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53 Nymphae GIORGIO AGAMBEN Egli è vero che tutte son femine, ma non pisciano. Boccaccio 1. Nei primi mesi del 2003 si poteva vedere al Getty Museum di Los Angeles una mostra di video di Bill Viola intitolata Passions. Durante un soggiorno di studio al Getty Research Institute, Viola aveva lavorato sul tema dell’espressione delle passioni, che era stato codificato nel XVII secolo da Charles Le Brun e ripreso poi nel XIX secolo, su base scientifico-sperimentale, da Duchenne de Boulogne e da Darwin. Risultato di questo periodo di studio erano i video esposti nella mostra. A prima vista, le immagini sullo schermo sembravano immobili, ma, dopo qual- che secondo, esse cominciavano quasi impercettibilmente ad animarsi. Lo spet- tatore si rendeva allora conto che, in realtà, esse erano sempre state in movimen- to e che soltanto l’estremo rallentamento della proiezione, dilatando il momento temporale, le faceva sembrare immobili. Questo spiega l’impressione insieme di familiarità e di estraneazione che le immagini suscitavano: era come se, entrando nelle sale di un museo dove erano esposte le tele di antichi maestri, queste comi- ciassero per miracolo a muoversi. A questo punto, se aveva qualche familiarità con la storia dell’arte, lo spetta- tore riconosceva nelle tre figure estenuate di Emergence la Pietà di Masolino, nel quintetto attonito degli Astonished il Cristo deriso di Bosch, nella coppia piangente della Dolorosa il dittico attribuito a Dieric Bouts nella National Gallery di Londra. Decisiva ogni volta non è, però, tanto la trasposizione in abi- ti moderni, quanto la messa in movimento del tema iconografico. Sotto gli oc- chi increduli dello spettatore, il musée imaginaire diventa musée cinémato- graphique. In quanto l’evento che essi presentano può durare fino a una ventina di mi- nuti, questi video esigono un’attenzione a cui non siamo più abituati. Se, come Benjamin ha mostrato, la riproduzione dell’opera d’arte si accontenta di uno spettatore distratto, i video di Viola costringono invece lo spettatore a un’attesa – e a un’attenzione – insolitamente lunghe. Se è entrato alla fine, egli – come si fa- ceva al cinema da bambini – si sentirà obbligato a rivedere il video dall’inizio. In questo modo l’immobile tema iconografico si trasforma in storia. Ciò appare in modo esemplare in Greetings, un video esposto alla Biennale di Venezia nel 1995. Qui lo spettatore poteva vedere le figure femminili, che la Visitazione di Pontormo ci presenta intrecciate, mentre si avvicinano lentamente l’una all’al- tra, fino a comporre alla fine il tema iconografico della tavola di Carmignano. Lo spettatore a questo punto si rende conto con sorpresa che a catturare la sua attenzione non è soltanto l’animazione di immagini che era abituato a con- aut aut, 321-322, 2004, 53-67 Aut Aut Aby Warburg 29-07-2004 14:15 Pagina 53
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Jul 04, 2015

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Nymphae

GIORGIO AGAMBEN

Egli è vero che tutte son femine, ma non pisciano.Boccaccio

1. Nei primi mesi del 2003 si poteva vedere al Getty Museum di Los Angeles unamostra di video di Bill Viola intitolata Passions. Durante un soggiorno di studioal Getty Research Institute, Viola aveva lavorato sul tema dell’espressione dellepassioni, che era stato codificato nel XVII secolo da Charles Le Brun e ripreso poinel XIX secolo, su base scientifico-sperimentale, da Duchenne de Boulogne e daDarwin. Risultato di questo periodo di studio erano i video esposti nella mostra.A prima vista, le immagini sullo schermo sembravano immobili, ma, dopo qual-che secondo, esse cominciavano quasi impercettibilmente ad animarsi. Lo spet-tatore si rendeva allora conto che, in realtà, esse erano sempre state in movimen-to e che soltanto l’estremo rallentamento della proiezione, dilatando il momentotemporale, le faceva sembrare immobili. Questo spiega l’impressione insieme difamiliarità e di estraneazione che le immagini suscitavano: era come se, entrandonelle sale di un museo dove erano esposte le tele di antichi maestri, queste comi-ciassero per miracolo a muoversi.

A questo punto, se aveva qualche familiarità con la storia dell’arte, lo spetta-tore riconosceva nelle tre figure estenuate di Emergence la Pietà di Masolino,nel quintetto attonito degli Astonished il Cristo deriso di Bosch, nella coppiapiangente della Dolorosa il dittico attribuito a Dieric Bouts nella NationalGallery di Londra. Decisiva ogni volta non è, però, tanto la trasposizione in abi-ti moderni, quanto la messa in movimento del tema iconografico. Sotto gli oc-chi increduli dello spettatore, il musée imaginaire diventa musée cinémato-graphique.

In quanto l’evento che essi presentano può durare fino a una ventina di mi-nuti, questi video esigono un’attenzione a cui non siamo più abituati. Se, comeBenjamin ha mostrato, la riproduzione dell’opera d’arte si accontenta di unospettatore distratto, i video di Viola costringono invece lo spettatore a un’attesa– e a un’attenzione – insolitamente lunghe. Se è entrato alla fine, egli – come si fa-ceva al cinema da bambini – si sentirà obbligato a rivedere il video dall’inizio. Inquesto modo l’immobile tema iconografico si trasforma in storia. Ciò appare inmodo esemplare in Greetings, un video esposto alla Biennale di Venezia nel1995. Qui lo spettatore poteva vedere le figure femminili, che la Visitazione diPontormo ci presenta intrecciate, mentre si avvicinano lentamente l’una all’al-tra, fino a comporre alla fine il tema iconografico della tavola di Carmignano.

Lo spettatore a questo punto si rende conto con sorpresa che a catturare lasua attenzione non è soltanto l’animazione di immagini che era abituato a con-

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siderare immobili. Si tratta, piuttosto, di una trasformazione che concerne laloro stessa natura. Quando, alla fine, il tema iconografico è stato ricomposto ele immagini sembrano arrestarsi, esse si sono in realtà caricate di tempo fin qua-si a scoppiare e proprio questa saturazione cairologica imprime loro una sortadi tremito, che costituisce la loro aura particolare. Ogni istante, ogni immagineanticipa virtualmente il suo svolgimento futuro e ricorda i suoi gesti preceden-ti. Se si dovesse definire in una formula la prestazione specifica dei video diViola, si potrebbe dire che essi non inseriscono le immagini nel tempo, ma iltempo nelle immagini. E poiché, nel moderno, non il movimento, ma il tempo èil vero paradigma della vita, ciò significa che vi è una vita delle immagini, che sutratta di comprendere. Come l’autore stesso afferma in un’intervista pubblica-ta nel catalogo: “l’essenza del medio visivo è il tempo... le immagini vivono den-tro di noi... noi siamo database viventi di immagini – collezionisti di immagini –e una volta che le immagini sono entrate in noi, esse non cessano di trasformar-si e di crescere”.

