiosa gregoriana; e infine il disgregarsi della lingua-musica in
dissociazioni e balbettii carichi del dolore dell'impotenza e del primordiale»(23).
Chi parla, dunque, in questo testo dal piano compositivo apertamente diegetico? Per definire
il quadro enunciativo è essenziale precisare che L'italiano è ladro racconta la storia di due ragazzi
inizialmente cresciuti insieme, il figlio del contadino e il figlio del padrone. Il primo finisce per
emigrare e vive le lotte della propria classe, mentre il secondo si piega al proprio destino borghese.
La condizione di figliolanza dei due giovani è resa esplicita dalla presenza di una terza voce, quella
della madre del giovane contadino, cui si aggiunge il coro delle madri, indicativo di una condizione
che non è solo individuale ma collettiva e pertanto storicamente situata. Sono voci che, nelle varie
stesure del testo, appaiono e scompaiono di volta in volta a seconda dei tagli e delle aggiunte che
Pasolini compie. Il discorso poetico ruota principalmente attorno al personaggio di Dino, il giovane
contadino che è allo stesso tempo protagonista e dedicatario dellřopera, e soprattutto figura di tutti Ři
parlantiř che compaiono nelle poesie di Dov‟è la mia patria e quindi di tutta quella classe «di
ragazzi poveri e sfortunati» che con lui viene portata a un massimo di rappresentanza allegorica.
Osservando le marche pronominali, nellřopposizione incalzante tra lřio e il tu («io e il
bordelletto del signore», «Io e il figlio del padrone», «io e te si partiva», «tu reggevi la legnola, io la
vermena», «mio padre / crepava con tutta lřArgentina, il tuo / avanzava di grado»(24), ecc..) viene
esemplificata lřappartenenza dei personaggi (allocutore e allocutario) a due mondi contrapposti
ideologicamente («il tuo mondo non macellò mica il mio mondo», «il tuo mondo non scavò mica la
fossa al mio», «e non marcirono, no, i nostri due mondi», «i due mondi si sono scontrati», «i nostri
due mondi»(25)). Nell'istanza enunciativa è rilevante la presenza di una progressiva assunzione del
punto di vista del personaggio da parte dellřautore: Pasolini infatti, a un certo punto, si identifica
con il ragazzo povero, inserendo sé stesso nel contesto dellřazione descritta. Si ha uno spostamento
graduale da una terza persona («i signori e i poveri non si son mica; i signori non hanno») alla
seconda («voi non ci avete mica; tu e quelli come te; voi che nascete»). Dai generici due mondi («i
due mondi non si») si passa allřincalzante successione degli aggettivi possessivi tuo e mio («il tuo
mondo»; «il mio mondo»; «i nostri due mondi»). La continuità spazio-temporale di questa
opposizione è resa poi con il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale e dalla
seconda persona singolare alla seconda plurale, dallřio al noi e dal tu al voi, che traduce una
progressiva coscienza del sé e della propria identità, segno di conquista di un sentimento comune, di
appartenenza sociale e di apertura alla storia collettiva («Oggi ci odiamo, domani ci
ammazzeremo», «Io condirò il mio pezzo di pane solo / col tuo sangue borghese, perché / i due
mondi non si inzuccavano mica sul Foro, non si sputarono mica addosso», «noi poveretti», «la