2. Come può un’immagine caricarsi di tempo? Che relazione vi è tra il tempo ele immagini? Intorno alla metà del Quattrocento, Domenico da Piacenza com-pone il suo trattato Dela arte di ballare et danzare. Domenico – o, piuttosto,Domenichino, come lo chiamavano amici e discepoli – era il più celebre coreo-grafo del suo tempo, maestro di danza alla corte degli Sforza a Milano e a quelladei Gonzaga a Ferrara. Benché, all’inizio del suo libro, egli citi Aristotele e insi-sta sulla dignità dell’arte della danza, che è “de tanto intelecto e fatica quanto ri-trovare se possa”, la trattazione si situa a metà fra il manuale didattico e il com-pendio esoterico legato alla tradizione orale da maestro a allievo. Domenicoenumera sei elementi fondamentali dell’arte: misura, memoria, agilità, manie-ra, misura del terreno e “fantasmata”. Quest’ultimo elemento – in verità assolu-tamente centrale – è definito in questo modo: “Dico a ti che chi del mestiero vo-le imparare, bisogna danzare per fantasmata e nota che fantasmata è una pre-stezza corporale, la quale è mossa cum lo intelecto della mesura... facendo re-quie a cadauno tempo che pari aver veduto lo capo di medusa, como dice elpoeta, cioè che facto el moto, sii tutto di pietra in quello istante e in istante met-ti ale come falcone che per paica mosso sia, secondo la regola disopra, cioè ope-rando mesura, memoria, maniera cum mesura de terreno e aire”. Domenicochiama fantasma un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarrevirtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’interaserie coreografica.

Gli storici della danza si sono interrogati sull’origine di questo “danzare perfantasmata”, nella “quale similitudine”, secondo la testimonianza degli allievi, ilmaestro intendeva esprimere “molte cose che non si possono dire”. È certo cheessa deriva dalla teoria aristotelica della memoria, compendiata nel breve tratta-to Sulla memoria e la reminiscenza, che aveva esercitato un’influenza determi-nante sulla psicologia medievale e rinascimentale. Qui il filosofo, legando stret-tamente insieme tempo, memoria e immaginazione, affermava che “solo gli es-seri che percepiscono il tempo ricordano, e con la stessa facoltà con cui avverto-no il tempo”, cioè con l’immaginazione. La memoria non è, infatti, possibile sen-

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za un’immagine (phantasma), la quale è un’affezione, un pathos della sensazioneo del pensiero. In questo senso, l’immagine mnemica è sempre carica di un’ener-gia capace di muovere e turbare il corpo: “Che l’affezione [pathos] sia corporeae che la reminiscenza sia una ricerca in questo fantasma, appare da ciò, che talu-ni sono sconvolti quando non riescono a ricordare nonostante la forte applica-zione della mente, e che l’agitazione perdura anche quando non cercano più diricordare – soprattutto i melancolici, perché sono molto sconvolti dalle immagi-ni. Il motivo per cui rammemorare non è in loro potere è che, come quelli chescagliano un dardo non hanno più la possibilità di trattenerlo, così anche coluiche cerca nella memoria imprime un certo movimento alla parte corporea in cuitale passione risiede”.

La danza è, dunque, per Domenichino, essenzialmente un’operazione con-dotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmentee spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suomovimento, bensì nell’immagine come “capo di medusa”, come pausa non im-mobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Ma ciò significache l’essenza della danza non è più il movimento – è il tempo.

3. Non è improbabile che Aby Warburg avesse avuto conoscenza del trattato diDomenico (e di quello del suo allievo Antonio da Cornazano) quando preparavaa Firenze il suo studio sui Costumi teatrali per gli intermezzi del 1589. Certo è chenulla assomiglia di più alla sua visione dell’immagine come Pathosformel del“fantasmata” che contrae in sé in un brusco arresto l’energia del movimento edella memoria. La somiglianza concerne anche la spettrale, stereotipa fissità chesembra convenire tanto all’“ombra fantasmatica” di Domenico (così, Antonioda Cornazano, fraintendendo l’espressione del maestro) che alla Pathosformelwarburghiana. Il concetto di Pathosformel compare per la prima volta nel saggiodel 1905 su Dürer e l’antichità italiana, che riconduce il tema iconografico diun’incisione dureriana al “linguaggio gestuale patetico” dell’arte antica, attra-verso una Pathosformel testimoniata in una pittura vascolare greca, in un’inci-sione di Mantegna e nelle xilografie di un incunabolo veneziano. Sarà bene pre-stare innanzitutto attenzione al termine stesso. Warburg non scrive, come puresarebbe stato possibile, Pathosform, ma Pathosformel, formula di pathos, sotto-lineando l’aspetto stereotipo e ripetitivo del tema immaginale con cui l’artistaogni volta si misurava per dare espressione alla “vita in movimento” (bewegtesLeben). Forse il miglior modo di comprenderne il senso è di accostarlo all’usodel termine “formula” negli studi di Milman Parry sullo stile formulare inOmero, pubblicati a Parigi negli stessi anni in cui Warburg lavorava al suo atlan-te Mnemosyne. Il giovane filologo americano aveva rinnovato la filologia omeri-ca mostrando come la tecnica di composizione orale dell’Iliade e dell’Odissea sifondava su un vasto, ma finito repertorio di combinazioni verbali (i celebri epi-teti omerici: podas okys, “pié veloce”, korythaiolos, “elmo abbagliante”, polytro-pos, “di molti inganni”, ecc.), ritmicamente configurate in modo da potersi adat-tare a sezioni del verso e composte a loro volta da elementi metrici intercambia-bili, modificando i quali il poeta poteva variare la propria sintassi senza alterarela struttura metrica. Albert Lord e Gregory Nagy hanno mostrato che le formu-

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le non sono soltanto zeppe di materiale semantico destinate a riempire un seg-mento metrico, ma che, al contrario, è il metro a derivare probabilmente dallaformula tradizionalmente trasmessa. Allo stesso modo, la composizione formu-lare implica che non sia possibile distinguere fra creazione e performance, fra ori-ginale e ripetizione. Nelle parole di Lord, “il poema non è composto per l’esecu-zione, ma nell’esecuzione”. Ma ciò significa che le formule, esattamente come lePathosformel di Warburg, sono degli ibridi di materia e di forma, di creazione eperformance, di primavoltità e ripetizione.

Si prenda la Pathosformel ninfa (fig. 1), cui è dedicata la tavola 46 dell’atlanteMnemosyne. La tavola contiene ventisei fotografie, da un rilievo longobardo delVII secolo all’affresco del Ghirlandaio a Santa Maria Novella (dove compare lafigura femminile che Warburg chiamava scherzosamente “signorina portain-fretta” e che, nel carteggio sulla ninfa, Jolles definisce “l’oggetto dei miei sogni,che si trasforma ogni volta in un incantevole incubo”), dalla portatrice d’acquadi Raffaello fino alla contadina toscana fotografata da Warburg a Settignano.Dov’è la ninfa? In quali delle sue ventisei epifanie essa consiste? Si fraintende lalettura dell’atlante se si cerca tra di esse qualcosa come un archetipo o un’origi-nale da cui le altre deriverebbero. Nessuna delle immagini è l’originale, nessunaè seplicemente una copia. Nello stesso senso, la ninfa non è né una materia pas-sionale cui l’artista deve dare nuova forma, né uno stampo cui piegare i proprimateriali emotivi. La ninfa è un indiscernibile di originarietà e ripetizione, diforma e materia. Ma un essere la cui forma coincide puntualmente con la mate-ria e la cui origine è indiscernibile dal suo divenire è ciò che chiamiamo tempo,che Kant definiva per questo nei termini di un’autoaffezione. Le Pathosformelnsono fatte di tempo, sono cristalli di memoria storica, “fantasmati” nel senso diDomenico da Piacenza, intorno ai quali il tempo scrive la sua coreografia.

4. Nel novembre del 1972, Nathan Lerner, un fotografo e designer che viveva aChicago, aprì la porta della camera in 851 Webster Avenue in cui era vissuto perquarant’anni il suo inquilino Henry Darger. Darger, che aveva lasciato la cameraqualche giorno prima per trasferirsi in un ospizio per persone anziane, era unuomo tranquillo, ma certamente strambo. Era sopravvissuto fin allora al limitedella miseria lavando i piatti in un ospedale e i vicini lo udivano a volte parlare dasolo, imitando una voce femminile (una bambina?). Usciva di rado, ma, nel cor-so delle sue passeggiate, era stato visto frugare nella spazzatura come un barbo-ne. D’estate, quando a Chicago la temperatura si fa improvvisamente torrida, se-deva sulla scala esterna della casa, con lo sguardo fisso nel vuoto (così lo ritrael’unica fotografia recente). Ma quando Lerner, in compagnia di un giovane stu-dente, penetrò nella stanza, si trovò davanti a una scoperta inattesa. Non era sta-to facile farsi strada fra i mucchi di oggetti di ogni genere (gomitoli di spago, bot-tigliette vuote di bismuto, ritagli di giornali); ma, accatastati in un angolo su unvecchio baule, vi erano una quindicina di volumi dattiloscritti rilegati a manoche contenevano una sorta di romance di quasi trentamila pagine, dal titolo elo-quente In the Realms of the Unreal. Come spiega il frontespizio, si tratta dellastoria di sette bambine (le Vivian girls), che guidano la rivolta contro i crudeliadulti Glandolinians, che schiavizzano, torturano, strangolano e sventrano le

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fanciulle. Più sorprendente ancora, fu rendersi conto che il solitario inquilinoera anche un pittore, che per quarant’anni aveva pazientemente illustrato in de-cine e decine di acquarelli e pannelli cartacei lunghi a volte fino a tre metri il suoromanzo. Qui paesaggi idilliaci, in cui le bambine ignude, in genere munite di unpiccolo sesso maschile, vagano assorte o giocano tra fiori e meravigliose creaturealate (i serpenti Blengiglomean), si alternano (a volte sullo stesso foglio) a scenesadiche di inaudita violenza, in cui i corpi delle fanciulle sono legati, battuti,strozzati e, infine, aperti per estrarne le viscere insanguinate.

Quel che qui ci interessa in modo particolare è il geniale procedimento com-positivo di Darger. Poiché non sapeva dipingere né tanto meno disegnare, egliritaglia immagini di bambine da album di fumetti o da giornali e le ricalca conuna velina. Se l’immagine è troppo piccola, la fotografa e la fa ingrandire secon-do i suoi bisogni. L’artista viene così a disporre alla fine di un repertorio formula-re e gestuale (variazioni seriali di una Pathosformel che possiamo chiamarenympha dargeriana [fig. 3]) che può combinare come vuole (attraverso collage oricalco) nei suoi grandi pannelli. Darger rappresenta, cioè, il caso estremo di unacomposizione artistica unicamente per Pathosformeln, che produce un effettodi straordinaria modernità.

Ma l’analogia con Warburg è ancora più essenziale. I critici che si sono occu-pati di Darger hanno sottolineato gli aspetti patologici della sua personalità, chenon avrebbe mai superato i traumi infantili e presenterebbe tratti indubbiamen-te autistici. Assai più interessante è indagare il rapporto di Darger con le suePathosformeln. Certamente egli è vissuto per quarant’anni totalmente immersonel suo mondo immaginario. Come ogni vero artista, egli non voleva però sem-plicemente costruire l’immagine di un corpo, ma un corpo per l’immagine. Lasua opera, come la sua vita, è un campo di battaglia il cui oggetto è la Pathos-formel “ninfa dargeriana”. Essa è stata ridotta in schiavitù dai malvagi adulti(spesso rappresentati in veste di professori, con toga e berretto). Le immagini dicui è fatta la nostra memoria tendono, cioè, nel corso della loro trasmissione sto-rica (collettiva e individuale), incessantemente a irrigidirsi in spettri e si trattaappunto di restituirle alla vita. Le immagini sono vive, ma, essendo fatte di tem-po e di memoria, la loro vita è sempre già Nachleben, sopravvivenza, è sempre giàminacciata e in atto di assumere una forma spettrale. Liberare le immagini dalloro destino spettrale è il compito che tanto Darger che Warburg – al limite di unessenziale rischio psichico – affidano l’uno al suo interminabile romanzo, l’altroalla sua scienza senza nome.

5. Le ricerche di Warburg sono contemporanee della nascita del cinema. Ciò chei due fenomeni sembrano, a prima vista, avere in comune è il problema della rap-presentazione del movimento. Ma l’interesse di Warburg per la rappresentazio-ne del corpo in movimento – che egli chiama bewegtes Leben e di cui la ninfa co-stituisce l’esemplare canonico – non rispondeva tanto a ragioni di ordine tecni-co-scientifico o estetico, quanto alla sua ossessione per quella che si potrebbechiamare la “vita delle immagini”. Questo tema definisce – da Klages aBenjamin, dal futurismo a Focillon – una corrente non secondaria nel pensiero enella poetica (e, forse, nella politica) del primo Novecento, il cui rapporto col ci-

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nema resta ancora da indagare. La prossimità fra le ricerche warburghiane e lanascita del cinema acquista, in questa prospettiva, un nuovo senso. Si tratta, inentrambi i casi, di cogliere un potenziale cinetico che è già presente nell’immagi-ne – fotogramma isolato o Pathosformel mnestica – e che ha a che fare con quelloche Warburg definiva col termine Nachleben, vita postuma (o sopravvivenza).

È noto che all’origine degli apparecchi precursori del cinema (il fenakitosco-pio di Plateau, lo zootropo di Stampfer o il thaumatoscopio di Paris) sta la sco-perta della persistenza dell’immagine retinica. Come si legge nella brochure illu-strativa del thaumatoscopio, “è stato ormai sperimentalmente accertato chel’impressione che la mente riceve in questo modo dura circa un ottavo di secon-do dopo che l’immagine è stata rimossa... il thaumatoscopio dipende da questostesso principio ottico: l’impressione lasciata sulla retina dall’immagine dise-gnata sulla carta non si cancella prima che l’immagine dipinta sull’altro lato rag-giunga l’occhio. La conseguenza è che voi vedete le due immagini nello stessotempo”. Lo spettatore, il cui sguardo si posava su un disco di carta in movimen-to, in cui erano disegnati da una parte un uccello e, dall’altra, una gabbia, per ef-fetto del fondersi di due immagini retiniche separate nel tempo, vedeva l’uccelloentrare nella gabbia.

Si può dire che la scoperta di Warburg è che, accanto al Nachleben fisiologi-co (la persistenza delle immagini retiniche), vi è un Nachleben storico delle im-magini, legato al persistere della loro carica mnestica, che le costituisce come“dinamogrammi”. Egli è, cioè, il primo ad accorgersi che le immagini trasmessedalla memoria storica (Klages e Jung si occupano piuttosto di archetipi metasto-rici) non sono inerti e inanimate, ma posseggono una vita speciale e diminuita,che egli chiama, appunto, vita postuma, sopravvivenza. E come il fenakitosco-pio – e, più tardi, in modo diverso, il cinema – devono riuscire ad afferrare la so-pravvivenza retinica per mettere in movimento le immagini, così lo storico devesaper cogliere la vita postuma delle Pathosformeln per restituire loro l’energia ela temporalità che esse contenevano. La sopravvivenza delle immagini non è, in-fatti, un dato, ma richiede un’operazione, la cui effettuazione è compito del sog-getto storico (così come si può dire che la scoperta della persistenza delle imma-gini retiniche esige il cinema che saprà trasformarla in movimento). Attraversoquesta operazione, il passato – le immagini trasmesse dalle generazioni che cihanno preceduto – che sembrava in sé conchiuso e inaccessibile, si rimette, pernoi, in movimento, ridiventa possibile.

6. A partire dalla metà degli anni trenta, mentre lavora al libro su Parigi e, poi, aquello su Baudelaire, Benjamin elabora il concetto di “immagine dialettica”(dialektisches Bild), che doveva costituire il fulcro della sua teoria della cono-scenza storica. Forse in nessun altro testo egli si avvicina a darne una definizione,come in un frammento (N, 3, 1) del libro sui Passaggi parigini. Qui egli distinguele immagini dialettiche dalle essenze della fenomenologia husserliana. Mentrequeste sono conosciute indipendemente da ogni dato fattuale, le immagini dia-lettiche sono definite dal loro indice storico, che le rimanda all’attualità. E men-tre per Husserl, l’intenzionalità resta il presupposto della fenomenologia, nel-l’immagine dialettica la verità si presenta storicamente come “morte dell’inten-

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tio”. Ciò significa che alle immagini dialettiche compete, nel pensiero diBenjamin, una dignità paragonabile agli eide della fenomenologia e alle idee inPlatone: la filosofia ha a che fare col riconoscimento e la costruzione di tali im-magini. La teoria benjaminiana non contempla né essenze né oggetti, ma imma-gini. Decisivo è, però, per Benjamin, che queste si definiscano attraverso un mo-vimento dialettico che viene colto nell’atto del suo arresto (Stillstand): “Non èche il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, mal’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora [Jetzt]in una costellazione. In altre parole: l’immagine è dialettica in posizione di arre-sto”. In un altro frammento, Benjamin cita un passo di Focillon in cui lo stileclassico è definito un “breve istante di pieno possesso delle forme... come una fe-licità rapida, come l’akmé dei Greci l’asta della bilancia non oscilla più se nondebolmente. Ciò che mi aspetto, non è di vederla subito pendere nuovamente, eancor meno il momento di fissità assoluta, ma, nel miracolo di questa immobilitàesitante, il tremito leggero, impercettibile, che mi indica che è viva”. Come nel“danzare per fantasmata” di Domenico da Piacenza, la vita delle immagini nonconsiste nella semplice immobilità né nella successiva ripresa del movimento,ma in una pausa carica di tensione fra di essi. “Dove il pensiero si arresta improv-visamente in una costellazione satura di tensioni” si legge nella XVII tesi sulla filo-sofia della storia “le imprime un urto attraverso il quale essa si cristallizza comemonade”.

Lo scambio di lettere con Adorno nell’estate del 1935 chiarisce in che mododebbano intendersi gli estremi di questa tensione polare. Adorno definisce ilconcetto di immagine dialettica a partire dalla concezione benjaminiana dell’al-legoria nel Trauerspielbuch, dove si parlava di uno “svuotamento di significato”operato negli oggetti dall’intenzione allegorica. “Estinguendosi nelle cose il va-lore d’uso, le cose, estraniate, sono svuotate e in quanto cifre simboliche attiranosignificati. La soggettività se ne impadronisce ponendo in esse intenzioni di de-siderio e di angoscia. Poiché le cose isolate attestano come immagini le intenzio-ni soggettive, queste si presentano come ataviche ed eterne. Le immagini dialet-tiche sono costellazioni tra le cose estraniate e l’avvento del significato, trattenu-te nell’istante dell’indifferenza fra morte e significato.” Ricopiando nel suo sche-dario questo passo, Benjamin commenta: “a proposito di queste riflessioni va te-nuto presente che nel XIX secolo il numero delle cose ‘svuotate’ aumenta in unamisura e un ritmo prima sconosciuti, poiché il progresso tecnico pone continua-mente fuori corso dei nuovi oggetti d’uso”. Dove il senso si sospende, là appareun’immagine dialettica. L’immagine dialettica è, cioè, un’oscillazione irrisoltafra un’estraneazione e un nuovo evento di senso. Simile all’intenzione emblema-tica, essa tiene in sospeso il suo oggetto in un vuoto semantico. Di qui la sua am-biguità, che Adorno critica (“essa – l’ambiguità – non deve assolutamente resta-re così com’è”). Ciò che Adorno, che tenta di riportare in ultima analisi la dialet-tica alla sua matrice hegeliana, sembra non capire è che, per Benjamin, l’essen-ziale non è il movimento che, attraverso la mediazione, conduce alla Aufhebungdella contraddizione, ma il momento dell’arresto, in cui il medio è esposto comeuna zona di indifferenza – come tale, necessariamente ambigua – fra i due termi-ni opposti. La Dialektik im Stillstand, di cui Benjamin parla, implica una conce-

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zione della dialettica il cui meccanismo non è logico (come in Hegel), ma analo-gico e paradigmatico (come in Platone). Secondo l’acuta intuizione di Melandri,la sua formula è “né A, né B” e l’opposizione che essa implica non è dicotomica esostanziale, ma bipolare e tensiva: i due termini non sono né rimossi né compostiin unità, bensì mantenuti in una coesistenza immobile e carica di tensioni. Maciò significa, in verità, che non soltanto la dialettica non è separabile dagli ogget-ti che nega, ma che questi perdono la loro identità e si trasformano nei due polidi una stessa tensione dialettica, che raggiunge la sua massima evidenza nell’im-mobilità, come un danzare “per fantasmata”.

Nella storia della filosofia, questa “dialettica in stato di arresto” ha un arche-tipo illustre. Esso è nel passo dei Secondi analitici, in cui Aristotele paragona l’ar-resto improvviso del pensiero, in cui si produce l’universale, a un esercito in fugain cui di colpo un soldato si ferma e un altro dopo di lui e così via, finché si rico-stituisce l’iniziale unità. Qui l’universale non è raggiunto attraverso un procedi-mento induttivo, ma si produce analogicamente nel particolare attraverso il suoarresto. La molteplicità dei soldati (cioè dei pensieri e delle percezioni) in fugadisordinata è improvvisamente percepita come unità, proprio come Benjamin –riprendendo un’immagine di Mallarmé, che, nel Coup de dés, aveva elevato lapagina scritta alla potenza del cielo stellato e, insieme, alla tensione grafica dellaréclame – parlava del brusco arresto del pensiero in una costellazione. Questacostellazione è, secondo Benjamin, dialettica e intensiva, cioè capace di metterein rapporto un istante del passato con il presente.

Vi è un’incisione di Focillon del 1937, in cui il grande storico dell’arte (cheaveva ereditato dal padre la passione per le stampe) sembra aver voluto fissare inun’immagine questa sospesa irrequietezza del pensiero. Essa rappresenta unacrobata che oscilla appeso al suo trapezio sulla pista illuminata di un circo. Inbasso a destra, la mano dell’autore ha scritto il titolo: La dialectique (fig. 4).

7. È nota l’influenza che sul giovane Warburg aveva esercitato la lettura del sag-gio di Friedrich Theodor Vischer sul simbolo. Secondo Vischer, lo spazio pro-prio del simbolo si situa fra l’oscurità della coscienza mitico-religiosa, che iden-tifica più o meno immediatamente immagine (Bild) e significato (Bedeutung,Inhalt) e la chiarezza della ragione, che li mantiene in ogni punto distinti. “Si de-ve chiamare simbolico” scrive Vischer “un elemento mitico in cui un tempo sicredeva, senza più fede reale e, tuttavia, assunto e ricevuto con vivente trasposi-zione come una parvenza dotata di senso [sinnvolles Scheinbild], esteticamentelibera e tuttavia non vuota”. Fra la coscienza mitico-religiosa e quella razionale,si deve, cioè, introdurre “come seconda forma fondamentale quella che sta nelmezzo fra libero e non libero, chiaro e oscuro, e soltanto in seguito potrà appari-re come terzo momento la forma interamente libera e chiara [...]. Il mezzo [dieMitte]: possiamo anche chiamare penombra [Zwielicht] ciò di cui qui si tratta. Èl’animazione naturale [Naturbeseelung], involontaria e tuttavia libera, inconsciae tuttavia in un certo senso consapevole, l’atto donatore [der leihende Akt], at-traverso il quale noi sottomettiamo la nostra anima e le nostre emozioni all’inani-mato”. Vischer chiama vorbehaltende, sospendente, questo stato intermedio, incui l’osservatore non crede più alla forza magico-religiosa delle immagini e, tut-

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tavia, rimane in qualche modo legato a esse, tenendole in sospeso fra l’icona effi-cace e il segno puramente concettuale.

L’eco che queste idee dovevano trovare in Warburg è evidente. L’incontrocon le immagini (le Pathosformeln) avviene per lui in questa zona né conscia néinconscia, né libera né non libera, nella quale tuttavia sono in gioco la coscienzae la libertà dell’uomo. L’umano si decide, cioè, in questa terra di nessuno fra ilmito e la ragione, nell’ambigua penombra in cui il vivente accetta di confrontar-si con le immagini inanimate che la memoria storica gli trasmette per restituireloro vita. Come le immagini dialettiche in Benjamin e il simbolo in Vischer, lePathosformeln – che Warburg paragona a dinamogrammi carichi di energia – so-no ricevute in uno stato di “ambivalenza latente non polarizzata” (unpolarisiertelatente Ambivalenz) e solo in questo modo, nell’incontro con un individuo vi-vente, possono riacquistare polarità e vita. L’atto di creazione, in cui il singolo –artista o poeta, ma anche lo studioso e, al limite, ogni essere umano – si misuracon le immagini, ha luogo in questa zona centrale (die Mitte, la chiamavaVischer, e Warburg non si stanca di ammonire che das Problem liegt in der Mitte)fra i due opposti poli dell’umano – zona di “indifferenza creatrice”, potremmodefinirla, riprendendo un’immagine di Salomon Friedlaender che Benjaminamava citare. Il centro, che è qui in questione, non è una nozione geometrica,bensì dialettica: non il punto mediano che separa due segmenti su una linea, mail passaggio attraverso di esso di un’oscillazione polare. Come il “fantasmata” diDomenico di Piacenza, esso è l’immagine immobile di un essere di passaggio.Ma ciò significa anche che l’operazione che Warburg affida al suo atlanteMnemosyne è esattamente il contrario di quanto si suole comprendere sotto larubrica “memoria storica”: secondo l’acuta formula di Carchia, essa “finisce colrivelarsi, nello spazio della memoria, come un’autentica voragine del senso, co-me il luogo del suo stesso mancamento”.

L’atlante è una sorta di stazione di depolarizzazione e ripolarizzazione(Warburg parla di “dinamogrammi sconnessi”, abgeschnürte Dynamogramme),in cui le immagini del passato, che hanno perduto il loro significato e sopravvivo-no come incubi o spettri, sono tenute in sospeso nella penombra in cui il soggettostorico, fra il sonno e la veglia, si confronta con esse per restituire loro vita – maanche, per destarsi eventualmente da esse.

Tra gli schizzi recuperati da Didi-Huberman nei suoi scavi fra i manoscrittiwarburghiani, oltre a vari schemi di oscillazione pendolare, vi è un disegno apenna che mostra un funambolo che cammina su un asse tenuto in precarioequilibrio da due altre figure. Il funambolo – designato con la lettera K – è forsela cifra dell’artista (Künstler) che si tiene in sospeso fra le immagini e il loro con-tenuto (altrove Warburg parla di un “movimento pendolare tra la posizione dicause come immagini e come segni”) – ma anche la cifra dello studioso che (co-me Warburg scrive a proposito di Burckhardt) agisce come “un necromanteche, in piena coscienza, evoca gli spettri che lo minacciano”.

8. “Chi è la ninfa, da dove viene?”, chiedeva Jolles a Warburg nel carteggioscambiato a Firenze nel 1900 a proposito della figura femminile in movimentodipinta da Ghirlandaio nella cappella Tornabuoni. La risposta di Warburg suo-

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na, almeno in apparenza, perentoria: “secondo la sua realtà corporea, essa puòessere stata una schiava tartara liberata [...], ma secondo la sua vera essenza essaè uno spirito elementare [Elementargeist], una dea pagana in esilio [...]”. La se-conda parte della definizione (una dea pagana in esilio), su cui si è soffermata so-prattutto l’attenzione degli studiosi, iscrive la ninfa nel contesto più proprio del-le ricerche warburghiane, il Nachleben degli dei pagani. L’accostamento fraElementargeister e dei in esilio è già in Heine (nell’edizione nella “Révue desdeux mondes”, lo scritto sugli Elementargeister – composto nel 1835 – apre ilsaggio Les dieux en exil). Non è stato invece notato che la dottrina degli spiritielementari attraverso Heine e l’Undine di La Motte Fouqué, rimanda al trattatodi Paracelso De nymphis, sylphis, pygmeis et salamandris et caeteris spiritibus esegnala, nella genealogia della ninfa, un ramo nascosto e, per così dire, esoterico,che non poteva non essere familiare tanto a Warburg che a Jolles. In questa deri-va, che si situa all’incrocio di tradizioni culturali diverse, la ninfa nomina l’ogget-to per eccellenza della passione amorosa (e tale essa era certamente perWarburg: “vorrei lasciarmi portar via gioiosamente con lei” egli scrive a Jolles).

Prendiamo il trattato di Paracelso, che Warburg chiama in causa direttamen-te. Qui la ninfa si inscrive nella dottrina bombastiana degli spiriti elementari (ocreature spirituali), ciascuno dei quali è legato a uno dei quattro elementi: la nin-fa (od ondina) all’acqua, i silfi all’aria, i pigmei (o gnomi) alla terra e le salaman-dre al fuoco. Ciò che definisce questi spiriti – e la ninfa in particolare – è che essi,pur essendo nell’aspetto in tutto simili all’uomo, non sono stati generati daAdamo, ma appartengono a un grado secondo della creazione, “diverso e sepa-rato tanto dagli uomini che dagli animali”. Esiste, secondo Paracelso, una “du-plice carne”: una che viene da Adamo, crassa e terrena, e una non adamitica, sot-tile e spirituale. (Questa dottrina, che implica, per certe creature, una creazionespeciale, sembra l’esatta controparte della dottrina di La Peyrère della creazionepreadamitica dei gentili). Ciò che definisce, in ogni caso, gli spiriti elementari, èche essi non hanno un’anima, e non sono quindi né uomini né animali (in quantoposseggono ragione e linguaggio), e nemmeno propriamente spiriti (in quantohanno un corpo). Più che animali e meno che umani, ibridi di corpo e di spirito,essi sono puramente e assolutamente “creature”: creati da Dio negli elementimondani e soggetti come tali alla morte, essi sono per sempre fuori dall’econo-mia della salvezza e della redenzione:

Benché siano entrambe le cose, cioè spirito e uomo, non sono tuttavia né l’u-na cosa né l’altra. Non possono essere uomini, perché si muovono come spi-riti; non possono essere spiriti, perché mangiano, bevono e hanno carne esangue [...]. Sono quindi creature particolari, diverse dalle prime due e for-mati da una sorta di mistione della loro doppia natura, come un composto didolce e di aspro o come due colori in un’unica figura. Si deve ribadire, però,che, pur essendo in un certo modo tanto spiriti che uomini, non sono né l’u-no né l’altro. L’uomo ha un’anima, lo spirito ne è privo. Queste creature sonoentrambe le cose e tuttavia non hanno anima; ma nemmeno sono, per que-sto, spiriti. Lo spirito, infatti, non muore; la creatura muore. Nemmeno è co-me l’uomo, perché non ha anima. È dunque un animale, e, tuttavia, più che

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animale. Muore come gli animali, ma il corpo animale non ha, come lui, unamente. È dunque un animale che parla e ride proprio come gli uomini [...].Cristo è nato e morto per coloro che hanno un’anima e sono stati generati daAdamo. Non per queste creature, che non provengono da Adamo: pur es-sendo in qualche modo uomini, mancano di un’anima.

Paracelso si sofferma con una sorta di amorosa compassione sul destino di que-ste creature del tutto simili all’uomo, e tuttavia condannate senza colpa a una vi-ta puramente animale:

Sono un popolo di umani, che muoiono, però, con le bestie, camminanocon gli spiriti, mangiano e bevono con gli uomini. Muoiono come animali,senza che nulla rimanga di essi. La loro riproduzione è simile a quella uma-na... e tuttavia non muoiono come gli uomini, ma come il bestiame. Comeogni carne, anche la loro carne si corrompe [...]. Nei costumi, nei gesti, nel-la lingua, nella saggezza sono perfettamente umani; come gli uomini, vir-tuosi o viziosi, migliori o peggiori [...]. Vivono con gli uomini sotto una leg-ge, mangiano l’opera delle loro mani, tessono per sé vesti che indossano co-me gli uomini, usando della ragione e governando le loro comunità congiustizia e saggezza. Benché siano animali, hanno l’umana ragione – solosono privi dell’anima. Per questo non possono servire Dio né camminarenelle vie del Signore.

Come uomini non umani, gli spiriti elementari di Paracelso costituiscono l’ar-chetipo ideale di ogni separazione dell’uomo da se stesso (l’analogia col popoloebraico è anche qui sorprendente). Ciò che definisce, tuttavia, la specificità del-le ninfe rispetto alle altre creature non adamitiche, è che esse possono ricevereun’anima se si uniscono sessualmente con un uomo e generano con lui un figlio.Qui Paracelso si collega a un’altra, più antica tradizione, che legava indissolubil-mente le ninfe al regno di Venere e alla passione amorosa (e che è all’origine tan-to del termine psichiatrico “ninfomania” che, forse, di quello anatomico che de-signa come nymphae le piccole labbra della vagina). Secondo Paracelso, infatti,molti “documenti” attestano che le ninfe “non soltanto appaiono agli uomini,ma hanno commercio sessuale [copulatae coiverint] con essi e generano dei fi-gli”. Se ciò avviene, tanto la ninfa che la sua prole ricevono un’anima e diventanocosì veramente umane. “Ciò può essere provato con molti argomenti, in quanto,pur non essendo eterne, si uniscono con gli uomini e lo diventano – cioè acqui-stano, come gli uomini, un’anima. Dio le ha infatti create così simili e conformiagli uomini, che nulla si potrebbe pensare di più somigliante. Ma vi aggiunse ilmiracolo di privarle dell’anima. Ma unendosi agli uomini in stabile unione, allo-ra questa unione conferisce loro un’anima [...]. È chiaro, dunque, che senza gliuomini sarebbero animali, come gli uomini senza il patto con Dio sarebbero nul-la [...]. Per questa ragione le ninfe ricercano gli uomini e spesso si accoppiano insegreto con essi”.

Tutta la vita delle ninfe è posta da Paracelso sotto il segno di Venere e dell’a-more. Se egli chiama “Monte di Venere” la società delle ninfe (collectio et con-

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versatio, quam Montem Veneris appellitant... – congregatio quaedam nynpharumin antro... – come non riconoscere qui un topos per eccellenza della poesia amo-rosa), è perché Venere stessa non è, in verità, che una ninfa e un’ondina, anche sela più alta in rango e un tempo, prima di morire (qui Paracelso si confronta a suomodo col problema della sopravvivenza degli dei pagani) la loro regina (iam ve-ro Venus Nympha est et undena, caeteris dignior et superior, quae longo quidemtempore regnavit sed tandem vita functa est).

Condannate in questo modo a un’incessante, amorosa ricerca dell’uomo, leninfe conducono sulla terra un’esistenza parallela. Create non a immagine diDio, ma dell’uomo, esse ne costituiscono una sorta di ombra o di imago e, cometali, perpetuamente accompagnano e desiderano – e ne sono, a loro volta, desi-derate – ciò di cui sono immagine. E solo nell’incontro con l’uomo le immaginiinanimate acquistano un’anima, diventano veramente vive: “E come abbiamodetto che l’uomo è un’immagine di Dio, plasmata secondo la sua immagine, cosìsi può dire che queste creature sono le immagini dell’uomo, formate secondo lasua immagine. E come l’uomo non è Dio, anche se fatto a sua immagine, cosìqueste creature, pur essendo create a immagine dell’uomo, rimangono quali so-no state plasmate, come l’uomo rimane tale quale Dio lo ha creato”.

La storia dell’ambigua relazione fra gli uomini e le ninfe è la storia della diffi-cile relazione fra l’uomo e le sue immagini.

9. L’invenzione della ninfa come figura per eccellenza dell’oggetto d’amore èopera di Boccaccio. Egli non inventa qui integralmente, ma, secondo un suo ge-sto consueto, insieme mimetico e apotropaico, sposta e trascrive un modulodantesco e stilnovistico in un nuovo ambito (che possiamo definire col terminemoderno “letteratura”, che non sarebbe certo possibile applicare senza virgo-lette a Dante e Cavalcanti). Secolarizzando in questo modo quelle che erano es-senzialmente categorie filosofico-teologiche, egli costituisce retroattivamentecome esoterica l’esperienza dei poeti d’amore (in sé del tutto indifferente all’op-posizione esoterico/essoterico) e, situando poi su questo enigmatico sfondo teo-logico la letteratura, ne stravolge e, insieme, conserva il lascito. In ogni caso, ècerto che la “ninfa fiorentina” è la figura centrale delle prose e poesie amorose diBoccaccio, almeno a partire dal 1341, quando compone quel singolare prosime-tro, misto di novellete e di terze rime, che intitola (non senza una chiara allusioneal poema dantesco) Comedia delle ninfe fiorentine. (Rubricando nel 1900 “ninfafiorentina” il quaderno a cui affida la sua corrispondenza con Jolles, Warburgevoca discretamente Boccaccio, un autore, com’è noto, particolarmente caro aJolles.) Ma ancora nel Ninfale fiesolano, nel Carmen bucolicum e, in un sensospeciale, nel Corbaccio, amare significa amare una ninfa.

L’oggetto dell’amore – che Dante chiama “ninfa” soltanto in pochi, ma deci-sivi luoghi (nella terza epistola, nelle ecloghe, e, soprattutto, nel Purgatorio, doveessa costituisce una sorta di soglia fra il paradiso terrestre e quello celeste) – rap-presenta, nei poeti d’amore, il punto in cui l’immagine o fantasma comunica conl’intelletto possibile. Come tale, esso è un concetto-limite non soltanto fra l’a-mante e l’amata, fra il soggetto e l’oggetto, ma anche fra il singolo vivente e l’uni-co intelletto (o pensiero, o linguaggio). Di questo concetto-limite filosofico-teo-

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logico, Boccaccio fa invece il luogo in cui porre il problema, squisitamente mo-derno, del rapporto fra vita e poesia. La ninfa è, cioè, la quasi-reificazione lette-raria dell’intentio della psicologia medievale (per questo Boccaccio, fingendo diaccreditare un pettegolezzo familare, potrà trasformare Beatrice in una fanciul-la fiorentina). I due testi decisivi e, apparentemente, antitetici sono qui l’intro-duzione alla quarta giornata del Decamerone e il Corbaccio.

Nell’introduzione, Boccaccio, nell’opposizione fra le Muse (con cui “nonpossiamo dimorare... né esse con noi”) e le donne, prende decisamente partitoper le seconde, stemperando, del resto, i termini della scissione (“le Muse sondonne, e benché le donne quelle che le muse vagliono non vagliono, pure essehanno nel primo aspetto somiglianza di quelle”). Nel Corbaccio, la scelta è rove-sciata e la critica feroce delle donne va di pari passo alla rivendicazione esclusivadel commercio con le “ninfe castalidi”. Contro le donne che affermano che “tut-te le buone cose son femine: le stelle, le pianete, le Muse [...]”, Boccaccio conbrusco realismo apre una cesura insanabile fra le Muse e le donne: “egli è veroche tutte son femine, ma non pisciano”. La consueta miopia degli specialisti hacreduto di risolvere la contraddizione fra questi due testi proiettandola sullacronologia – cioè, in ultima analisi, sulla biografia dell’autore, leggendola comeun’evoluzione senile. L’oscillazione è, invece, interna al problema e corrispondeall’essenziale ambiguità della ninfa boccaccesca. La cesura fra realtà e immagi-nazione, che la teoria dantesca e stilnovista dell’amore era volta a suturare, è quiriproposta in tutta la sua crudezza. Se “ninfale” è quella dimensione poetica incui le immagini (che “non pisciano”) dovrebbero coincidere con le donne reali,allora la ninfa fiorentina è sempre già in atto di dividersi secondo le sue due op-poste polarità, insieme troppo viva e inanimata, senza che il poeta riesca più aconferirle una vita unitaria. L’immaginazione, che, nei poeti d’amore, assicuravala possibilità della congiunzione fra il mondo sensibile e il pensiero, diventa quiil luogo di una sublime o farsesca frattura, in cui si insedia la letteratura (e, piùtardi, la teoria kantiana del sublime). La letteratura moderna nasce, in questosenso, da una scissione dell’imago medievale.

Non stupisce, allora, che, in Paracelso, essa possa presentarsi come una crea-tura in carne e ossa, creata a immagine dell’uomo, che può acquistare un’animasolo unendosi con lui. La congiunzione amorosa con l’immagine, simbolo dellaconoscenza perfetta, diventa qui l’impossibile unione sessuale con una imagotrasformata in creatura, che “beve e mangia” (come non ricordare la cruda ca-ratterizzazione boccaccesca delle ninfe-Muse?).

10. L’immaginazione è una scoperta della filosofia medievale. In questa, essaraggiunge la sua soglia critica – e, insieme, la sia formulazione più aporetica – nelpensiero di Averroè. L’aporia centrale dell’averroismo, che non cessa di suscita-re le ostinate obiezioni degli scolastici, è, infatti, nel rapporto fra l’intelletto pos-sibile, unico e separato, e i singoli individui. Secondo Averroè, questi si congiun-gono (copulantur) con l’intelletto unico attraverso i fantasmi che si trovano nelsenso interno (in particolare, nella virtù imaginativa e nella memoria).L’immaginazione riceve in questo modo un rango in ogni senso decisivo: al verti-ce dell’anima individuale, al limite fra il corporeo e l’incorporeo, l’individuale

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e il comune, la sensazione e il pensiero, essa è l’estrema scoria che la combustio-ne dell’esistenza individuale abbandona sulla soglia del separato e dell’eterno.In questo senso, l’immaginazione – e non l’intelletto – è il principio che definiscela specie umana.

Resta che questa definizione è aporetica, perché – come Tommaso insisten-temente obietta nella sua critica, affermando che, se si accetta la tesi averroista, ilsingolo uomo non può conoscere – essa situa l’immaginazione nel vuoto che sispalanca fra la sensazione e il pensiero, fra la molteplicità degli individui e l’uni-cità dell’intelletto. Di qui – come sempre ogni volta che si tratta di afferrare unasoglia o un passaggio – il vertiginoso moltiplicarsi, nella psicologia medievale,delle distinzioni: virtù sensibile, virtù imaginativa, memoriale, intelletto mate-riale, adepto ecc. L’immaginazione circoscrive, cioè, uno spazio in cui non pen-siamo ancora, in cui il pensiero diventa possibile solo attraverso una impossibi-lità di pensare. In questa impossibilità i poeti d’amore situano la loro glossa allapsicologia averroista: la copulatio dei fantasmi con l’intelletto possibile è un’e-sperienza amorosa e l’amore è, innanzitutto, amore di una imago, di un oggettoin qualche modo irreale, esposto, come tale, al rischio dell’angoscia (che gli stil-novisti chiamano “dottanza”) e del mancamento. Le immagini, che costituisco-no l’ultima consistenza dell’umano e il solo tramite della sua possibile salvezza,sono anche il luogo del suo incessante mancare a se stesso.

È su questo sfondo che si deve collocare il progetto warburghiano di racco-gliere in un atlante – il cui nome è Mnemosyne – le immagini – le Pathosformeln –dell’umanità occidentale. La ninfa warburghiana sconta questa ambigua ereditàdell’immagine, ma la sposta su un tutt’altro piano, storico e collettivo. GiàDante, nel De monarchia, aveva interpretato l’eredità averroista nel senso che, sel’uomo è definito non dal pensiero, ma da una possibilità di pensare, allora que-sta non può essere attuata da un singolo uomo, ma soltanto da una multitudonello spazio e nel tempo, cioè sul piano della collettività e della storia. Lavoraresulle immagini significa in questo senso per Warburg lavorare all’incrocio nonsoltanto fra il corporeo e l’incorporeo, ma anche, e soprattutto, fra l’individualee il collettivo. La ninfa è l’immagine dell’immagine, la cifra delle Pathosformelnche gli uomini si trasmettono di generazione in generazione e a cui legano la loropossibilità di trovarsi o di perdersi, di pensare o di non pensare. Le immagini so-no, pertanto, un elemento decisamente storico; ma, secondo il principio benja-miniano per cui si dà vita di tutto ciò di cui si dà storia (e che qui si potrebberiformulare nel senso che si dà vita di tutto ciò di cui si dà immagine), esse sono,in qualche modo, vive. Noi siamo abituati ad attribuire vita soltanto al corpobiologico. Ninfale è, invece, una vita puramente storica. Come gli spiriti elemen-tari di Paracelso, le immagini hanno bisogno, per essere veramente vive, che unsoggetto, assumendole, si unisca a loro; ma in quest’incontro – come nell’unionecon la ninfa-ondina – è insito un rischio mortale. Nel corso della tradizione stori-ca, infatti, le immagini si cristallizzano e si trasformano in spettri, di cui gli uomi-ni diventano schiavi e da cui sempre di nuovo occorre liberarli. L’interesse diWarburg per le immagini astrologiche ha la sua radice nella coscienza che “l’os-servazione del cielo è la grazia e la maledizione dell’uomo”, che la sfera celeste èil luogo in cui gli uomini proiettano la loro passione delle immagini. Come per il

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vir niger, l’enigmatico decano astrologico che egli aveva riconosciuto negli affre-schi di Schifanoja, essenziale è, nell’incontro col dinamogramma carico di ten-sioni, la capacità di sospenderne e invertirne la carica, di trasformare il destino infortuna. Le costellazioni celesti sono, in questo senso, il testo originale in cuil’immaginazione legge ciò che non è mai stato scritto.

Nella lettera a Vossler, inviata pochi mesi prima della morte, Warburg , rifor-mulando il programma del suo atlante come una “teoria della funzione della me-moria umana per immagini [Theorie des Funktion des menschlichen Bildgedächt-nisses]”, lo mette in relazione col pensiero di Giordano Bruno: “Lei vede, che ionon devo qui lasciarmi sfuggire ad alcun costo, come ho fatto finora, la possibi-lità di entrare in rapporto con una figura che mi affascina da quarant’anni e che,per quanto posso vedere, non ha trovato finora la sua giusta collocazione nellastoria dello spirito: Giordano Bruno”.

Il Bruno a cui Warburg qui si riferisce in relazione all’atlante, non può cheessere il Bruno dei trattati magico-mnemotecnici, come il De umbris idearum. Ècurioso che, nel suo studio sull’Arte della memoria, Frances Yates non si sia ac-corta che i sigilli che Bruno inserisce in questo libro hanno la forma di genitureastrologiche. Questa somiglianza con uno degli oggetti privilegiati delle sue ri-cerche non poteva non aver colpito Warburg, che, nel suo studio sulla divinazio-ne nell’età di Lutero, riproduce geniture quasi identiche. La lezione cheWarburg trae da Bruno è che l’arte di padroneggiare la memoria – nel suo caso, iltentativo di comprendere attraverso l’atlante il funzionamento del Bildgedächt-nis umano – ha a che fare con le immagini che esprimono la soggezione dell’uo-mo al destino. L’atlante è la mappa che deve orientare l’uomo nella sua lotta con-tro la schizofrenia della propria immaginazione. Il cosmo, che il mitico eroeomonimo sorregge sulle sue spalle (Davide Stimilli ha ricordato l’importanza diquesta figura per Warburg) è il mundus imaginalis. La definizione dell’atlantecome “storie di fantasmi per adulti” trova qui il suo senso ultimo. La storia del-l’umanità è sempre storia di fantasmi e di immagini, perché è nell’immaginazio-ne che ha luogo la frattura fra l’individuale e l’impersonale, il molteplice e l’uni-co, il sensibile e l’intellegibile e, insieme, il compito della sua dialettica ricompo-sizione. Le immagini sono il resto, la traccia di quanto gli uomini che ci hannopreceduto hanno sperato e desiderato, temuto e rimosso. E poiché è nell’imma-ginazione che qualcosa come una storia è diventata possibile, è attraverso l’im-maginazione che essa deve ogni volta nuovamente decidersi.

La storiografia warburghiana (in questo vicinissima alla poesia, secondo l’in-discernibilità tra Clio e Melpomene che Jolles suggeriva in un bel saggio del1925) è la tradizione e la memoria delle immagini e, insieme, il tentativo dell’u-manità di liberarsi da esse, per aprire, al di là dell’“intervallo” fra la pratica miti-co-religiosa e il puro segno, lo spazio di una immaginazione senza più immagini.Il titolo Mnemosyne nomina, in questo senso, il senza immagine, che è il congedo– e il rifugio – di tutte le immagini.

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